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«Dentro la tempesta che ancora stiamo vivendo, finalmente vediamo un approdo: abbiamo una rotta chiara verso un porto sicuro»

Nel pronunciare in Parlamento queste parole il 2 dicembre 2020, il ministro Roberto Speranza consapevolmente usava l'allegoria antica dello Stato come nave.

I versi del poeta lirico greco Alceo (vissuto tra il VII e il VI sec.a.C.) sono i primi a restituirci, nella tradizione letteraria occidentale superstite, la metafora della tempesta marina a significare la discordia tra i cittadini che cerca di sommergere, con irrefrenabili flutti, la nave dello Stato. In mezzo allo scontro di venti contrari, Alceo combatte coraggiosamente per salvarsi e impedire il naufragio, anche se le vele sono ormai strappate e ridotte in cenci, l'acqua della sentina ricopre la base dell'albero. La parte politica avversa, però, prende infine il sopravvento e Alceo, abitante di un'isola, deve perciò prendere il mare con l’amarezza dell’esilio, abbandonare il porto sicuro e amato della patria. Dopo Alceo, l'allegoria dello Stato come nave ha avuto un’estesa fortuna.[1]  

Il ministro Speranza ci ha voluto dare un messaggio rassicurante: il peggio è passato,intendeva dire, abbiamo saputo resistere e adesso la rotta giusta ci conduce al vaccino, ossia alla salvezza dall’epidemia. Implicitamente il ministro ha paragonato se stesso, e il governo in generale, ad un buon capitano, al timoniere che anche in mezzo ai turbini tiene dritta la rotta e deve ancora adesso mantenerla con forza, sino al porto, mentre la tempesta infuria ancora.

Il ministro Roberto Speranza che indossa la mascherina

Speriamo tutti che sia così e che la metaforica rassicurazione del ministro non sia  prematura, come l’annuncio di una vittoria ancora non conseguita o di un approdo che nemmeno si vede all’orizzonte.

La metafora della nave come Stato, abbiamo ricordato, ha una lunghissima tradizione letteraria; ma non sempre serve a descrivere la situazione di un pericolo a cui si sta sfuggendo, anzi. Nella tragedia greca, poi, la stessa immagine si colora di una straniante ambiguità e di ironia tragica. Nell' Antigone di Sofocle, ad esempio.  

Nell’Antigone, Creonte, il nuovo Re, si presenta ai cittadini, all’inizio del suo mandato, come colui che sa raddrizzare la nave dello Stato sconvolta da onde cicloniche e la sa condurre alla salvezza, ma ben presto si rivela proprio colui che la stessa nave fa colare a picco, restando coinvolto pure lui nella sventura.

Nella vicenda messa in scena dall’Antigone di Sofocle, il Re Creonte prende il potere di diritto dopo che i due legittimi eredi al trono della città, i fratelli Eteocle e Polinice, figli di Edipo e suoi nipoti, si sono reciprocamente uccisi: Polinice, invero, era stato privato dal fratello del suo diritto a regnare, e perciò nel tentativo di conquistare quel che era suo, aveva portato guerra alla propria città. Un atto di tradimento, è vero, ma giustificato dall'incapacità del fratello di concedergli il diritto a regnare alternandosi con lui. In ogni caso, con la reciproca uccisione la guerra è finita: la città può tirare un respiro di sollievo, i nemici si ritirano, e diventa nuovo Re il parente più prossimo dei due, Creonte. 

Dunque Creonte assume il potere in uno stato d’emergenza e a poche ore dalla fine di una guerra civile e fratricida, le cui conseguenze possono ancora non essere esaurite, perché fautori di una parte o dell'altra possono pur essere ancora presenti nella città: una situazione difficile, pericolosa, ai limiti del regolare, in una polis divisa. Eppure Creonte sembra molto sicuro di sé e apertamente dichiara che, realizzando i suoi principi, salverà la città ancora stordita dalla guerra.

Dopo aver convocato gli anziani della città, dunque, Creonte comincia così il suo discorso: «uomini, gli dei di nuovo, dopo aver sconvolto la nostra città, ne hanno raddrizzato saldamente la rotta e la riportano al sicuro».  Solo tenendo lo Stato/nave sulla giusta rotta è possibile, dice ancora Creonte, «farsi degli amici», stringere patti e alleanze. Creonte sogna già un impero con sé stesso al comando.

Senonché Creonte sbaglia e i suoi sono inutili sogni di gloria: la nave del suo Stato non è affatto al sicuro né la tempesta è passata, anzi, un metaforico terribile ciclone sta per abbattersi sulla città e sulla sua famiglia.

In cosa consiste l'errore del nuovo Re? Creonte proclama l’idea per la quale il nemico dello Stato non può mai essere considerato amico, nemmeno dopo morto. E perciò emana un decreto eccezionale per cui Polinice, che ha capitanato un esercito nemico per attaccare la città, deve rimanere insepolto: al corpo, cioè, non viene riconosciuto un diritto elementare, quello del compianto funebre e di una tomba. L’amico della città, invece, il fratello Eteocle, che ha difeso la polis, viene onorato con solenni funerali di Stato. Chi vuole costruire un impero deve subito mettere in chiaro chi siano gli amici e chi i nemici: questo fa Creonte, ma il suo concetto di 'nemico', e l'odio ad esso correlato, finisce con l'includere anche chi nemico non è più, un corpo morto, il cadavere di un principe, un suo familiare e uno dei due figli dell'antico Re. Creonte vuole escludere per sempre quel corpo dalla polis, negargli identità e storia, negargli anche l'amore delle sorelle ancora vive, Antigone e Ismene. 

Una specie di vendetta postuma, un esempio che si vuole dare ai sediziosi, una maniera forte di ammonire eventuali fautori di Polinice e di ristabilire la pace nella città. Si possono attribuire diverse motivazioni alla decisione di Creonte, ma non si può mettere in dubbio che il suo decreto venga emanato con l’intenzione di ristabilire la pace, la concordia e la ‘salvezza’ della sua Tebe.

Invece proprio quel decreto, il primo e unico atto di governo del nuovo Re, si svela lesionista e autolesionista, perché – come sappiamo – Antigone, sorella di Polinice e di Eteocle, si ribella, cerca platealmente di seppellire il corpo del fratello, non accetta quell’offesa al cadavere, difende il legame familiare con il fratello e il proprio onore: perciò viene imprigionata e condannata a morte, anzi, ad essere sepolta viva; così si uccide, per evitare la tortura estrema.

La morte di Antigone provoca, a catena, quella di Emone, figlio dello stesso Creonte e suo promesso sposo, e di Euridice, moglie di Creonte, che non sopporta il dolore di madre privata dei suoi figli. Nel racconto mitologico, infatti, Creonte e Euridice avevano già pagato un altissimo tributo alla guerra, nella quale avevano perso già un figlio. Con Emone scompare ogni possibilità di proseguire la stirpe e dunque, per loro, ogni prospettiva di futuro.

Creonte è perciò completamente annientato, perde la sua famiglia e con essa anche il suo nuovo regno. La città ritorna nella tempesta.   

L’equiparazione della città ad una nave che ha trovato la rotta giusta, nel primo discorso pronunciato in scena da Creonte, è una metafora non appropriata alla situazione, usata dal Re in maniera inopportuna: quell’affermazione suona ironica, tragicamente ironica, perché il pubblico sin dall’inizio del dramma conosce come va a finire tutta la vicenda (e la conosceva anche quando l’Antigone fu messa in scena nel 442 a.C.).

Creonte afferma e crede di agire secondo giustizia, mentre invece commette un atto di imperdonabile hybris, ‘arroganza’: commette un errore di principio, perché si vendica di un morto e così trasgredisce le leggi non scritte della consuetudine e – diremmo noi – dell’umanità e del rispetto.

Ma Creonte commette anche un errore di comunicazione politica. Invece di diffondere un messaggio di riconciliazione e di pace, si serve del terrore. Invece di superare le ferite della guerra, le rende visibili e tangibili a tutti, lasciando nudo un cadavere ucciso in duello, esposto agli elementi naturali e agli animali. Nessuna guerra dovrebbe prevedere un tale scempio, tutte le guerre conoscono però l'infierire sul corpo del nemico ucciso, lì dove ancora gli animi non siano pacificati. 

Inoltre Creonte prevede una punizione, addirittura la pena di morte, esagerata rispetto alla trasgressione di voler seppellire un cadavere; per giunta applica quella pena persino quando scopre che il colpevole è la sorella del morto, una ragazza non ancora sposata, figlia di sua sorella, che ha agito per pietà e amore sororale.

Nella sua implacabilità, Creonte rivela la sua indole tirannica e non vuole tornare indietro nelle sue decisioni, dunque ritirare il decreto, nemmeno quando il figlio Emone, dotato di maggiore intelligenza politica, lo scongiura di ascoltare quel che si mormora in città, di assecondare il favore e l’apprezzamento di cui gode il gesto di Antigone e di mitigare la sua sentenza.

Emone  prega il padre di non comportarsi come «quel nocchiero che tende con vigore la scotta della nave e neppure un poco la lascia», perché – lo avvisa – comportandosi così «farà rovesciare la nave e per il resto del viaggio solcherà il mare con i banchi capovolti». Ma Creonte non vuol sentire ragione, anzi reagisce con rabbia e persino volgarità.

Creonte sbaglia e persiste nell’errore; il suo è uno sviamento che gli deriva da una caparbietà indomabile e dall’incapacità di ascoltare gli altri. Non è sempre stato così; in un certo senso, aver conquistato il potere assoluto gli ha dato alla testa.

Infatti Tiresia, il sacerdote che in extremis lo convince dell’errore compiuto, l’esperto dei segni divini che richiama la sua attenzione sulle conseguenze letali del suo gesto, gli ricorda che sino a che ha seguito i suoi consigli «la città è andata sulla giusta rotta»: usando ancora un’immagine nautica, Tiresia vuole dire che il buon Re è colui che sa ascoltare, e che quando non ascolta sbaglia irrimediabilmente.

Alla fine Creonte è convinto dal sacerdote: ma il pentimento del Re sarà tanto improvviso quanto tardivo. Pur affrettandosi a compiere i riti funebri in onore di Polinice, non riuscirà ad evitare la rovina, né potrà rimediare al proprio errore, al proprio sviamento.

Nella concezione greca, l’ate, l’errore, la follia, è solo in parte un fenomeno che ha cause nel carattere e nel comportamento dell’individuo: su tutte le vicende umane domina il volere degli dei, e la rovina attraversa le generazioni, colpisce una stirpe dall’inizio sino alla fine. Antonio Latella ha paragonato i miti tragici greci alle moderne serie televisive che raccontano la storia di una precisa famiglia, e la similitudine è accettabile. Anche l' Antigone ne è un'esemplificazione, perché costituisce la puntata finale di una lunga serie iniziata con l'abbandono del piccolo Edipo da parte del padre e della madre. Perciò il coro ricorda che quando un dio decide di scuotere una casa, non smetterà sino a che non si sia giunti alla fine di quella famiglia. 

L’ate,  la ‘rovina’, voluta dagli dei,è simile - dice ancora il coro - ad «un’onda che si insinua sino al profondo, e sommuove il fondo nero del mare, e fa gemere le rive flagellate dai venti contrari.» La metafora marina qui si amplia e diventa oscura, enigmatica: per l’essere umano non c’è salvezza quando gli dei decidono la sua condanna.  In questa visione pessimistica delle umane cose, la speranza diventa la massima delle illusioni, perché alberga nell’ignoranza, e lascia così che inconsapevolmente l’uomo scambi per bene ciò che è male: quel che, in effetti, fa Creonte. E non solo lui: un’altra terribile metafora nautica apre un’altra tragedia di Sofocle, l’Edipo Re.

Mentre nell’Antigone la situazione iniziale è quella della guerra civile, nell’Edipo Re è di una terribile epidemia, una pestilenza, che sta uccidendo la città; fiduciosi, i cittadini si rivolgono al loro Re in cerca di aiuto: «vedi in che tempesta si agita la città: è incapace, ormai di sollevare il capo dal gorgo sanguinoso che la affoga». Edipo, da buon Re, promette di salvare la nave della città che versa in tanto pericolo. Come sappiamo tutti, sarà proprio lui, Edipo, a rivelarsi la causa del morbo e della rovina della città. Solo la sua cacciata renderà la città di nuovo libera e salva.  

La tragedia greca non è un trattato politico e non è nemmeno un manuale del buon governo; non offre soluzioni pratiche, spesso è costellata da massime di saggezza popolare e di buon senso. Le parole del ministro Roberto Speranza, in un momento davvero drammatico della nostra storia, ci hanno solo ricordato l’uso della metafora nautica in due tragedie greche che tra l’altro raccontano del potere, dei suoi limiti, del rispetto per gli uomini, delle sventure volute dagli dei. Non vogliamo certo così dire che il ministro Speranza sia come Creonte o come Edipo.

Ma l’uso tragico della metafora ci induce a riflettere: forse si deve dubitare di chi si propone con sicurezza come il buon nocchiero, specie se la tempesta non è ancora passata. La causa del naufragio, più che negli eventi naturali, sta spesso nell’inabilità del capitano e del suo equipaggio. All’origine di una sventura che si perpetua per generazioni, c’è sempre un atto di hybris, di arroganza o di violenza; c’è sempre un errore e un errare della mente umana. Anche i Greci, del resto, sapevano che le tempeste, reali e metaforiche, si possono prevedere, e che il buon nocchiero le sa fiutare nell’aria.  

 

 [1] come abbiamo imparato da Bruno Gentili (Pragmatica dell’allegoria della nave in: Poesia e pubblico nella Grecia antica. Da Omero al V secolo, Edizione aggiornata, Milano, Feltrinelli, 2006, pp. 292-316).

 

Nelle immagini: il ministro Roberto Speranza indossa la mascherina; un'immagine dal film 'La tempesta perfetta' di Wolfgang Petersen (2000); un manifesto di propaganda di Stalin, il 'grande timoniere'.