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Anticipiamo per la nostra ‘Biblioteca’ le pagine iniziali del primo capitolo, intitolato Histrio aeternalis, del recente libro di Leonardo Mancini, Carmelo Bene: Fonti della poetica,

apparso per Mimesis edizioni (qui).  Il saggio si concentra sui melologhi, un genere frequentato da Bene, opere in cui quella che l'artista chiamava phoné ebbe piena espressione, grazie alla collaborazione con alcuni musicisti. L'ultima parte del volume è dedicata alla rielaborazione da parte di Bene del "Manfred" di George G. Byron e Robert Schumann, esempio perfetto di poema drammatico con musica. Ringraziamo l’autore per aver concesso questa ripubblicazione adattata al nostro blog delle pagine  che ricostruiscono la genesi  della poetica del tragico ‘sospeso’ di Bene.  

 

Dopo l’epilogo dell’avventura cinematografica, iniziata con il film Nostra Signora dei Turchi (1968) e conclusa cinque anni dopo con Un Amleto di meno (1973), Carmelo Bene fece il suo ritorno a teatro con un rinnovato interesse per le relazioni fra testo, voce e musicalità, in una fase in cui parte dell’avanguardia di quegli anni si era indirizzata verso le correnti del Teatro Immagine e verso le forme di linguaggio non verbali.

Fu in questo mutato panorama che si riposizionò nella scena teatrale italiana il fenomeno Carmelo Bene, apparendo, a posteriori, come “l’unica presenza in grado di restituire prestigio a un modo di fare teatro da sempre identificato con la parola e con il carisma dell’attore, il detentore del logos”[1].

A ben vedere si può constatare come tale reputazione di unicità, anche in relazione all’uso della voce e agli stili declamatori, egli fosse già riuscito a conquistarla almeno a partire dai primi anni Sessanta. In un saggio dedicato al Caligola di Camus al Teatro delle Arti di Roma – lo spettacolo che segnò il debutto dell’attore nell’ottobre del 1959 – Roberto Tessari ha posto in evidenza alcuni tratti peculiari dell’atteggiamento della critica nei confronti di Bene: “da un lato, lo sconcerto nei confronti di un monstrum inclassificabile anche per i tratti esteriori del suo comportamento. […] Dall’altro, l’incoercibile sensazione di avere a che fare con una ‘eccezione alla regola’ tale da evocare il pur provvisorio cartiglio d’una mitica razza perduta: quella del ‘grande attore’ all’italiana”[2].

La capacità di attrarre su di sé giudizi di questo tipo, formulati persino attorno a una sorta di diade critica, si sviluppò nel corso della sua carriera e finì per consolidare questo modello ricorrente nel modo di guardare a Bene. L’impatto prorompente dell’“enfant terrible salentino, percepito come tale sin dal suo “esordio-shock”[3] ma anche in grado di riproporsi in quella veste nei decenni successivi, fu spesso associato alla riesumazione di antiche caratteristiche attoriali considerate perdute con il “tramonto” del grande attore.

Nel 1976 un articolo di Cesare Garboli sancì definitivamente l’inquadramento di Bene come “l’ultimo grande attore postumo[4], al quale fecero poi eco numerosi altri commentatori. Ma questo riconoscimento, seppur proveniente da firme autorevoli, non dovette soddisfare del tutto l’attore salentino, tipicamente insofferente verso definizioni che lo accomunassero a categorie già esistenti (“Io sono l’unico”, affermò nel debutto scaligero del 1979).

Nel 1980 Bene intervenne personalmente nel dibattito per esprimere il proprio punto di vista, ancora una volta spiazzante. In un articolo apparso sulla rivista “Sipario” con l’emblematico titolo Niente scuole[5], egli affrontò in maniera diretta la questione: innanzi tutto, “desacralizzando” i nomi di una tradizione celebre quale appunto quella del “grande attore” ottocentesco. Successivamente, formulando una propria definizione di tale nozione attraverso l’introduzione di concetti per lui cruciali quali la “musicalità”, il “depensamento” e la “sospensione del tragico”. Così dunque esordì:

La tradizione del grande attore? I grandi attori non hanno cambiato il mondo teatrale, facendone uno nuovo. E poi chi li ha veramente ascoltati? Prova a sentire quel poco che ci resta di loro, registrato. Sono cose da far ridere. Ho sentito Benassi, ma è un consiglio che non darei a nessuno quello di ripetere l’esperienza. Verdi, quando provava Otello, pose ai cantanti come conditio sine qua non, quella di non andare a sentire Salvini, che recitava la tragedia di Shakespeare. Che cosa avrebbero infatti ricavato dai furori di Salvini, se non la perdita della musicalità “vera”?

Pur se contenente alcune notizie inesatte, l’aneddoto servì comunque a Bene per sconfessare le tentazioni di un apparentamento troppo marcato con il modello ideale del grande attore. In verità si potrebbe restare sorpresi dall’apparente discordanza fra posizioni di questo tipo, espresse da Bene in quegli anni, e alcune sue successive dichiarazioni, dal tono radicalmente diverso.

 Nella conversazione del 1997 con Nicola Savarese, ad esempio, egli ricordò proprio l’ascolto degli attori del passato come un vero e proprio apprendistato nel periodo giovanile (“andavo a trovare la vedova di [Ettore] Petrolini e la figlia e mi facevano ascoltare degli Lp che non trovavi in giro: quelle cose studiavo, studiavo Petrolini, non studiavo in Accademia”[6]).

 Di questa molteplicità di approcci e di elementi messi in gioco, Piergiorgio Giacchè ha offerto una sintesi nel suo libro sull’Antropologia di una macchina attoriale: secondo Giacchè il rapporto con il modello del grande attore, da un lato, avvenne a livello parodistico (un procedimento che si rivelò per certi aspetti anche assimilativo), dall’altro ancora, rappresentò un inevitabile punto di partenza verso ulteriori e più personali sbocchi, culminati infine nella nozione della “macchina attoriale”.

Ma alla fine degli anni Settanta, nel pieno di una carriera che si preparava a una nuova e decisiva svolta, Bene si trovava in condizioni diverse e al centro dell’agone teatrale. Sconfessate le figure canoniche del teatro italiano, nell’articolo Niente scuole già citato, egli situò fuori dai confini del Paese le coordinate per lui più idonee. Così l’attore preferì attingere dalla vicina Francia i propri riferimenti ideali, con un atteggiamento parallelo a quello che, come si vedrà, terrà anche sul piano del pensiero filosofico: oltre al consueto omaggio ad Antonin Artaud, egli rievocò la figura dell’istrione cabotin[7], acquisita per il tramite di Vsevolod Mejerchol’d.

Superando l’accezione solo negativa del termine, Bene presentava il cabotin come un’“orchestra ambulante, che non simula mai, non s’immedesima (non ne ha il tempo), non realizza personaggi”. Della parola francese l’attore aveva dunque recuperato il significato originale di “comédien ambulant”, effettivamente attestato nei dizionari della lingua francese, ma poi slittato nel corso del tempo verso un’accezione prevalentemente negativa: secondo il Dictionnaire de l’Académie française, l’espressione era divenuta già nell’Ottocento sinonimo di “acteur médiocre et vaniteux” e ancora oggi può essere usata come aggettivo per indicare una persona “qui prend de grands airs et des attitudes théâtrales pour se faire remarquer”[8].

Sulla nozione di cabotin Bene si era già soffermato nel suo Discorso sull’attore, apparso in tre puntate su “Paese Sera” nel luglio del 1978[9], e poi ripreso, qualche anno più tardi, nel saggio del 1982 La Voce di Narciso[10], l’opera che raccoglie il nucleo del pensiero filosofico e teatrale di quella stagione della vita dell’artista.

Se, da un lato, egli rinnegò con forza ogni inquadramento nella categoria del teatro di prosa, dall’altro fornì la ricetta per salvare anche quel tipo di teatro: a tal fine, a suo avviso, occorreva recuperare “a ogni costo” il culto del cabotinage. A questo proposito, nel rileggere un famoso scritto di Mejerchol’d del 1912 intitolato Il baraccone, Bene trascrisse alcune riflessioni del regista russo assemblandole in un nuovo ordine.

Sebbene da lui non espressamente citata, la scelta del passo d’ispirazione, a posteriori, appare particolarmente significativa: l’articolo si rifaceva infatti al Piccolo baraccone del 1906[11] (Balagančik, dall’omonimo dramma di Aleksandr Blok), lo spettacolo con il quale, nel contesto colorato di un baraccone da fiera, Mejerchol’d aveva voluto smascherare i trucchi e i clichés del teatro, rievocandone al tempo stesso la perduta dimensione tragica e, per certi aspetti, religiosa[12].

Anche Bene, per parte sua, non era estraneo a questo tipo di ambientazioni: basti pensare al Pinocchio e all’Amleto del ’64, allestiti in un tendone al Festival di Spoleto, allo “sgargiante colorismo da fiera o da palio” descritto da Ripellino nell’Amleto televisivo del ’74[13], alla presenza di oggetti da circo equestre nel Pinocchio del ’62[14] o, ancora, all’orchestra da banda nel S.A.D.E. ovvero: Libertinaggio e decadenza del complesso bandistico della Gendarmeria salentina del 1974.

Proprio in occasione di quest’ultimo spettacolo emersero, nelle dichiarazioni di Bene, i primi elementi di una concezione “teologica” dell’arte, che sarà poi ripresa più ampiamente nel saggio dell’82 sulla Voce di Narciso.

Così, seguendo le indicazioni di Mejerchol’d del 1912, Bene accostò la definizione del cabotin alla tecnica del jongleur (oggi “artista da circo”, ma in francese antico anche “menestrello e cantore”[15]). Quest’ultima figura – è stato osservato da Raissa Raskina – era stata già trattata da Gordon Craig e da Georg Fuchs, i cui scritti esercitarono “un’enorme influenza” sul regista russo[16]. Poste queste coordinate, Bene collocò il suo teatro sulla linea che, da Diderot in avanti, aveva situato la recitazione lontano dai terreni dell’immedesimazione e della mimesi.

Che cos’è il cabotin? Cabotin è un commediante girovago, è un parente dei mimi, degli istrioni, dei jongleurs; è il possessore di una miracolosa tecnica di attore. È un inganno per sempre inaccessibile a chi non sa “mentire”.

[…]

Per salvare il teatro dal pericolo dell’asservimento alla letteratura, è necessario restituire ad ogni costo alla scena il culto del cabotinage. I nostri drammaturghi non conoscono affatto le leggi del vero teatro. Ha forse bisogno il letterato di un cabotin al suo servizio? Naturalmente no. […]

E allora, sull’asse Diderot-Wilde-Meyerhold-Artaud-Bene (“se l’immaginazione imita e lo spirito critico crea”), non-attore è la perfetta fusione del grande attore critico e l’istrione-cabotin che, in continuum, si assume il compito di complicare la vita al grande attore.[17]

Non occorre qui rimarcare che la figura dell’attore itinerante, evocata da Bene per il tramite di Mejerchol’d, non attiene solo alla Francia ma, transfrontaliera per definizione, è presente in quasi tutte le culture teatrali. Per quanto riguarda l’Italia, del resto, egli aveva espresso più volte un omaggio all’antica “stirpe” degli attori “scavalcamontagne”[18], del cui mondo ormai scomparso aveva potuto incontrare un esempio vivente nella Compagnia D’Origlia-Palmi: una “grandezza teatrale” rimasta, a suo avviso, insuperata.

È interessante osservare come Bene muovesse proprio da questa figura del “teatro all’antica” per elaborare la sua concezione dell’attore ideale: una concezione data dall’unione dell’attore itinerante e istrione (cabotin) con il “grande attore critico”, non asservito al dominio della drammaturgia e della letteratura.

I riferimenti agli autori da lui menzionati, sulla cui scia egli si poneva come ultimo esponente, tracciano in maniera significativa alcuni punti cardine della sua poetica attoriale: anti-emotiva (Diderot), criticamente autonoma (Wilde), convenzionale e anti-naturalistica (Mejerchol’d), destrutturante del senso e del linguaggio verso nuove dimensioni poetiche e sonore (Artaud).

Vale la pena soffermarsi brevemente sull’aforisma indicato da Bene dopo l’elenco degli autori a lui cari: “l’immaginazione imita e lo spirito critico crea”. In questo caso fu egli stesso a suscitare una certa confusione intorno all’origine della frase, finendo per trarre in “inganno” anche una parte della critica a lui più vicina, talvolta incline ad assumere le formule più ricorrenti dell’attore dando loro un valore quasi epigrammatico. Spesso erroneamente attribuito a Oscar Wilde, l’aforisma era in realtà frutto della penna di André Gide, il quale – come dichiarato dallo scrittore francese in una nota al suo saggio Baudelaire et M. Faguet – aveva, in una sola frase, “riassunto l’idea un po’ sparsa nel primo dialogo del Critico come artista di Wilde, nelle Intenzioni: ‘L’imagination imite. C’est l’esprit critique qui crée’.

Gide aveva dunque concentrato le teorie già espresse da Wilde in uno dei suoi dialoghi filosofici sul rapporto fra arte e natura (raccolti e pubblicati nel 1891 con il titolo di Intentions), nel quale la Vita era concepita come imitazione dell’Arte, e non viceversa. Entro questa prospettiva la “rivelazione finale”, già secondo Wilde, consisteva nell’idea che “il mentire, il dire belle cose non vere, sia l’obiettivo proprio dell’Arte”.

Di questa successione di ispirazioni letterarie Bene raccolse dunque l’esito finale, portandolo a sostegno della propria poetica teatrale.

L’importanza attribuita a questa teoria dell’arte è testimoniata dalla frequenza con cui essa appare anche a distanza di anni: già prima della Voce di Narciso, la massima era stata infatti menzionata, più estesamente, nell’incipit dell’Orecchio mancante (1970), senza tuttavia l’indicazione dell’autore e della fonte di provenienza. Successivamente, essa fu nuovamente ricordata nel colloquio satirico-filosofico del 1976 Il principe cestinato, prodotto per la Radiotelevisione svizzera: in quell’occasione Bene affermò di aver “scoperto” che l’attribuzione, in un primo momento da lui riferita a Wilde, era riconducibile a Diderot[19]. In realtà, come si è visto, non si trattava né dell’uno né dell’altro autore; tuttavia la linea teorica così tracciata ben collegava questi diversi autori e funse da ispirazione per la definizione di una poetica antinaturalistica che, già nel 1967-68, era apparsa a Corrado Augias chiaramente orientata all’“antiphysis”.

Vicissitudini storico-letterarie a parte, anche Bene sposò la concezione dell’arte di Wilde, riassunta da Gide, e, da sempre ostile alle teorie della recitazione come immedesimazione, fece dell’antirealismo la premessa per il proprio teatro.

Il rifiuto della rappresentazione – operato da Bene e da altri prima di lui – non era tuttavia fine a se stesso, bensì apriva la strada all’approfondimento di ulteriori percorsi attinenti all’esercizio dell’arte drammatica, fra cui, in particolare, la declamazione. Già Antonin Artaud, punto di riferimento inamovibile per Bene, aveva ironizzato sulle presunte ricerche di verità assolute sulla scena (“…Ah già, voi lavorate nella Verità!”, avrebbe affermato Artaud, ironicamente, in un dialogo con Charles Dullin).

Contestualmente, l’“homme-théâtre” francese (secondo la definizione di Barrault, poi adottata da Ferdinando Taviani anche per Bene, “uomo-teatro”), aveva elevato la declamazione a una dimensione superiore, inaccessibile alla recitazione come immedesimazione. Per Artaud la declamazione, scriveva Giovanni Macchia nel 1962, era “una forma di estrema interiorizzazione dell’anima. Declamare una poesia era come pregare, cioè espellere il male da noi stessi”[20].

La familiarità con la nozione del cabotinage fu anche favorita dalla lettura di Jules Laforgue, dal cui Hamlet ou les suites de la piété filiale (1886) Bene trasse la propria versione dell’Amleto nelle diverse edizioni teatrali, radiofoniche, televisive e cinematografiche da lui realizzate in un periodo di oltre trent’anni. Si trattava, in Italia, di un autore ancora poco noto e alla cui riscoperta Bene ha contribuito in maniera determinante.

 Nel 1925 era stato Anton Giulio Bragaglia, presso il suo Teatro degli Indipendenti, a portare in scena Laforgue con il Pierrot fumiste. Più tardi, l’Hamlet fu messo in scena da Charles Granval all’Atelier nell’aprile del 1939, con il già ricordato Barrault nel ruolo di Amleto e con le musiche di Darius Milhaud.

Sappiamo che il caso di Barrault dovette essere ben noto al giovane Bene sin dai primi anni Sessanta, anche per il tramite dell’editore e autore Roberto Lerici, ma la sua prima moglie, Giuliana Rossi, ha riferito la cosa di sfuggita e senza attribuire particolare importanza[21]. In ogni caso, nel capitolo su Mejerchol’d nella Voce di Narciso, Bene esordì proprio con una citazione laforguiana, da lui resa in versi: “Quando si finisce con la follia è segno / che s’è cominciato col cabotinage“Quand on finit par la folie, c’est qu’on a commencé par le cabotinage” (Jules Laforgue, Moralités légendaires, Banderole, Paris 1922, p. 44).. Infine, egli accostò la citazione laforguiana alla voce “Istrione” del Dizionario della lingua italiana Tommaseo-Bellini (1861), all’interno della quale evidenziava in particolare la trattazione sull’origine etrusca del termine sino alla sua fortuna nell’ambito dei ludi scaenici romani.

Del testo originale del Dottor Dappertutto (questo lo pseudonimo adottato nel 1910 dal regista russo[22]), Bene poteva aver letto la prima o la seconda edizione italiana apparsa nel libro La rivoluzione teatrale. Oltre a rivelare modalità di composizione a lui peculiari, il montaggio testuale eseguito da Bene sull’articolo di Mejerchol’d rivela in maniera significativa alcuni temi a lui cari.

Dopo aver delineato la definizione del cabotin (“cabotin è un commediante girovago, è un parente dei mimi, degli istrioni, dei jongleurs; è il possessore di una miracolosa tecnica di attore”[23]), egli mise in relazione il rifiuto del naturalismo con il dominio della finzione sulla verità (“è un inganno per sempre inaccessibile a chi non sa mentire”).

(…)

L’accostamento a Mejerchol’d fu uno degli elementi enfatizzati dalla critica francese in occasione della rentrée teatrale di Bene a Parigi nel 1977 (una prima frequentazione più in sordina, tra il 1970 e il 1973, fu invece omessa negli scritti autobiografici dell’artista).

Quell’anno Bene presentava a Parigi Roméo et Juliette e S.A.D.E., sollevando una nuova ondata di interesse nei propri confronti, anche grazie alla fama già acquisita con la circolazione dei suoi film oltralpe. A questo proposito, in un volume a lui dedicato dal Centre International de Dramaturgie in occasione del Festival d’Automne di quell’anno, José Guinot introdusse la figura dell’attore salentino ponendolo in relazione proprio con il regista russo e con la comune accezione del grottesco.

È interessante osservare i diversi atteggiamenti assunti dalla critica transalpina nei confronti di Bene, nelle varie fasi dei suoi soggiorni in Francia.

Da un lato si osserva la definizione di linee interpretative che furono elaborate, spesso con l’avallo o la complicità dello stesso attore, da una critica a lui favorevole e pronta a valorizzarne gli aspetti più innovativi (nonché legata talvolta da stretti rapporti di amicizia, come è stato il caso di Jean-Paul Manganaro); le pagine scritte in Francia a suo favore furono poi assunte da Bene, e dalla critica italiana a lui vicina, come una sorta di consacrazione da portare come trofeo e con toni di rivendicazione.

Dall’altro lato si assiste a reazioni meno mediate, talvolta scettiche o addirittura espressamente avverse, da parte di quanti furono meno disposti ad accogliere le provocazioni dell’artista. La sintesi fra questi diversi approcci restituisce un’idea d’insieme sulle reali proporzioni di un’accoglienza in Francia che, è stato ricostruito da Elisa Ragni[24], fu a tratti più altalenante di quanto non sia stato poi proposto dall’attore stesso.

Per parte sua Guinot, nell’introduzione a “Dramaturgie” del 1977, procedette con un taglio storiografico e scelse di mettere in luce un aspetto saliente nel teatro di Bene, ossia la centralità dell’attore rispetto all’insieme dello spettacolo. Si trattava di un elemento tipicamente “grandattoriale”, evidenziato anche in Italia in diversi scritti critici su Bene.

Fra gli altri Gigi Livio richiamò, nel merito specifico, l’assunzione ereditaria da parte di Bene, “principe della scena”, della tradizione ottocentesca proprio in virtù di tale caratteristica[25]. In termini analoghi si espresse anche Umberto Artioli, il quale definì Bene un “attore assoluto, sciolto non solo dalla sudditanza registica ma anche dall’ossequio al testo verbale”. Una centralità corrisposta da atteggiamenti sul palcoscenico che, va detto, non sempre piacque agli osservatori: fra le voci critiche, Vito Pandolfi polemizzò proprio su questo aspetto in un articolo apparso sulla rivista “Il Dramma” nell’ottobre del 1961. Recensendo lo spettacolo di Bene Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde di quell’anno, Pandolfi bocciò sia la scelta del testo di Stevenson (reputata poco interessante sul piano letterario e soprattutto teatrale), sia ancora una certa immaturità nelle scelte stilistiche da parte dell’attore, impegnato nella virtuosistica doppia interpretazione sia di Jekill sia di Hyde (recente, in Francia, era stato il film del 1959 Le Testament du docteur Cordelier di Jean Renoir, con Jean-Louis Barrault impegnato nella medesima operazione attoriale[26]). Nella sua analisi Pandolfi individuava, in anticipo sui tempi e con lucida chiarezza, anche alcuni tratti centrali nel teatro di Bene, che troveranno solo più avanti una sistemazione critica: fra le altre l’uso del testo come un “pretesto teatrale”, la preminenza della parola sull’immagine, l’esuberanza sul piano visivo e l’influenza di echi espressionisti e surrealisti (“le visioni del passato, in una luce nuova: da Sade a Lautréamont”). Ma per quanto riguardava la tendenza ad accentrare su di sé lo spettacolo, egli ammoniva l’attore: “l’accentramento su di sé fa correre gravi rischi, e certo non risponde all’invocazione posta nei manifesti: ‘per un teatro migliore’”[27].

In ogni caso, proprio la preminenza della figura dell’attore sulla scena e sull’insieme dello spettacolo, come osservato da Fabrizio Cruciani, costituisce il “nodo irrisolto e stimolante delle tensioni progettuali e sperimentate del teatro del Novecento”[28]. Con uno sguardo rivolto proprio al Novecento, Guinot, nel contributo su “Dramaturgie” poco sopra citato, tracciò una linea che, insieme a Bene, collegava Ettore Petrolini, Totò, Eduardo e Dario Fo. Entro questo contesto, il critico francese enucleò l’elemento del grottesco come un aspetto fondativo nel teatro di Bene e punto di congiunzione ideale con Mejerchol’d. Presentato come un “attore “istrione”, “attore del grottesco”, “attore “cinico”, Bene era dotato di “virtuosità della voce e dei registri, mobilità fisica e di doni d’imitatore e trasformista”[29].

Raissa Raskina ha posto in relazione la nozione del grottesco in Mejerchol’d con le categorie dello “straniamento (ostranenie) e del perturbante” nelle successive formulazioni di Viktor Šklovskij e di Bertolt Brecht[30]. Secondo la studiosa il regista russo sviluppò un’accezione del grottesco non lontana da quella data dai “romantici all’ironia, laddove la sua funzione è quella di fare da contrappeso al sublime. A questo proposito Raskina ha evidenziato un passo importante negli scritti sul teatro di Mejerchol’d (O teatre, 1913), che può essere qui interessante ricordare anche in relazione al Rosa e il nero di Bene del 1966 (ispirato al romanzo gotico Il monaco di Lewis), e, per certi versi, al “quasi-goticismo del Manfred: “come nel gotico sono straordinariamente equilibrate l’affermazione e la negazione, il celeste e il terrestre, il bello e il mostruoso, [il grottesco] non permette alla bellezza di trasformarsi in sentimentalismo (nel senso dato da Schiller a questa parola)”.

Si trattava di spunti teorici che l’attore salentino tenne a lungo in una certa considerazione, fra i rari riferimenti da lui espressamente attinti dalla storia del teatro (per Bene i “più bei saggi sul teatro” non furono quelli scritti dagli uomini di teatro[31]). Tipicamente insofferente alle letture teatrali, egli menzionò l’influenza di Mejerchol’d anche nella famosa conversazione del 1988-89 con Umberto Artioli; in quella occasione, parlando della sua Cena delle beffe di quell’anno (con musiche di Lorenzo Ferrero)[32], Bene richiamò il procedimento, da lui perseguito, dello “sgambettamento del tragico da parte del comico[33].

L’elaborazione teorica, avvenuta dopo gli sviluppi della stagione concertistica, aveva ricongiunto i due perni opposti del teatro in un’unica dimensione complessiva. In questo senso egli sentì di aver operato un superamento delle teorie che pure lo avevano in un primo momento ispirato: così, dapprima, affermò che “il cabotinage non è – come dice Mejerchol’d – l’attore che girava per la Francia e poi aveva il cabotin per contraddirlo. No, fa parte della medesima attorialità”. Poi, nel corso del dialogo con Artioli, tornò sullo stesso punto: “Mejerchol’d sosteneva che il grande attore girava in Francia col cabotin accanto, e il cabotin aveva funzioni di contrappunto ironico. Nel mio spettacolo le due cose si fondono, fanno parte della stessa attorialità, che è comica e tragica insieme”.

Come si è visto la posizione di Bene appare più complessa di una semplice presa di distanza da una tradizione teatrale, di cui, talvolta, egli si interpretò persino nel ruolo di vivificatore. Volgendo lo sguardo alla stagione dei melologhi, in un’intervista del 1983 (l’anno dell’Egmont), Bene tornò nuovamente sulla questione del “grande attore”: da un lato, faceva risalire al suo debutto a ventidue anni di età l’ingresso in quella dimensione; dall’altro, affermava di aver presto rinnegato quel modello, imputando al veleno del successo la causa dei suoi primi ripensamenti e lo scoppio di una vera e propria crisi esistenziale (tema in effetti poi presente nel suo secondo romanzo, Credito italiano. V.E.R.D.I. 1967). Alla lettura proposta da alcuni opinionisti di un “Grande Attore mancato dei nostri tempi” egli rispondeva nella seguente maniera:

La faccenda non mi riguarda, anzi mi lascia del tutto indifferente. Il Grande Attore mi deprime. È una maschera del passato. A vent’anni io ero già un Grande Attore. Facevo il Caligola di Camus, ero un debuttante, ma critici come Sandro De Feo gridavano al miracolo per la mia interpretazione. Avessi mosso un dito, avrei avuto allora il teatro italiano ai miei piedi. Invece fui assalito da una terribile crisi esistenziale.

Perché?

Il successo mi aveva colpito come una droga, e io lo vomitavo come un cibo indigesto. La nausea non mi permise di proseguire sulla via del Grande Attore. Capivo, sia pure confusamente, che quello non era il mio destino. Così abbandonai le scene e mi ritirai a Firenze. Nella patria di Dante, nutrendomi solo di poesia, meditai sull’esperienza che avevo fatto, e mi svuotai nell’attesa dell’evento che cambiò la mia vita.

L’evento rivoluzionario che cambiò la vita del giovane Bene, menzionato nel prosieguo dell’intervista, fu la lettura dell’Ulisse. Pubblicato in Italia nella traduzione di Giulio De Angelis del 1960, il libro impresse un segno profondo sulla sensibilità artistica dell’attore e sui suoi futuri passi. Omaggiato come la più importante opera del Novecento, l’Ulisse di Joyce ispirò l’elaborazione di un particolare modo di agire sulla scena, addittivo e sottrattivo al tempo stesso, che è stato evidenziato da Petrini.

Svincolatosi da modelli precostituiti, e intriso di influenze letterarie e musicali, Bene propose una propria visione del “grande attore”: al centro egli collocò la “Voce”, veicolo del “significante” e della “musicalità”, oltre il dominio del testo. Liberato dalle catene del discorso e della rappresentazione, il teatro del “grande attore” non doveva trasmettere concetti, bensì “rendere musica il logos”. Oltre alla ricerca della musicalità, insita in questo processo era anche una certa rinuncia al corpo, o, più precisamente, una sua concentrazione volta verso l’espressione dell’oralità. Nell’articolo su “Sipario” del 1980, Niente scuole, egli scrisse:

Il grande attore va considerato come l’immobilità assoluta. E come principio, però, di movimento, energia scatenante. La Voce, con la maiuscola, diventa allora significante, e non importa più che quello che dice. La musicalità autentica, bada bene, è estranea all’attore come lo si intende solitamente. […] La musicalità cui faccio riferimento non è il vocalizzo della Meredith Monk. È il contrario del belcanto. Direi che è più vicina alla tecnica del lieder, e in questo senso faccio un accostamento con la scuola austriaca. Il grande attore depensa il concetto, può anche tirare a sé l’emozione e la commozione del pubblico accelerando in senso musicale le parole, rendendole impronunciabili o ai limiti dell’incomprensibile. Ottiene trasporti nel pubblico tirandolo fuori dai concetti. Per questo il mio teatro lo capiscono anche i cinesi. La voce diventa significante. E perché questo si verifichi il discorso deve andare a monte: oltre il rappresentabile, la mimesi, il linguaggio inteso restrittivamente. L’attore che “interpreta” è anchilosato, si limita ad imitare. Come strade, invece, non ne vedo altre: il logos diventa musica, e perdita del logos insieme.

Come si legge in questo passo, oltre ai temi del “depensamento” e del rifiuto della rappresentazione, Bene non esitò a introdurre, nella sua trattazione teatrale, anche alcune precise nozioni musicali, fra cui quella dei Lieder e del belcanto, poste in opposizione fra di loro e secondo un ordine di preferenze che rispecchiava la propria concezione della voce sul piano attoriale.

Proprio in quegli anni, del resto, egli si era particolarmente avvicinato al mondo della musica, esibendosi nei teatri lirici di tutta Italia e collaborando sistematicamente con numerosi direttori d’orchestra (Sylvano Bussotti, Vittorio Gelmetti, Luigi Zito, Gaetano Giani Luporini, Francesco Siciliani, Piero Bellugi, Donato Renzetti, Marcello Panni, Salvatore Sciarrino, Gerd Albrecht, Lorenzo Ferrero).

L’attenzione posta da Bene ai Lieder è particolarmente significativa: da una parte, essa testimonia l’ambito degli interessi da lui coltivati nella sfera musicale; dall’altra, riflette un modo di operare nel sistema dell’arte che prediligeva generi rimasti minori in Italia Contestualmente al Lied, fra le nozioni musicali più frequentemente citate da Bene si devono ricordare anche il canto fermo e il basso continuo, chiamati in causa dall’attore per i risvolti relativi alla declamazione. In tutti questi casi si trattava di intrecci e di ispirazioni musicali che furono spesso avallate anche dalla lettura di testi filosofici, fra cui certamente Schopenhauer. Bene non disponeva di competenze teoriche e di solfeggio, ma intrattenne con la musica un rapporto fertile e vitale che esercitò un influsso determinante sugli sviluppi della sua concezione attoriale.

Da un punto di vista biografico è noto che la familiarità di Bene con la musica sia stata frutto di una passione coltivata sin dai primi passi nel teatro e, prima ancora, dalla giovinezza. Non a caso proprio l’assunzione ereditaria del modello del “grande attore” è stata messa in relazione da Tessari con uno degli elementi chiave nel modo di concepire la recitazione da parte di Bene: lo studio, riferito dallo stesso attore nella sua autobiografia, “delle voci liriche, i parlati d’opera, i recitati in musica”[34].

Diversi studi hanno ripercorso le radici di questa sensibilità di natura musicale: fra le altre esperienze sono state ricordate le lezioni di canto tenore frequentate negli anni della giovinezza, la cultura operistica profusagli dalla zia materna a Lecce, e persino, in una certa misura, la partecipazione assidua come chierichetto alle messe a Campi Salentina.

A questo proposito, va inoltre evidenziato il periodo di studi di Bene presso i Padri Scolopi nella sua città natale, dove egli ricevette una cultura classica (un elemento biografico che condivise, per altro, con alcuni celebri dicitori ottocenteschi[35]). Già a quindici anni di età, secondo la vasta e accorata testimonianza di un suo compagno di scuola sino al liceo, Bruno Putignano[36], l’adolescente Bene aveva dimostrato una passione ossessiva per la declamazione e, successivamente, per il canto da tenore, due discipline da lui coltivate in maniera maniacale. Fu anche sulla base di questo ricco bagaglio personale che Bene conquistò quella “musicalità del linguaggio” che, secondo la definizione di Roberto Alonge, costituisce proprio una delle caratteristiche del “miracolo del grande attore”[37].

Un miracolo che, nel caso di Bene, assunse davvero i tratti della straordinarietà: pur operando al di fuori dei circuiti produttivi ufficiali e in condizioni quasi sempre precarie, egli era riuscito, giovanissimo, a firmare una serie di spettacoli decisivi nei primi anni Sessanta. Tale impeto produttivo aveva attirato sull’attore attenzioni crescenti da parte di artisti, critici e intellettuali che gli valsero in seguito uno status importante, in vista dei successivi passi[38]. Fra gli altri giova qui ricordare lo Spettacolo concerto Majakovskij, debuttato nel 1960 alla Ribalta di Bologna (oggi Centro Teatrale La Soffitta) e poco dopo ripreso nel ’62 a Roma, per un totale di cinque edizioni principali fino al 1980. Segnando una serie di debutti per Bene (oltre a quello “registico”, seguirono nel 1961 quello discografico, nel 1968 l’esordio nei teatri lirici e nel 1974 la prima produzione televisiva), lo spettacolo costituì la prima e decisiva esperienza di collaborazione con un musicista sulla scena: fu infatti con Sylvano Bussotti che Bene, a ventidue anni di età, si trovò immerso nella creazione di una partitura testuale e sonora originale, anticipando le sue future esperienze di declamazione nei melologhi e percorrendo modalità d’interazione con la musica destinate ad accompagnarlo nei decenni successivi. Sul valore di quell’incontro sono significativi i racconti forniti successivamente da entrambi gli artisti: con le dovute differenze nelle reciproche prospettive, essi convergono nel riferire lo spirito comune che li aveva animati, volto al superamento delle partiture convenzionali, testuali e musicali.

Fu questo l’esordio di un procedimento creativo che non abbandonò mai la ricerca teatrale di Bene e che caratterizzò anche le successive fasi della sua produzione. L’approccio “conflittuale” al testo creò le premesse per l’elaborazione di nuovi tipi di partiture teatrali composte all’insegna di collage originali nei quali elementi diversi dello spettacolo convivevano in stratificazioni complesse. Pur se con specificità proprie, la scrittura scenica di Carmelo Bene permette di collocare l’artista all’interno di processi tipicamente novecenteschi.

A questo proposito Lorenzo Mango, in un suo libro del 2003[39], ha evidenziato alcuni elementi comuni alle avanguardie artistiche di quel periodo intorno alla centralità di tale nozione, intesa come luogo di sintesi e d’incontro di tutti gli elementi e di tutti i segni del teatro. Fra gli altri aspetti Mango ha evidenziato la frammentazione e la destrutturazione dell’opera come tappe essenziali del processo creativo, il rifiuto della rappresentazione, il ruolo crescente affidato alla dimensione acustica (suoni, musica, rumori), sino a “una sostanziale negazione dell’esito rappresentativo del linguaggio”.

 

 

[1]              S. Sinisi, Neoavanguardia e postavanguardia in Italia, in Storia del teatro moderno e contemporaneo. III. Avanguardie e utopie del teatro. Il Novecento, a cura di R. Alonge e G. Davico Bonino, Einaudi, Torino 2001, p. 712.

 

[2]              R. Tessari, “Caligola” di Carmelo Bene, “L’Asino di B.”, 4, 2000, p. 5.

 

[3]       R. Tessari, “Caligola” di Carmelo Bene, cit., p. 1. Sulla ricezione critica del primo Bene segnalo il saggio di D. Visone, Carmelo Bene. Un attore artifex agli esordi tra provocazione e conformismo borghese, “Acting Archives Review”, 3, 2012, pp. 166-170.

 

[4]              C. Garboli, Bene, grande attore postumo, “Il Mondo”, 22 aprile 1976, p. 59.

 

[5]              C. Bene, Niente scuole, “Sipario”, 405, 1980, p. 55.

 

[6]              Bene in cucina. Nicola Savarese intervista Carmelo Bene, Edizioni Di Pagina, Bari 2019, p. 149.

 

[7]              Nell’organizzazione dei ruoli del teatro italiano il termine “cabot” indicava la figura dell’“attore giovane”: a questo proposito, cfr. la testimonianza di Marco Praga ricordata nel volume a lui dedicato da G. Pullini, Marco Praga, Cappelli, Bologna 1960, p. 9.

 

[8]              Cfr. la voce “cabotin, -ine”, “Dictionnaire de l’Académie Française”, 9ème édition, disponibile online all’indirizzo web: https://www.dictionnaire-academie.fr/article/A9C0046.

 

[9]              C. Bene, Discorso sull’attore, “Paese Sera”, 1 luglio 1978, p. 3; Id., Discorso sull’attore/2 – L’avvento della donna, “Paese Sera”, 7 luglio 1978, p. 3; Id., Piccola teoria dell’attore e del teatro. 3, “Paese Sera”, 20 luglio 1978, p. 3.

 

[10]            C. Bene, La voce di Narciso, a cura di S. Colomba, Saggiatore, Milano 1982.

 

[11]            Nella versione francese l’articolo del 1912 è stato tradotto con il titolo “Le théâtre de foire”: cfr. V. Meyerhold, Écrits sur le théâtre, traduction, préface et notes de B. Picon-Vallin, La Cité – L’Âge d’homme, Paris 1973, t. I., pp. 181-202.

 

[12]            Scrive Raissa Raskina: “Nel Balagan, il regista s’interroga sulla possibilità stessa di ospitare tra le mura teatrali una qualche forma di esperienza religiosa: ‘Ma ecco il problema: può il teatro accogliere nel proprio grembo il ‘mistero’?’”. Ead., Mejerchol’d e il Dottor Dappertutto, cit., p. 33.

 

[13]            A. M. Ripellino su Amleto, così citato in L. Squarzina, Il romanzo della regia. Duecento anni di trionfi e sconfitte, Pacini, Ospedaletto (Pisa) 2005, p. 439.

 

[14]            S. Vendittelli, Carmelo Bene fra teatro e spettacolo, a cura di A. Petrini, Accademia University Press, Torino 2015, p. 35.

 

[15]            Secondo il Dizionario dell’Academie française, il termine jongleur, attestato già dal XIII secolo (derivante dal latino joculator), indicava una sorta di “ménestrel qui allait de ville en ville, de château en château, disant des vers en s’accompagnant d’un instrument, ou récitant des contes, fabliaux, etc.” (“Dictionnaire de l’Académie Française”, 9ème édition : https://www.dictionnaire-academie.fr/article/A9J0262, ultima consultazione 10 giugno 2019).

 

[16]            Cfr., a questo proposito, R. Raskina, Mejerchol’d e il Dottor Dappertutto, cit., p. 37.

 

[17]            C. Bene, La voce di Narciso, cit.; ora in Id., Opere, cit., pp. 1025-1026.

 

[18]            Cfr. Bene in cucina. Nicola Savarese intervista Carmelo Bene, cit., pp. 37, 152.

 

[19]            “La massima è di Diderot, non è nemmeno di Wilde, l’ho scoperto dopo io: “l’immaginazione imita, dice Diderot-Wilde, e lo spirito critico è quello invece che crea”: così affermò Bene nelle battute finali del dialogo con Maurizio Grande nel “colloquio satirico-filosofico” del 1976, Il principe cestinato.

 

[20]            G. Macchia, Il mito di Parigi. Saggi e motivi francesi, Einaudi, Torino 19813, p. 271.

 

[21]            G. Rossi, I miei anni con Carmelo Bene, Meridiana, Firenze 2005, p. 61.

 

[22]            Il cavaliere Dappertutto è uno dei personaggi de Le avventure della notte di S. Silvestro di Hoffman, poi presente anche nei Racconti di Hoffman di Jules Barbier e Michel Carré, da cui Jacques Offenbach trasse l’omonima opera rappresentata per la prima volta a Parigi al Théâtre National de l’Odéon il 21 marzo 1851 (J. Offenbach, Les contes d’Hoffmann. Drame-fantastique en cinq actes / I racconti di Hoffmann Jules Barbier et Michel Carré, a cura di C. Casini, Utet, Torino 1973). Secondo Béatrice Picon-Vallin il Dottor Dappertutto fu per Mejerchol’d un vero e proprio “doppio” (p. 30). L’idea e la scelta dello pseudonimo gli erano stati proposti da Kuzmin: cfr. V. Meyerhold, Ecrits sur le théâtre, cit., p. 25.

 

[23]            C. Bene, La voce di Narciso, cit., p. 50.

 

[24]            Anche a proposito della narrazione autobiografica delle vicende francesi Elisa Ragni ha parlato di una “ricostruzione tendenziosa e volutamente lacunosa del passato, che Bene mette in atto nel momento in cui redige le sue memorie”: E. Ragni, Nota su Carmelo Bene in Francia, cit., p. 229. Della stessa autrice segnalo Il libro di teatro di Carmelo Bene, “Rivista di letteratura teatrale”, 2, 2009, pp. 158-176.

 

[25]            G. Livio, La scrittura drammatica. Teoria e pratica esegetica, Mursia, Milano 1992, p. 14.

 

[26]            Le Testament du Docteur Cordelier, 1959, regia di J. Renoir. Con J.-L. Barrault, T. Billis, M. Vitold, J. Topart, M. Gary, G. Modot.

 

[27]            V. Pandolfi, Le attrazioni dell’avanguardia: a servizio di quale causa?, “Il Dramma”, a. 37, n. 301, ottobre 1961, p. 76.

 

[28]            F. Cruciani, Registi, pedagoghi e comunità teatrali nel Novecento (e scritti inediti), Editori&Associati, Roma 19952, p. 33.

 

[29]            J. Guinot, Le théâtre du grotesque, in Carmelo Bene. Dramaturie, cit., pp. 2-3.

 

[30]            R. Raskina, L’estraneità del familiare: grotesk, ostranenie, perturbante, “Ricerche slavistiche”, 12 (58), 2014, pp. 323-340.

 

[31]            “Bisogna rovinare le rovine”, come voleva Jarry. Per sostituire al presepe inanimato del nostro teatro una poetica viva (si chiami “di pretesto”, “totale”, o della “crudeltà”, bisogna smetterla di consultare i nostri scrittori e uomini di teatro: non hanno niente da raccontarci, nemmeno il fascino d’essere “sorpassati”. I più bei saggi sul teatro li ha scritti e sta scrivendoli altra gente che l’attore non vuole fare per vergogna (li ha scritti Beckett nel L’innominabile, in Malone muore, in Molloy; Wilhelm Reich in tutte le sue opere destinate ad altro. La magia di Artaud è nella fisica di Heidegger: “Per tanto tempo abbiamo pedinato un mostro… e alla fine abbiamo scoperto che quell’essere siamo noi”). C. Bene, con pinocchio sullo schermo (e fuori), “Sipario”, 244-245, 1966, p. 93.

 

[32]            Bene propose la prima edizione della sua Cena delle beffe di Sem Benelli alla Pergola di Firenze l’11 gennaio 1974, con musiche di Vittorio Gelmetti. Successivamente egli propose una seconda edizione al Carcano di Milano nel gennaio del 1989, con musiche di Lorenzo Ferrero.

 

[33]            U. Artioli, C. Bene, Un dio assente, cit., p. 79.

 

[34]            Il passo citato da Tessari è tratto da C. Bene, G. Dotto, Vita di Carmelo Bene, cit., p. 61.

 

[35]            Si pensi alla formazione presso i Padri Scolopi ricevuta, in epoche diverse, da Antonio Morrocchesi e da Luigi Rasi, di cui si parlerà più avanti per la fortuna ottocentesca della declamazione a Firenze. L’Istituto dei Padri Scolopi a Campi Salentina, fondato da San Giuseppe Calasanzio, è tutt’ora esistente, costituendo la presenza più meridionale dell’ordine delle Scuole pie in Italia. Nel 1633 esso fu dotato della ricca biblioteca, ancora oggi funzionante, intitolata Biblioteca Calasanziana.

 

[36]            B. Putignano, Carmelo Bene. Magia di un sogno. L’infanzia – l’adolescenza, Libreria Pensa Editrice, Lecce 2013, p. 46.

 

[37]            R. Alonge, Teatro e spettacolo nel secondo Ottocento, Laterza, Roma-Bari 1988, pp. 31-33.

 

[38]            Fra gli spettatori del teatro di Bene, Giuliana Rossi ha ricordato la presenza di Federico Fellini (“Una sera avemmo tra gli spettatori anche Federico Fellini. Durante lo spettacolo si sporse in avanti e si teneva la testa fra le mani, tutti si chiedevano cosa ne pensasse di questi attori, ma lui rimase immobile e alla fine della rappresentazione se ne andò in silenzio”; G. Rossi, I miei anni con Carmelo Bene, cit., p. 54).

 

[39]            Mango ha individuato in Roger Planchon il primo uso, nel 1961 del termine di scrittura scenica, a proposito del teatro di Brecht (É. Copfermann, Planchon, La Cité, Lausanne 1969, p. 123). Così infatti scrive Mango, nel suo libro del 2003: “Possiamo parlare di scrittura scenica, dunque, secondo Planchon, quando, a partire da Brecht, i codici scenici intervengono in prima persona, ed in maniera autonoma, nella costruzione della macchina drammatica. Quando, cioè, da elementi di illustrazione del dramma si trasformano in elementi costitutivi dello stesso. Quando, cioè, l’orizzonte di riferimento dell’azione teatrale si sposta dalla pagina alla scena, nel senso che ciò che accade materialmente sul palcoscenico non è la semplice illustrazione, o traduzione di quanto prescritto sulla pagina ma ha una sua originalità e specificità. Non ripropone ma pone, non rappresenta ma presenta”. L. Mango, La scrittura scenica. Un codice e le sue pratiche nel teatro del Novecento, Bulzoni, Roma 2003, pp. 20-22.