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Per la nostra Biblioteca  segnaliamo qui il libro di Andrea Rodighiero, La tragedia greca, il Mulino, Bologna 2013, riproducendone parte dell’ Introduzione, e specificamente le pagine che si occupano del rapporto tra il termine ‘tragedia’ e il concetto moderno di ‘tragico’ e che contengono, inoltre, un sintetico panorama di storia degli studi.  

Dalla drammaturgia alla storia del genere poetico e delle tradizioni mitiche, dalle vicende politiche di età classica alle articolazioni del pensiero e della cultura dei Greci, attraverso il filtro dell’epica e della grande poesia lirica per coro, il libro di Andrea Rodighiero affronta i temi essenziali per la comprensione della tragedia greca e della sua messinscena: ossia come nasce questo genere letterario, a quale pubblico è destinato, come sono organizzati gli spazi e i tempi delle rappresentazioni, quale sia la struttura dei testi. Si esplora inoltre il ruolo svolto dal mito e dal sacro, il suo impatto sulla città di Atene nel V sec. a.C., si passano in rassegna le opere dei grandi autori (Eschilo, Sofocle ed Euripide), i temi portanti delle tragedie superstiti (destino e morte), le figure eroiche (Agamennone, Edipo, Antigone, Medea). Articolato in sei capitoli, fornito di un utile glossario e di una bibliografia di base, il libro si spinge anche oltre la storia della tragedia greca del V secolo, per toccare temi e problemi di quel che ci resta della tragedia ‘post-classica’. Raccomandabile come manuale introduttivo allo studio delle tragedie greche, il libro tuttavia non manca di analisi e interpretazioni di dettaglio e suggerisce prospettive di ricerca. Ringraziamo l’autore e l’editore per aver permesso la ripubblicazione di questa premessa. Come corredo iconografico, abbiamo scelto le copertine di alcuni libri che possono servire per seguire alcuni percorsi di storia delle idee e degli studi accennati in queste pagine.

 

  1. Tragedia greca e tragico

«Che cos’è una tragedia attica?»: sulla soglia di questo interrogativo si apriva, nel lontano 1889, un saggio di Introduzione alla tragedia del maggiore dei filologi classici vissuti a cavallo tra Otto e Novecento, Ulrich von Wilamowitz-Moellendorff. Alla semplicità della domanda non poteva e non può fare seguito un’altrettanto semplice risposta, e non solo per la millenaria distanza che ci separa dal luogo e dal tempo in cui la tragedia venne concepita e rappresentata, la città di Atene del v secolo a.C. Un’esegesi che da allora si è protratta fino ai giorni nostri può infatti difficilmente direzionare il lettore d’oggi verso formule definitorie fisse, certo comode ma inevitabilmente parziali. Nessun intervento, articolo o libro sul dramma attico può considerarsi sincero se non è consapevole anche del fatto che si colloca nel punto preciso di un dibattito complesso e stratificatosi nel tempo. Il fine delle pagine che seguono, dunque, è quello di offrire alla domanda in esergo non una sola risposta ma uno spettro di risposte, ci si augura, sufficientemente ampio benché necessariamente non esaustivo. Né, soprattutto, definitivo. Lo sforzo è quello di tenere insieme i molti «che cos’è» che il nesso ‘tragedia greca’ (un sostantivo designante un genere letterario-teatrale e un appellativo geografico) è in grado di includere sotto il profilo del suo rapporto con la città che l’ha prodotta, delle pratiche di messa in scena, delle forme testuali assunte di volta in volta e dei suoi contenuti.

Ma andranno prima di tutto brevemente spiegati il senso e la portata di un pur fertile equivoco contenuto in un’apparente sinonimia. È già chiaro da queste righe che il nesso ‘genere + città-civiltà’ è avvertito come non separabile. Il contesto gioca il ruolo di uno sfondo (la città greca di Atene) dal quale ciascun dramma si affaccia sulla scena della storia letteraria imponendosi all’Occidente come modello che ancora non abbiamo smesso di interrogare, interpretare, copiare e travisare. Tanto da rendere possibile un’affermazione come questa: una «visione tragica della vita […] è il principale contributo del pensiero greco alla nostra civiltà»[1]. Dentro il solco di queste secolari riletture, infatti, è andata maturando l’assimilazione di due nozioni di per sé distinte come ‘tragedia’ e ‘tragico’. L’idea, di primo acchito generica, è però facilmente comprensibile nelle sue conseguenze specifiche e nelle sue attuazioni pratiche, di situazioni, gesti, e destini: alcune storie sono indubitabilmente più tragiche di altre. E non si può del resto affermare che il dramma attico sia privo di eventi tragici: ne è al contrario colmo. Ma non tutte le tragedie finiscono male (cfr. 5.4), né la tragedia greca aveva come suo fine esclusivo, attraverso un’azione scenica, la rappresentazione e la realizzazione del ‘tragico’ inteso come sequenza di eventi luttuosi e devastanti. Potremmo dire che il tragico (concetto a geometria variabile e dipendente dalle declinazioni di ciascuna delle sue ‘filosofie’) ha bisogno della tragedia più di quanto la tragedia greca – perfettamente definita in un determinato spazio e dentro un certo tempo – non abbia bisogno del tragico.

Ma se nel corso del volume potremo almeno in parte esimerci dall’occuparci di questo vincolo fecondo, non farne cenno significherebbe obliterare d’un colpo secoli di pensiero. Peraltro ci sbarazzeremmo ingiustamente di un’evidenza: che cioè Prometeo incatenato alla rupe, Edipo parricida e incestuoso, Antigone, Alcesti morente, Medea tradita dal marito e figlicida e altri personaggi sono universalmente percepiti non solo come personaggi di tragedia (nella sua specificità di genere), ma anche come personaggi tragici (nel loro incarnare una rovinosa e funesta sorte apparentemente priva di significato, o come parte di un conflitto insanabile tra destino e realizzazione di sé). In questo senso, dunque, e a partire dalle vite di alcuni dei suoi protagonisti, la tragedia ‘ha a che fare’ con il tragico, che delle sue trame e dei suoi nomi ha continuato ad alimentarsi. La filosofia, gli studi di estetica, parte della critica letteraria e anche la teologia si sono perciò a volte appropriate non tanto della tragedia greca come ‘forma’, quanto piuttosto del presunto portato universale che se ne è potuto ricavare: sull’individuo, sulla sua condizione disumana, sul suo rapporto con il proprio destino e con gli dèi, sull’irreparabile disfatta alla quale va incontro non solo il malvagio ma anche l’incolpevole proprio nell’istante in cui fa di tutto per salvarsi[2]. A questo connubio ha infine contribuito l’idea che si possa segnalare l’atto d’inizio ma anche la ‘morte della tragedia’ e del tragico. Essa sarebbe sancita, specialmente, dall’avvento del Cristianesimo. La rivelazione di una compatibilità tra sofferenza e vita umana, in nome di una conciliazione e di una redenzione che le trascenda oltre il conflitto, condurrebbe al superamento di una contraddizione: l’errore irrimediabile dell’eroe tragico antico (su cui sotto, al 4.3) secondo una dialettica che al delitto fa seguire il castigo si è oramai trasformato in peccato e nella sua espiazione, necessaria e possibile[3].

Ma a cosa serve chiarire in questa premessa che i due sentieri che si dipartono da tragedia e tragico non sono sempre perfettamente sovrapponibili? Serve specialmente per ribadire che esiste la difficoltà reale di dare per superata questa strettissima impasse. Il viluppo di riflessioni da Schelling a Hegel a Kierkegaard a Nietzsche a Benjamin a Szondi che si è raccolto intorno al termine ‘tragedia’ ha esercitato senza troppa sorpresa una magnetica capacità attrattiva, così che non è agevole mettere da parte lo splendido insieme delle teorie filosofiche e delle pratiche esegetiche che hanno contribuito ad assemblare in unità i due concetti. Tuttavia per lo studioso di teatro greco devono poter essere, quando occorra, dissociati. Di tutto questo il lettore d’oggi non può non tener conto, perché inseguirebbe altrimenti il falso mito di poter immaginare la tragedia greca nel suo quid originario, sciolta cioè da ogni rovello interpretativo e restituita alla sua primigenia essenza, significante in sé nella sua forma e nella sua funzione al di fuori di ogni operazione critica su di essa. Se questo fosse il tema del libro, le complesse diramazioni che si sono prodotte imporrebbero viceversa una declinazione al plurale. La tragedia greca andrebbe cioè messa di volta in volta al vaglio della molteplicità di filosofie e di dottrine del tragico fabbricate tra Otto e Novecento per poter rivelare a partire dalle parole e dai gesti dei suoi spesso sfortunati protagonisti in che modo sia stato inteso questo ‘assoluto’ universalizzato e sottratto alla sua origine. In effetti un rischio evidente della possibile assimilazione fra tragedia e tragico, come da più parti messo in luce, riposa proprio nell’allontanare le tragedie dalla loro non evitabile temporalità. Ciò comporta che le si fornisca di un preteso contenuto di verità capace di migrare in ogni epoca e quindi al di fuori della relazione con il pubblico a cui il testo era in origine destinato. La stessa tendenza del tragico a divenire un universale può essere causa, tuttavia, anche di un suo affrancamento dal genere: tragico e tragedia, date queste premesse, sono destinati alla separazione. Così il tragico nelle sue molte declinazioni può migrare in modo autonomo verso altre forme letterarie (ad esempio il romanzo)[4], dopo aver preventivamente trovato la supposta base su cui erigere il proprio edificio teorico nella concretezza della recita e del canto della tragedia greca.

 

 

  1. Percorsi della critica

Se però ci fermassimo soltanto sulla soglia di categorie di matrice ermeneutico-filosofica offuscheremmo l’oggetto che intendiamo illuminare. Tale oggetto è anzitutto da intendersi (ecco una prima risposta alla domanda iniziale) come uno spettacolo inserito in una pubblica festa, prodotto a partire da un testo in versi con precise caratteristiche compositive e formali, da destinarsi a degli attori e a un coro, composto da sezioni dialogate e sezioni cantate su una partitura musicale accompagnata da passi di danza, e concepito almeno all’origine per un determinato spazio (il teatro di Atene) e per il pubblico del v secolo a.C. Affiora a questo punto un ulteriore problema: se distinguendo in via definitiva fra ‘tragico’ come idea filosofica e ‘tragedia’ come modello testuale per la scena siamo usciti da un’autoreferenzialità che implichi necessariamente un’interpretazione, appunto, ‘tragica’ della tragedia, come ne possiamo intuire il senso? Attraverso quali alternative vie di lettura? Molte delle premesse teoriche novecentesche riverberatesi poi in un vasto spettro di teorie sulla tragedia hanno un’origine lontana. La loro embrionale gestazione trova terreno fertile a cavallo fra due secoli, quando nell’ambito delle scienze dell’antichità era già andato maturando un approccio che provasse ad allontanare la propria lente di ingrandimento dalla cornice del testo per dilatare il campo visivo. Esso andò così espandendosi verso la più vasta cerchia del contesto organizzativo e dell’esecuzione, con interesse specifico per gli aspetti musicali e soprattutto, nei primi decenni del xx secolo e dietro Nietzsche, per la provenienza del dramma da rituali più antichi (quando non primitivi o selvaggi: cfr. 1.1). Dall’altro crebbe l’attenzione per gli impulsi consci e inconsci, tradotti in azione, espressi dalla psicologia del personaggio tragico (Edipo in primis, dopo Freud).

Tali orientamenti entravano in collisione con la secolare esperienza di una filologia, viceversa, esclusivamente al servizio del testo, e per il testo, vale a dire per la ricostituzione il più possibile oggettiva dell’originale. Questa era la linea che aveva prevalso perlomeno nel corso di tutto l’Ottocento, e che ora da Wilamowitz e altri veniva traghettata dentro il nuovo secolo[5]. L’inesausta attività della Textkritik ha continuato a garantire la qualità delle edizioni e degli apparati su cui l’ermeneutica e la pratica del commento si sono messe alla prova; discipline affini come la papirologia e la paleografia e altre parallele come la stilistica, la linguistica e la filosofia del linguaggio, hanno reso la filologia sempre più consapevole della propria stratificata storicità, svincolandola così dall’accusa di una parcellizzazione del testo che facesse perdere di vista il dramma nel suo insieme[6]. Ma nonostante quello che potrebbe apparire come un upgrade della disciplina nel suo complesso, sembra di tanto in tanto riproporsi all’interno degli studi classici una resistenza difficile da annullare, che vede gli insegnamenti legati alle scienze del testo non del tutto amalgamati con gli ambiti della stilistica, della critica letteraria e dell’antropologia.

L’eroe tragico è dunque via via diventato un soggetto da indagare a partire dal suo temperamento e dal suo carico emozionale, dal suo stare nel mondo come, specificamente, ‘uomo greco’[7] e dalla sua posizione di asimmetria e spesso di rigidità rispetto a comportamenti e situazioni normati (il suo rapporto con l’universo degli dei, con la legge e il potere, le relazioni intrafamiliari, la philia, la vendetta: cfr. anche 4.3). Dall’altro lato invece il dramma attico concepito come un ‘intero’ dotato di una sua fisionomia formale, la somma di coro e attori, è stato riposizionato contro ogni idealismo nel contesto festivo della città e nel dibattito della polis.

Si tratta di sentieri che ovviamente procedono per continue intersecazioni. È quanto accaduto, ad esempio, con l’interpretazione dei conflitti che alcuni degli eroi tragici innescano in difesa di un principio, per l’indipendenza del singolo o per l’affrancamento del gruppo (o per vendetta). Le scienze storiche e sociali, con il supporto dell’antropologia strutturalista e della psicologia, hanno messo in un angolo la filosofia del tragico: storicizzati e ricollocati dentro il paesaggio culturale che li ha prodotti, tali conflitti hanno finito per incarnare l’anelito alla libertà dell’allora nascente democrazia ellenica. La città di Atene, quindi, ricorrerebbe alla tragedia per riflettere su se stessa, e lo farebbe anche attraverso molti altri filtri: la rappresentazione della tirannide come spettro da dissolvere, le logiche del contrasto politico nei discorsi opposti degli antagonisti, il ruolo delle donne e dei giovani, le norme del diritto messe di volta in volta alla prova, sancite o violate. In una formula, l’‘ideologia della città’ troverebbe manifestazione nelle maniere più varie al fine di dimostrare di volta in volta una coesione e un’organicità armonica capaci di superare dal di dentro il conflitto attraverso l’espressione e la messa in scena di scontri non sanabili. Il fine è quello di vedere confermata un’identità collettiva all’interno di dispute avvertite come non laceranti ma riconducibili al bene della comunità. Un approccio di questo tipo risente di alcune correnti del dibattito critico di matrice sociologica, parzialmente ispirate dallo strutturalismo e dall’ideologia marxista a partire da metà anni Sessanta del secolo scorso (soprattutto di scuola francese: fra tutti Jean-Pierre Vernant e Pierre Vidal-Naquet). «Si può dire – scrive Vernant – che la tragedia è la città che si fa teatro, che mette in scena se stessa davanti alla collettività dei cittadini»[8]. Tale autorappresentazione si realizzerebbe tramite l’uso di un linguaggio ambiguo, sfaccettato e doppio, e – oltre all’utilizzo di un coro – attraverso figure che siano in grado di rappresentare nella finzione del mito le tensioni, i ruoli, le forme di integrazione e di opposizione che strutturano la vita reale della città democratica. L’influenza degli scritti della scuola francese è stata forte a tal punto da suscitare vive opposizioni. Più spesso si è cercato di sussumerne alcuni punti-cardine in una più ampia prospettiva di ricerca, come ad esempio la rappresentazione delle opposte polarità uomo/dio, civico/selvaggio, natura/cultura, a loro volta di derivazione lévi-straussiana. Ciò che ha ricondotto in alcuni casi alla centralità dell’eroe tragico e al tentativo di definirne l’orizzonte di azione soprattutto nella sua relazione con il divino e con la sua capacità di affrancarsi da un primitivo stadio di inciviltà e violenza a favore di un ‘umanesimo’ civilizzatore all’interno della polis[9].

La coppia tragedia-città è andata per altri versi a definire negli ultimi anni un settore di indagine che non sembra avere condotto a conclusioni univoche, specialmente nel mondo anglosassone, dividendo la critica. Da un lato l’approccio storico-sociale difende la natura affatto politica e appunto sociale del dramma attico e l’importanza del contorno entro cui si situa. Dall’altro l’approccio ‘universalista’ non presuppone messaggi o contenuti in senso generale politici come una priorità del genere tragico, e nemmeno come una costante reperibile in tutti i drammi superstiti[10]. Sono soprattutto due le domande alle quali si è cercato di rispondere: i testi della tragedia e la circostanza festiva hanno a che fare con la politica, con la storia, con le pratiche collettive e istituzionali della città democratica? E se sì, in che modo troviamo in essa traccia di questo rapporto, attraverso quali travestimenti ideologici e linguistici, per il tramite di quali personaggi del mito e per quali fini? Si riprenderà la questione più sotto, in 4.4-4.5.

È noto che la religione e il rito costituiscono un organo di primaria importanza nell’articolazione della vita della città antica. La prospettiva storica offre dunque la possibilità di un’analisi dei lineamenti del testo e dei suoi locutori (con speciale riferimento al coro) che parta da un presupposto antropologico più circoscritto: l’idea che queste forme di rappresentazione rispondano a precise esigenze rituali, pur sotto il velo di una complessità che solo parzialmente ce ne fa intravedere il significato per così dire sacro. Un percorso di questo tipo è in parte ancora una volta collegabile alla scuola francese. Ma di essa non si esita a rilevare anche alcune incongruenze, come l’idea che il coro sia la voce e trasmetta l’opinione della città e dei cittadini (cfr. 5.3). Un essenziale punto di partenza consiste nel dare fortissimo rilievo proprio al contesto della performance tragica, la festa civica organizzata sotto il segno di Dioniso, in suo onore e nell’ambito di celebrazioni religiose a lui dedicate secondo regole di partecipazione e di selezione. Si riconosce così importanza primaria anche a ciò che precede e attornia la tragedia. La tesi di fondo è che i testi drammatici non potevano costituire solo una pura esperienza teatrale, ma acquisiscono per noi maggior senso se vengono restituiti alla loro occasione esecutiva e ricollocati nella cornice della cultura religiosa che li ha generati[11]. La tragedia articolerebbe un percorso di esplorazione ed elaborazione del dibattito religioso, e ogni dramma andrebbe considerato soprattutto come un atto di culto portato in scena, ‘ripresa mimica’ di altri atti rituali preesistenti, dove per rituale si intenda un programma di gesti e azioni da eseguire secondo modalità ripetute nello spazio e nel tempo capaci di far avvertire alla comunità un sentimento di solidarietà e di appartenenza. Non bisognerà dunque cercare di riconoscere nei cori formati da cittadini maschi di Atene, nelle preghiere e negli inni agli dei, o nella lunga serie di sacrifici compiuti o descritti in tragedia e nell’intervento attivo delle divinità la struttura codificata di un rito semplicemente trasposto dalla vita civile a una sua rappresentazione scenica che lo replica. Ogni volta che una pratica religiosa viene evocata, infatti, essa non rappresenta la ‘bella copia’ in forma di elegante poesia di un uso noto, riconoscibile e ritenuto efficace; tale pratica come forma del rituale viene invece riorientata e rifunzionalizzata all’interno del dramma in cui compare. La tragedia sarebbe perciò funzionale al riconoscimento, da parte di Atene, di una propria comune identità di tradizioni e di culto grazie soprattutto alla costante ‘bidimensionalità’ dei cori (cfr. anche 3.2). Essi sono infatti composti come parte del dramma da figure di pura finzione dentro un universo religioso fittizio, e contemporaneamente da cittadini che partecipano alla festa dionisiaca. Ne deriva il superamento della distinzione «dramma = secolare» vs. «rito = religioso», a favore di un’identificazione «dramma = rito». Entrambi, dramma e rito, possono prevedere azioni concrete, gesti e parole, uno spazio disgiunto con degli ‘officianti’ separati da un pubblico, e una momentanea sospensione del consueto flusso temporale.

Un pericolo possibile riposa nell’anteporre il rito al mito, a scapito di quest’ultimo. Si rischia cioè di finire per riconoscere al mito sulla scena una mera funzione di sostegno al rituale ‘agito’ nel dramma. Così le vicende portate a teatro si ridurrebbero a generica celebrazione dentro la festa per Dioniso o ad articolazione narrativa e a giustificazione eziologica dell’origine, della storia, e della persistenza di un determinato rito nella tradizione religiosa ellenica (cfr. specie per Euripide la n. 6 del cap. 4). Il contenuto del mito rischierebbe addirittura di diventare indifferente, intercambiabile e secondario rispetto alla festa stessa. È ad esempio quanto viene in parte implicato nell’approccio di John J. Winkler sul ruolo dei cori tragici: essi sarebbero il training degli efebi ateniesi (i giovani atti alla leva) partecipanti alla messa in scena del dramma come a un rituale iniziatico che li preparava alla vita militare da adulti; la partecipazione al coro costituirebbe quindi il punto più alto di un’educazione nella quale movimenti di danza e mosse del combattimento erano in continuità. Al di là della sua efficacia teorica, oggi respinta, l’affascinante studio di Winkler ha avuto insieme ad altri testi il merito di portare al centro del dibattito aspetti squisitamente antropologici legati alla rappresentazione, al contesto civico di produzione e di fruizione della tragedia. La tragedia verrebbe a essere il mezzo attraverso cui la comunità ateniese tramite un travestimento rituale sotto il segno di Dioniso dà vita alle proprie irrinunciabili pratiche di allontanamento, riconoscimento e integrazione. Questa momentanea assunzione da parte dei giovani di una ‘alterità’ dionisiaca giustificherebbe la presenza di cori di personaggi femminili, di stranieri, di schiavi e così via, ma finirebbe per verificarsi indipendentemente dagli aspetti formali e contenutistici e da qualsiasi riflessione critica sulla città, sulle categorie sociali e sui valori che strutturano la comunità[12].

Un posto particolare in questa breve rassegna merita il nome di Nicole Loraux (1943-2003, nella foto sopra). Pur partendo dalle premesse della psicologia storica di scuola francese, data l’appartenenza a una medesima humus culturale, la studiosa polemizza nei confronti dell’eccessiva storicizzazione cui sopra si è accennato. Viene perciò passata al vaglio critico la tendenza degli ultimi decenni del xx secolo a voler rintracciare indizi della storia politica reale tra le pieghe dei versi tragici, e l’idea che il senso della tragedia si possa riassumere in una rappresentazione controllata che la città di Atene vuole fornire a se stessa. La tragedia non sarebbe insomma un genere politico, ma al contrario antipolitico, perché mostra su larga scala situazioni e comportamenti in contrasto con il funzionamento ordinario e con il bene della polis. Svolgerebbe così il compito di portare alla luce non un sentimento di unità ma il valore in ultima istanza unificante del conflitto e della differenza inconciliabile. Lo strumento attraverso il quale si realizza la consapevolezza della necessità di questo ‘legame della divisione’ (la necessità del conflitto) sarebbe il canto delle donne sui morti. L’intonazione luttuosa del threnos, infatti, rappresenterebbe a sua volta la resistenza di quelle originarie forme di drammatizzazione che, ad esempio a Sicione, avrebbero visto la messa in scena delle ‘sofferenze’ degli eroi del mito (cfr. 1.1). Il fatto di aver riportato le donne al centro della scena attica deriva anche dall’impulso offerto a Loraux da una serie di riletture dei drammi attente soprattutto all’opposizione maschile/femminile, al rapporto fra i generi, e allo studio psicologico e politico-sociale delle azioni e delle relazioni verbali che ne derivano. Un approccio di genere e gender, focalizzato su condizioni particolari (verginità, matrimonio, maternità e assenza di figli, lutto, sacrificio, desiderio, identità sessuale) è stato particolarmente in voga nel corso degli ultimi due decenni. Esso ha contribuito allo studio della rappresentazione della differenza sessuale nella Grecia antica e delle conseguenti dinamiche e tensioni immaginate e rappresentate sulla scena ateniese, soprattutto per alcuni drammi euripidei (si pensi alla scelta di Alcesti, alla passione di Fedra per Ippolito, a Ifigenia, a Medea, al travestitismo dionisiaco di Penteo)[13].

L’interesse per le opere tragiche come partiture concepite prima di tutto per la scena è relativamente recente. Com’è ovvio non sono mancati saggi di drammaturgia, né lavori importanti sulle forme del testo nella loro relazione con i contenuti, e quindi sull’architettura interna e sulle caratteristiche propriamente letterarie della tragedia greca, specialmente in area germanica. In particolare a partire dagli anni Sessanta-Settanta del xx secolo si assiste a un vero e proprio revival di un interesse per il teatro greco come, appunto, teatro. La monografia che marca un punto di svolta verso specifici aspetti della performance antica si occupa soprattutto di entrate e uscite degli attori; essa è nondimeno il segno dell’attrattiva esercitata dalla tecnica drammatica, dall’arte della recitazione, dalla disposizione della scenografia, dallo studio degli spazi in rapporto ai testi (scena e orchestra), dai movimenti e dalle macchine teatrali e così via[14].

Non sarà inutile sottolineare che ciascuna delle linee-guida della ricerca qui sommariamente indicate è in varia misura presupposta anche nel resto del volume. E questo per una ragione di metodo alla quale si spera di prestar fede. L’indagine intorno ai luoghi e ai tempi nei quali si è attuata l’interpretazione può condurre all’idea che la tragedia non sia più affrontabile, come oggetto da investigare, al di fuori della (e a prescindere dalla) storia delle sue letture in un infinito gioco di decostruzioni. Avremmo dunque da esaminare, ad esempio, la tragedia greca di Nietzsche, la tragedia greca primo-novecentesca, la tragedia greca della scuola francese, e via di seguito. Si allargherebbe così sempre di più il raggio di indagine al contesto (culturale, politico, filosofico, economico, storico) che ha condotto caso per caso al prevalere di una certa linea esegetica. Procedendo per cerchi concentrici, tuttavia, ci si allontanerà sempre di più dall’anello iniziale che ha generato, nello stagno di questo ambito di saperi, tutti gli altri: la tragedia greca dei greci. Per provare a mettere a punto, oggi, una sintesi su di essa, è necessario far piazza pulita di forme di pregiudizio inclusive ed esclusive, con la consapevolezza che anche chi scrive fa parte di una tradizione costruita sulle basi oramai ampie del dibattito che lo precede, e si trova a operare dunque nella felice impossibilità di farne a meno. I modi e i metodi della ricezione del dramma antico costituiscono una realtà mobile e in continua trasformazione (non diremo per forza ‘evoluzione’).

 

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[1] Steiner 1992, p. 8.

[2] Così Szondi in un saggio del 1961: «a essere tragico non è l’annientamento in sé, ma il fatto che la salvezza si trasformi in annientamento; la tragicità non si compie nel declino dell’eroe, ma nel fatto che l’uomo soccomba proprio percorrendo quella strada che ha imboccato per sottrarvisi», trovando soltanto al termine del cammino salvezza e redenzione, con riferimento all’Edipo re di Sofocle (Szondi 1996, p. 79).

[3] Si veda K. Jaspers nel saggio Sul tragico (1947): «il cristiano credente non riconosce più una vera e propria tragicità. Poiché la redenzione è ormai avvenuta e si rinnova costantemente attraverso la grazia, agli occhi di questa fede non tragica le miserie e le sventure del mondo […] si convertono in una prova per l’uomo, attraverso cui egli consegue la sua salvezza eterna» (ora, in trad. it., in Jaspers 1987, p. 63). Cfr. anche Steiner 1992, pp. 286s.: «poiché è una soglia verso l’eternità, la morte dell’eroe cristiano può essere causa di dolore, non di tragedia».

[4] «Primo romanzo puramente tragico» venne definito a inizio Ottocento da K.W.F. Solger Le affinità elettive di J.W. Goethe (1809: cfr. Gentili – Garelli 2010, p. 129). Szondi 1996, p. 3, ribadisce che «solo a partire da Schelling vi è una filosofia del tragico»: Judet de La Combe 2010 traccia una storia del concetto di tragico con l’intento, a partire da esso, di gettare nuova luce sul senso della tragedia classica; per il Novecento cfr. la rosa di testi antologizzati in Garelli 2001, con Lanza 1996, Gentili – Garelli 2010, e Morenilla – Zimmermann 2000.

[5] Per la separazione che portò alla maturazione della filologia classica come disciplina autonoma e leader in ambito umanistico si potrà rileggere la sintesi di Degani 1999, che delinea il definirsi, nei primi decenni del diciannovesimo secolo, di un’opposizione anche personale tra l’approccio schiettamente filologico di G. Hermann e il più vasto interesse per le ‘scienze dell’antichità’ come totius antiquitatis cognitio, somma di dottrine distinte come la storia e l’archeologia, la linguistica comparata, lo studio, nei testi, del mito e della religione, propugnato da A. Böckh. Su Freud e la sua lettura di Edipo cfr. Condello 2009, pp. cxxviii-cxlvi.

[6] Nell’ininterrotta serie di commenti – lungo tutto il Novecento e oltre, con il ricchissimo Agamennone di Eduard Fraenkel (1950) a segnare una tappa fondamentale del percorso – si distingue l’ermeneutica filologico-filosofica di Jean Bollack e Pierre Judet de La Combe sotto forma di trattazioni monumentali in più volumi (alle parti liriche dell’Agamennone e all’Edipo re, rispettivamente 1981-1982 e 1990); se da un lato essa è fortemente radicata nella tradizione della filologia di matrice tedesca, dall’altro mira anche a rimetterne in causa i principi, procedendo non solo attraverso un’esegesi di tipo testuale ma attraverso la costruzione di una teoria generale dell’interpretazione e una sistematica analisi dei suoi percorsi, provando a riconsiderare le conclusioni della filologia come gli esiti di una scienza storica in movimento.

[7] Si tratta del titolo di un’opera della prima metà del Novecento di M. Pohlenz, che godette di una vasta fortuna insieme a La tragedia greca (cfr. rispettivamente Pohlenz 1961 e 1962). Per lo studio del ‘temperamento eroico’ (in specie sofocleo) Knox 1964 rimane un punto d’arrivo che molto deve agli studi dei decenni precedenti.

[8] Cfr. Vernant – Vidal-Naquet 1976 (1972), nonché Vernant – Vidal-Naquet 1991 (1986, si cita da Il dio della finzione tragica, p. 8). Tali prospettive di ricerca hanno trovato espressione anche in Italia in alcuni lavori i cui titoli già esplicitano un’appartenenza: lotta di classe, tiranno, società, ideologia: cfr. Lanza 1977, Di Benedetto 1971 e 1978, Citti 1979. Per la critica all’approccio francese si dovrà ricordare la polemica tra Vernant e Vidal-Naquet da un lato e V. Di Benedetto dall’altro (riepilogata in Di Benedetto – Medda 1997, pp. 365s.).

[9] Cfr. in particolare Segal 1981, con le considerazioni di Goldhill – Hall 2009, pp. 10-16 (si potrà risalire indietro fino al Sofocle di K. Reinhardt, del 1933: trad. it. Reinhardt 1989, sulla cui influenza cfr. anche S. Goldhill in Easterling 1997, pp. 328-331).

[10] Cfr. ad es. Goldhill 2000 e Meier 2000; per una sintesi della storia degli studi si vedano Saïd 1998 e Griffin 1999, il quale afferma (p. 77) che insistere su un’interpretazione politica del dramma attico conduce al rischio di perdere di vista «the real point of tragedy», perché i sentimenti dei suoi protagonisti sono più simili a quelli di eroi ed eroine da romanzo ottocentesco e spesso avrebbero poco a che fare con l’ideologia della città democratica (cfr. anche Garvie 2007).

[11] Per un primo orientamento cfr. Easterling 1988, Henrichs 1994-1995, Calame 1999, 2005, 2007 e 2012, Seaford 1994, Sourvinou-Inwood 2003, Csapo – Miller 2007. Per una critica a questo approccio si veda Judet de La Combe 2010, pp. 116-118: esso tenderebbe a individuare il senso della tragedia in elementi che non costituiscono il centro del dramma ma ne disegnano la ‘periferia’, vale a dire la festa di Dioniso – cornice che contiene i drammi, ma da essi indipendente – e gli atti rituali che esistono a prescindere dalla tragedia e dalla loro trasposizione sulla scena.

[12] In Winkler – Zeitlin 1990, pp. 20-62: i membri del coro sarebbero stati giovani al momento del loro servizio in armi e del passaggio all’età adulta; vi si propone anche un’etimologia del termine ‘tragedia’ come collegata al cambio della voce intorno ai 16 anni: il verbo tragizo varrebbe ‘entrare nella pubertà’. Il festival teatrale sarebbe stato dunque un’occasione per elaborare in ambito maschile l’appartenenza di matrice prettamente militare al corpo civico (fino all’idea di un coro che si muove compatto non diversamente da una falange armata). Un tentativo di rintracciare un caso esemplare di iniziazione efebica per il Neottolemo del Filottete di Sofocle (ma qui il coro non c’entra) era già stato condotto da Vidal-Naquet: cfr. Vernant – Vidal-Naquet 1976, pp. 145-169; lo storico francese, pur non condividendo l’equazione coro tragico = canto degli efebi, riconosce a Winkler almeno il merito di aver mostrato che «il registro degli efebi tragici è molto più esteso» di quanto egli stesso non avesse supposto: Ione, Ippolito e Oreste sarebbero tali (Vidal-Naquet 2002, p. 53, e Vidal-Naquet 1992, pp. 247-249).

[13] Si vedano ad es. Zeitlin 1996, McClure 1999, Foley 2001, i saggi in McCoskey – Zakin 2009. Per lamento femminile e tragedia cfr. Loraux 2001.

[14] Cfr. Taplin 1977, consacrato alla tecnica teatrale eschilea: l’a. traccia una sintetica ma utile storia degli studi in una ‘nota dossografica’ alle pp. 488s. L’interesse per gli aspetti formali è vivo a partire almeno da Nestle 1930 e da Kranz 1933, e cfr. i saggi raccolti in Jens 1971.