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Proseguiamo la nostra rubrica Studiosi, con il profilo che a Benedetto Marzullo (1923-2016) ha dedicato uno dei suoi allievi, Marco De Marinis, in occasione della giornata internazionale di studi dedicata al grecista allievo di Giorgio Pasquali.

Le pagine che seguono sono tratte, leggermente variate, dal più ampio contributo Note rapsodiche e stravaganti per un maestro eccentrico, con cui  De Marinis apre il recente volume collettivo Benedetto Marzullo. Il grecista che fondò il DAMS, a cura di Angela Maria Andrisano e Vinicio Tammaro (Padova, Libreriauniversitaria,2019), frutto di una giornata di studi tenuta a Ferrara nell’ottobre 2017. Abbiamo pensato utile riproporre al pubblico di ‘Visioni del tragico’ soprattutto queste pagine che si occupano  del rapporto tra lo studioso di teatro tragico greco e la sua più generale idea di teatro. Quasi tutti contributi lì raccolti si toccano gli studi più propriamente teatrali, sia comici che tragici, di Marzullo, che ha insegnato a lungo a Bologna e poi a Roma Tor Vergata (l’indice del volume si legge qui ). 

Per il rapporto fra Benedetto  Marzullo e il teatro antico è corretto parlare di una lunga, ininterrotta militanza critica (per altro, egli fece anche parte per molti anni della Associazione Nazionale dei Critici di Teatro). Questa frequentazione, appassionata ed esigente insieme, inizia con l’antologia di testi drammatici greci e latini La commedia classica, apparsa nel ‘55,[1]  nella quale si offriva un’ampia raccolta di capolavori del teatro antico, organicamente scelti, motivati e tradotti da vari studiosi. Ad essa  fa seguito, nel ‘59, l’edizione critica (con traduzione) del Misantropo di Menandro allora da poco riscoperto.[2] Nel ‘68 viene pubblicata da Laterza la  traduzione completa di Aristofane, alla quale egli  continuerà a lavorare senza tregua nei  decenni successivi (l’ultima edizione, rivista e corretta, con il testo greco a fronte e una nuova Introduzione,  è del 2003).[3] Infine, del ‘93, ma anche in questo caso a conclusione di almeno un ventennio di serrate indagini e proposte provvisorie, è la vastissima e innovativa indagine intitolata  I sofismi di Prometeo.[4]

Sia nei contributi teatrologici  in volume sia in quelli solo nominalmente minori, colpisce innanzitutto il modo in cui Marzullo, partendo dalle competenze disciplinari dell’antichistica, e in particolare dalla  raffinata strumentazione del  filologo classico, riesce a integrare in maniera decisiva l’una e le altre con la curiosità onnivora dell’autentico cultore di cose teatrali, provvisto di una  sensibilità ed  una erudizione oggigiorno   molto rare, ma anche – e non secondariamente – con le inquietudini e le istanze del theatergoer contemporaneo.

Numerosi sono gli apporti, sia filologici che metodologici ed epistemologici,  da Marzullo ininterrottamente  forniti con i suoi studi sulla drammaturgia classica: dallo svecchiamento della “lingua” di Aristofane al ristabilimento della corretta scansione dei suoi dialoghi (l'interlocuzione); dall’indagine acuta e innovativa sui meccanismi del comico, a partire come  sempre dall’interrogazione dell’amato protocommediografo,[5] alla decisiva postdatazione del Prometeo, definitivamente sottratto ad Eschilo.

Non potendo parlare di tutto, farò soltanto due eccezioni. La prima riguarda proprio l’imponente analisi testuale e contestuale della tragedia pseudo-eschilea. Nei  Sofismi di Prometeo l’indagine di Marzullo ha il pregio insolito (almeno per l’ambito antichistico) di comporre – anche attraverso stimolanti paralleli con fenomeni di altri momenti della storia del teatro –  uno spaccato vivacissimo della civiltà scenica in una Atene al declinare della sua età d’oro, il terzultimo decennio del V secolo  a. C.: un periodo dominato dal “nuovo teatro” di Euripide e Aristofane, dai Sofisti e dalle convulsioni sociali e politiche del dopo-Pericle, con l'ascesa al potere di Cleone nel 426. Ne emerge il quadro, con molti aspetti di novità, di una cultura teatrale caratterizzata da un forte gusto melodrammatico (nel senso, come precisa l'autore, proprio del mélo del tardosettecentesco Pixérécourt), con una ricerca ossessiva di effetti spettacolari (in particolare, scenotecnici) e di coups de théâtre patetici e terrificanti, ma anche dal sofisticato dispiegamento di tutti i mezzi di seduzione verbale, canto monodico compreso. Questo è quanto il nostro studioso argomenta  con grande dovizia di pezze d’appoggio, testuali e contestuali, sincroniche e diacroniche. Ma la persuasività della sue congetture  poggia anche  - non secondariamente - sull’efficacia di una scrittura densa, incalzante, sintatticamente aspra a tratti,  ma sempre icastica,  innegabilmente affascinante. Permettetemi di offrirne un breve esempio, estratto dalla  pagina in cui Marzullo si forza di condensare  le risultanze della propria indagine:

 Il Prometeo rifiuta la vecchia “forma-tragedia”, si abbandona al “patetico”, inaugurato dall’Aiace di Sofocle, al vittimismo celebrato dal medesimo eroe. Si dedica alla ribellione antitirannica, di cui l’Antigone costituisce appassionato archetipo, scopre la “coscienza” individuale, il diritto di sbagliare, pur consapevoli di infrangere la norma: propugnato dalla Medea di Euripide, assiomaticamente negato da Socrate, che viene puntualmente (testualmente) smentito dal Titano, strabiliantemente fattosi uomo, addirittura cittadino. […] In realtà Prometeo è un controrivoluzionario, combatte la brutalità di un potere, alle cui rivendicazioni ideologiche aveva sapientemente contribuito. Il nuovo tiranno è Cleone, contro di lui usa i medesimi Schlagwörter adoperati da Aristofane, si allinea con questi su un unico fronte, esploso alla metà degli anni Venti. Il destinatario della “tragedia” è patentemente mutato, egli si rivolge al popolo, assurge ad apostolo degli incolti, offre in sublime (in realtà plateale) esempio il proprio, laico martirio. L’Auctor del Prometeo “personalizza” la tragedia, ne stravolge ed oblitera l’antiquato coro, si fa “solistico” cantore della improbabile, pretestuosa vicenda. Disinvoltamente istituisce non una, ma una coppia di “monodie” […], con insaziabili, liricizzanti cantica espropria parodos ed exodos già corali, celebra inconditi refrains. Scopre la fragorosa vocazione del “tenore”, ne istituisce il lacrimevole, istrionico esibizionismo, gestuale, coreografico, oltre che melodico. Chi consideri contenuti, strutture, ragioni dello stravagante messaggio, dovrà riconoscervi l’insorgere (sorprendentemente già strutturato) del moderno “melodramma”. […]

E vengo alla seconda eccezione annunciata, la quale consisterà in alcune  considerazioni sugli apporti  più strettamente teorici dei contributi teatrologici di Benedetto Marzullo, la cui validità travalica ampiamente i confini del teatro antico.

Pur muovendo in prevalenza  da luoghi e problemi testuali puntuali (ad esempio, l'incipit dell'Edipo a Colono, con la sostituzione di picnóteron al vulgato picnópteroi, che apre a un' intera visione teatrale; oppure la parodos dell'Alcesti: entrambi i luoghi oggetto di reiterate, magistrali indagini)[6], egli  ha modo di sviluppare nel tempo, a vari livelli e sotto forme diverse, una vera e propria  riflessione sul linguaggio teatrale, sulle sue strutture e funzioni,  ovvero sulla sua semiologia, per dirla sinteticamente.  A sua volta, poi, questa riflessione lascia trasparire, e nello stesso tempo contribuisce a fondare, una ben precisa  idea di teatro. L’una e l’altra, riflessione linguistico-semiologica e idea di teatro,  risultano incentrate sulla nozione di “parola scenica”, che costituisce sicuramente la  più importante e originale acquisizione  del Nostro  nel campo degli studi teatrali.

E’, quello di “parola scenica”, un concetto che Marzullo non cessa di approfondire, precisare, sviscerare, arricchire nel tempo (ne fanno fede vari scritti dalla  fine degli anni Settanta agli anni Novanta, oltre naturalmente alla summa sul Prometeo di cui abbiamo appena parlato). Egli riesce così a conferirgli una pregnanza e una duttilità sicuramente sconosciute alle nozioni affini e anteriori di “word-scenery”, “Wortkulisse” e, in particolare,  “scenografia verbale”, da noi divulgato grazie agli anglisti specialisti di Shakespeare.[7] 

Parola scenica  – dunque –  come parola “olofrastica”, “plastica”, “pregnante matrice di azione”, parola “integrale”, “assoluta”, che “garantisce all’evento spettacolare autonomia espressiva, verificabilità”: uno strumento “mentale”,  che “non si pone, evidentemente, in luogo della scena, ma prima della scena: la rende superflua, la evoca e esorcizza insieme”;[8] in ultima istanza essa, a suo parere, “non differisce troppo […] dalla frase musicale: che comunica, senza (materialmente) rappresentare” .[9] Ben diversa la scenografia verbale, la quale invece “evoca la scena, non per la necessità strutturale, ma per una compiacenza egoisticamente decorativa”;[10] compiacenza che, secondo Marzullo, “deve […] assumersi costitutivamente estranea alla drammaturgia classica”.[11]

 Ulteriore, definitiva distinzione fra le due nozioni (in una nota):

 La “parola scenica” si distingue dalla “scenografia verbale”, come la structure dalla texture: si sostituisce alla scena, accade prima della scena. Il gusto per “descrizioni” sceniche assolute (di carattere prevalentemente lirico, e non drammaturgico) è prematuro nel quinto secolo, costituirà narcisistico appannaggio di una stagione, programmaticamente visionaria, più che concettualmente inventiva, quella alessandrina. La sua natura “barocca” ne farà dilettevole appannaggio del teatro elisabettiano. Shakespeare sembra (anche autoironicamente) abusarne: ma per suo tramite egli supplisce, non di rado, alla oggettiva indisponibilità di apparati scenici, di materiali attrezzature teatrali. Restituisce alla parola la sua potenza evocatrice di rappresentazione, la sua capacità di farsi integralmente “scena”.[12]

Si può anche non concordare sempre su tutti i risvolti di questa concezione; ad esempio,  sull’accumulo forse eccessivo  di capi d’accusa  nei confronti dell’attore (o meglio, di un certo tipo d’attore)[13]. Ma è innegabile che l’idea (sottesa ai contributi scenici di Marzullo) dello spettacolo come degradazione-degenerazione del teatro  costituisca una delle convinzioni  forti, che hanno fondato tutto un versante non secondario delle esperienze teatrali novecentesche (andando da Jacques Copeau a Jerzy Grotowski, per intenderci), oltre che della più avanzata riflessione contemporanea sul teatro.

A questo punto resterebbe ancora da parlare del traduttore e dell’uomo di teatro che Benedetto Marzullo è pure stato, già sul finire degli anni Cinquanta, quando collaborò all’allestimento dell'appena riscoperto Misantropo menandreo (ad opera di Squarzina) al Teatro Olimpico di Vicenza, che si avvaleva della sua traduzione, fino agli anni Ottanta e Novanta, con ripetute partecipazioni  ai cicli di rappresentazioni classiche siracusane (Rane, Prometeo).

E qui il cerchio si chiude, permettendo di ricomporre il prisma della sua complessa personalità di studioso, intellettuale, insegnante, animatore culturale e suscitatore  del nuovo: prisma che – non sembrerà  troppo  autocelebrativo   ribadirlo – fu proprio la dura ma straordinaria   esperienza dell’ideazione e della gestione del DAMS delle origini a esaltare in tutte le  sfaccettature e, al tempo stesso, nella sua  coerenza profonda.

Mi si consenta a questo punto una nota più personale. Oggi noi celebriamo in Benedetto Marzullo un fondatore, un promotore instancabile di cultura, un grande studioso;  ma egli, secondo me,  è stato prima di tutto e soprattutto un maestro. Lo è stato per tanti, direttamente e indirettamente. Di sicuro lo è stato per me, che con lui mi sono laureato nel novembre 1971 con una tesi proprio su Aristofane, come ricordavo all'inizio. E’ dunque lui che mi ha spinto allo studio del teatro, di più, me ne ha inoculato la passione; è sempre lui che mi ha avviato alla ricerca universitaria. Spero che non siano troppo numerosi quelli che gliene vogliono  anche per questo.  Incontrare dei veri maestri è ormai sempre più raro, dentro e fuori dall’università: a me è successo e sono consapevole della grande fortuna che ho avuto.

Ma è il maestro che sceglie o siamo noi che scegliamo? Forse sono vere entrambe le cose, legate tra loro inestricabilmente. Quando entri a meno di vent'anni in un'aula universitaria e ti imbatti in una persona che diventerà per te una guida per sempre, questo cos'è: è essere scelti o scegliere? Quando scopri un libro o entri in un teatro e incontri uno spettacolo che ti segna nel profondo e magari ti cambia la vita, di che si tratta? Chiamata, destino, caso, serendipity?

 [1]    La commedia classica. Epicarmo, Cratino, Cratete, Ferecrate, Eupoli, Aristofane, Sofocle, Euripide, Eroda, Menandro, Plauto, Terenzio, a cura di B. Marzullo, Sansoni, Firenze, 1955.

[2]    Menandro, Il Misantropo, ed. critica e traduzione di B. Marzullo, Einaudi, Torino, 1959.

[3]    Cfr. supra, nota 2.

[4]    B. Marzullo, I sofismi di Prometeo,Firenze, La Nuova Italia Editrice, 1993.

[5]    Cfr. almeno, di chi scrive, Invenzione comica, invettiva giambica e ritualità “carnevalesca” in Aristofane, “Rivista Italiana di Drammaturgia”, 8, 1978, pp. 141-148 (article review scritto per la seconda edizione laterziana della traduzione delle Commedie).

[6]    Cfr. almeno, per il primo, La “Parola scenica”. II, in Scripta Minora, Hildesheim-Zürich-New York, Olms, 2000, pp. 293-299; per il secondo, La Parodos dell'Alcesti (Eur. Alc., 77-140),  ivi, pp. 314-374.

[7]    Cfr., in particolare, l'ormai classico contributo di Masolino D'Amico: Scena e parola in Shakespeare, Torino, Einaudi, 1980.

[8]    B. Marzullo, La “Parola scenica”, cit.,  p. 291.

[9]    B. Marzullo, La “Parola scenica”, cit.,  p. 304.

[10]  B. Marzullo, La “Parola scenica”,  cit., p. 296.

[11]   B. Marzullo, La “Parola scenica”, p. 297.

[12]   B. Marzullo, La “Parola scenica”, cit., p. 305.

[13]  Cfr. ad esempio B. Marzullo, L'attore senza volto, in Scripta Minora, vol. II, cit., pp. 712-723.

 

Nelle immagini: Marzullo e Dario Fo; alcune immagini dal DAMS e dalla Bologna degli anni '70 (Marzullo diresse il DAMS dal '70 al '75).