Archive Feelings. A Theory of Greek Tragedy è il titolo del pluristratificato, profondo e innovativo libro di Mario Telò, edito nella Serie Classical memories/modern identities, The Ohio State University Press, Columbus 2020 (si può acquistare qui).
Torneremo in altra sede su questo volume, del quale vogliamo proporre ai lettori del nostro blog la traduzione delle prime pagine (1-11) dell’Introduzione Re-impressions of Greek Tragedy: Toward Anti-cathartic Aesthetics.
La traduzione italiana è di Raffaella Viccei, rivista da Mario Telò, corredata da essenziali riferimenti bibliografici estrapolati dalle note.
Ringraziamo l’autore di Archive Feelings per averci generosamente concesso di pubblicare parte del suo lavoro in Visioni del tragico e segnaliamo che oggi, mercoledì 24 marzo, alle ore 18, Mario Telò interverrà nel Seminario online Una teoria della tragedia greca, organizzato da Luigi Battezzato nell’ambito del corso di Letteratura greca della Scuola Normale Superiore. L'autore ci segnala inoltre, tra i suoi riferimenti, il lavoro dell'artista italiana Elisa Giardina Papa, esposto al MOMA, che si può vedere qui.
Re-impressioni della tragedia greca.
Verso un’estetica anti-catartica.
Anne Carson: Non ho mai capito la catarsi.
Simon Critchley: È quella vecchia idea, che è ancora una visione onnipresente,
secondo cui dalla tragedia dovremmo trarre insegnamenti morali. Ma
è ridicolo. La tragedia è un’altra cosa, è molto più curiosa.
Carson: Più devastante.
Critchley: Molto più, sì.[1]
Nell’estate del 1938, Sigmund Freud e sua figlia Anna, come Edipo e Antigone nell’antefatto dell’Edipo a Colono di Sofocle, fuggirono dalla loro casa, cercando di proteggere al contempo una famiglia e un’eredità culturale da una delle più brutali potenze annientatrici della storia. Non solo la famiglia di Freud, ma tutti i suoi averi — libri e oggetti della sua vasta collezione di arte antica — furono precipitosamente trasferiti da Vienna a Londra, dall’appartamento in Berggasse 19 alla casa a tre piani al numero 20 di Maresfield Gardens, che ora è la sede del Freud Museum, fondato da Anna.
Per il malato cronico Sigmund l’arrivo della collezione, che sarebbe diventata un archivio pubblico, rappresentò un palliativo per mitigare le sofferenze degli interventi chirurgici subiti e di quelli da affrontare.
Secondo Elizabeth Young-Bruehl:
All’escissione radicale doveva seguire, in poche settimane, … la rimozione di un sequestro osseo; ma l’ostinata scheggia ossea si rifiutò di venire in superficie e Freud trascorse l’intero autunno ad attenderla, in preda a dolore e spossatezza. Fu una consolazione trascorrere anche l’autunno al 20 di Maresfield Gardens. . . . Questa casa diventò, per lo stesso Freud, il museo della sua collezione di antichità, portata lì poco prima che venisse dimesso dalla clinica. Ernst Freud progettò lo studio di suo padre perchè accogliesse al meglio la collezione, e Ernst Kris aiutò a sistemare i tesori mantenendo lo stesso ordine di Berggasse 19. Sia Freud che Anna Freud vedevano i pazienti nella casa, lui al primo piano e lei nel suo alloggio al terzo. La sera discutevano il suo ultimo grande sforzo di sintetizzare la sua scienza per chi la praticava: l’incompiuto Compendio di psicoanalisi.[2]
Nel presentare implicitamente il ripristino di un archivio come una sorta di sollievo temporaneo, questo racconto offre un’introduzione adeguata al tema di questo libro: le emozioni d’archivio che costituiscono la tragedia greca. La consolazione cercata da Freud nella sua collezione d’arte ri-assemblata, nel suo archivio costruito di nuovo, corrisponde alla (precaria) ricostituzione di un individuo consumato dal dolore fisico, stremato dall’attesa che gli venga rimossa una parte malata del corpo, che gli venga ricostruita una vecchia casa. Nella teoria aristotelica della tragedia, l’effetto estetico della catarsi, uno dei suoi concetti più controversi, consiste nell’ottenere una purificazione emotiva — un sollievo o una liberazione — attraverso la quale l’individuo ritorna a una condizione di equilibrio psichico, dove l’armonia del corpo e l’unità del plot procedono parallelamente. Dopo la dimissione ospedaliera di Freud, il suo rifugiarsi nello studio viennese, apparentemente ri-creato a Londra da suo figlio Ernst, sembra fornire un sollievo catartico al dolore tragico e allo sfinimento fisico. Il ritorno alla routine del lavoro psicoanalitico sembra implicare la nozione di un sé temporaneamente riacquistato e riaffermato.
Ma nel piacere della rinnovata routine c’è anche l’impeto ansioso e debilitante di ri-creare il passato così com’era, di ricostruire una vita perduta, di riordinarne gli oggetti nella loro immaginaria forma e nel loro immaginario ordine “originale.” Tra questi oggetti c’è lo stesso Freud che, nel cercare di riabitare l’ambiente della psicoanalisi viennese e, in questo modo, la sua vita precedente, si imbarca in un’impresa di auto-archiviazione, che in quanto tale lo avvicina idealmente allo stato inanimato, a ciò che dal punto di vista umano può essere visto come materia inerte.
Il desiderio dell’irraggiungibile che orienta gli sforzi archivistici di Freud contrasta i loro effetti apparentemente catartici. La temporalità dilatoria di questo desiderio d’archivio, con il suo ritmo ripetitivo, non è molto diverso dall’“attesa” che l’intervento chirurgico, l’epifania della collezione d’arte di Freud, e l’“incompiuto” Compendio di psicoanalisi avrebbero dovuto mitigare o sopprimere. Questo è il ritmo dell’archivio, il ritmo della mancanza, il ritmo di un’impossibile riconnessione con un’archê (“origine”). Eppure, mentre questo movimento seriale, auto-logorante è in contrasto con la promessa di catarsi, con il ripristino dell’equilibrio dell’individuo — in un mondo tragico, greco e non solo — genera un certo piacere masochistico.
Dietro questo movimento seriale, dietro l’estenuante e incessante ricerca di un’origine, si nasconde la pulsione di morte, concetto freudiano che è stato esso stesso oggetto di una persistente rivalutazione critica da parte di pensatori postmoderni (psicoanalitici, decostruzionisti, post-umanisti). Come discusso da Jacques Derrida nel suo Mal d’archivio,[3] originariamente nato da una conferenza tenuta al Freud Museum and Archive di Londra, la pulsione di morte genera il paradosso dell’archivio, esemplificato dal racconto di Young-Bruehl sulla migrazione di Freud a Londra. In questo mio libro, uso archivio e pulsione di morte per teorizzare, attraverso la lettura di una selezione di tragedie di Eschilo, Sofocle e di Euripide, un’estetica anti-catartica della tragedia greca. Figure iconiche della tragedia greca, prima fra tutte Antigone, sono state viste come emblematiche della pulsione di morte.
Non sono interessato alla psicologia dei personaggi in sé ma alle modalità emotive innescate dalla pulsione di morte, con una forza estetica capace di scuotere il pubblico attraverso le convulsioni e gli sforzi vani non solo di personaggi, ma anche plots e forma drammatica in senso lato. Nei miei percorsi di analisi, cerco di delineare atmosfere emotive in cui interagiscono parole, con le loro caratteristiche formali, e orientamenti psichici dei personaggi. Accelerazione, accumulo, un vertiginoso senso di sospensione, un continuo movimento circolare senza respiro, bulimia o indigestione affettiva, un taglio seriale, tentativi fisici di autopenetrazione o autoripiegamento, infiammazione autoimmunitaria, l’orgasmo come piacere incompiuto e non-teleologico: queste sono suggestioni delle esperienze estetiche che uso per articolare il mio modello di anti-catarsi. Considero queste potenzialità estetiche come “emozioni d’archivio” perché nascono tutte dallo sforzo di riconquistare una fantasmatica archê che, direttamente o indirettamente, guarda all’origine ultima, ossia alla non-esistenza. Queste emozioni circolano intorno a contenitori e superfici (corpi, oggetti, spazi) — configurazioni materiali che, evocando una forma di instabile raccolta di elementi, possono essere assimilate ad archivi o proto-archivi.
Esploro la pulsione di morte e l’archivio nella tragedia greca per rispondere, in un certo senso, alla domanda a lungo dibattuta: “Qual è il piacere estetico della tragedia”? Per Rana Saadi Liebert, autrice nel 2017 di un libro sulle idee del tragico prima e dopo il dramma Attico (nella poesia arcaica e nella filosofia post-socratica), una risposta può essere data riabilitando l’estetica di Platone. Nella teoria aristotelica della catarsi, secondo l’interpretazione della maggior parte degli studiosi, la mimêsis (o rappresentazione) è la cornice distanziante capace di trasformare il dolore in piacere, risparmiando sofferenze allo spettatore/lettore; è ciò che in definitiva lo pone in una posizione sicura.
Secondo Liebert, “Aristotele non risolve, ma piuttosto contiene il paradosso tragico nell’ambito della rappresentazione, dove resta il fatto che l’incontro con oggetti dolorosi dà piacere a causa di e non malgrado il dolore che provocano”.[4] Seguendo Platone, nella Repubblica, Liebert vede “il piacere tragico come la soddisfazione di un appetito subrazionale per il dolore”, ossia come l’appagamento di una “fame di lacrime”, che “nasce dalla collocazione dell’anima in un corpo”. L’“intensità” dell’ira e del dolore trasmessa dal tragico stimola, e placa, “l’impulso autodistruttivo che Socrate colloca nell’anima umana”.
La posizione di Liebert fa venire in mente Agostino che, rievocando la sua passione giovanile per gli spettacoli tragici, identifica “il dolore stesso” (dolor ipse) con il “piacere” (voluptas) o, forse ancor di più, Friedrich Nietzsche, che concorda con l’analisi di Platone sulla capacità della tragedia di suscitare emozioni intense, pur non condividendone la condanna. Anche se è noto che, in altri scritti, Nietzsche rifiuta la nozione aristotelica di catarsi, in La nascita della tragedia potrebbe aver assimilato la lettura che ne aveva dato Jacob Bernays, lo zio della moglie di Freud, Martha, per elaborare la sua visione dionisiaca della tragedia come “l’infinita gioia primordiale dell’esistenza”.
Nella visione estatica della catarsi di Bernays, il dolore si mescola al piacere, poiché “gli effetti dello scarico emozionale persistono come una sensazione di liberazione dolorosa-piacevole” (nella interpretazione di Jim Porter).[5] Per Bernays, tuttavia, il piacere catartico, come ogni altro, “dipende” in realtà “da un improvviso disturbo e ripristino dell’equilibrio psichico.”[6] Così, sebbene Bernays abbia contestato le interpretazioni moralistiche della teoria aristotelica, mettendone in evidenza il potenziale per un incontro estatico con l’emozione pura, un’espansione delle capacità sensoriali che includeva anche il dolore, non poteva fare a meno del principio fondamentale della catarsi, in qualunque modo la si concettualizzi, cioè del suo tendere verso una qualche forma di riparazione curativa.
La catarsi rende l’estetica tragica analoga alla dinamica della costruzione carnevalesca, un ripristino delle gerarchie dopo una provvisoria esposizione alle identificazioni trasgressive del playing the other (nell’autorevole formulazione di Froma Zeitlin).[7] Quest’analogia indica, in ultima analisi, un orientamento normativo: il modo in cui la catarsi, nella riaffermazione dell’“equilibrio psichico” (una parte importante, se non tutta la storia del perché, in una prospettiva aristotelica, la tragedia ci darebbe piacere), può essere messa a confronto con il tentativo carnevalesco di salvaguardare le strutture sociali esistenti.
Va da sé che la dottrina di Aristotele è prescrittiva più che descrittiva: spiegando, in apparenza, come la tragedia funziona, in realtà stabilisce come essa dovrebbe funzionare. Ovviamente, è impossibile stabilire in che modo un pubblico di spettatori o lettori possa aver reagito a una tragedia o, di volta in volta, prevedere come potrebbe reagire in futuro — a ciò si aggiunge che la nozione di un pubblico omogeneo è di per sé problematica, seppure euristicamente utile e per certi versi inevitabile. Fare congetture sulle esperienze emotive implica inevitabilmente enfatizzarne alcune e non altre. Anche se intendo non proporre ricostruzioni, ma estrapolare effetti di lettura e le loro implicazioni estetiche, la mia teorizzazione è condizionata da questa intrinseca limitazione.
Mio obiettivo è suggerire un’alternativa all’estetica tragica riparatrice, partendo da questa domanda: e se il piacere della tragedia fosse prodotto non da sollievo ma dalla sua mancanza, da un senso di blocco piuttosto che dall’intensità in quanto tale? In altri termini, possiamo ipotizzare che il fascino della tragedia risieda nella mancanza di riparazione dopo un dolore piacevole? Il blocco si esprime attraverso sospensione e ripetizione, che spossano e disintegrano il soggetto nel mentre gli offrono una possibilità di resistenza contro gerarchia e teleologia. È per concettualizzare questa possibilità di un piacere senza riparazione che mi rivolgo alla psicoanalisi e in particolare al concetto della pulsione di morte, nei suoi molteplici registri. Intendo pertanto guardare all’estetica della tragedia greca in termini di dinamiche psichiche universali, sottolineando la somiglianza e la vicinanza – piuttosto che la discontinuità e la differenza – tra antichità e modernità.
La pulsione di morte, il movimento seriale, auto-logorante di Freud, mi sembra la teorizzazione più efficace per articolare un approccio anti-catartico alla tragedia greca. Come proporrò, la tragedia greca, nella sua capacità di trasformare la forma drammatica e la rappresentazione in forza emotiva, anticipa varie figure, tropi e metafore che la teoria freudiana e post-freudiana ha associato alla pulsione di morte. Il pervasivo incontro fra tragedia greca e postmodernismo che questo libro mette in scena è radicato quindi in emozioni espressione della pulsione di morte che possiamo riscontrare nelle tragedie conservate. Cerco di mettere a fuoco queste emozioni attraverso le lenti concettuali della decostruzione, della psicoanalisi e della teoria deleuziana. Allo stesso tempo, le tecniche di interpretazione formale fornite da questi approcci aiutano ad aprire una “rete di ... dissonanze e risonanze, cadute ed eccessi di senso” (nella frase di Eve Sedgwick)[8] che possono ulteriormente materializzare gesti di resistenza contro la liberazione catartica.
Jacques Rancière ha definito l’estetica come una forza dissensuale (“pathos”) che emerge negli interstizi della mimêsis, disintegrando la logica della rappresentazione (“logos”) esemplificata da Rancière proprio nel plot tragico aristotelico, con le sue leggi di unità, necessità, e probabilità. Nelle letture di questo libro, mi affido anche a strategie interpretative che vanno oltre il livello rappresentativo, dando voce a forze che spingono attraverso le fessure del muthos tragico, disturbando la catarsi — l’esito emotivo designato del plot aristotelico.[9]
Questa lettura di un’estetica della pulsione di morte oltre o contro la rappresentazione è in linea con l’orientamento non storicista del mio approccio. Per Theodor Adorno, noto critico della catarsi, non solo le opere d’arte hanno autonomia, ma il loro impatto politico emerge proprio da questa autonomia. Nella resistenza delle opere d’arte a comunicare con un ‘esterno’ socio-culturale, negli effetti di dissonanza che generano tra se stesse e il mondo, e tra se stesse e i loro destinatari, le opere d’arte provocano un “brivido”, aprendo una fessura nello status quo. Nel potere dissensuale dell’arte, la rottura con la realtà socio-politica è simile alla rottura del livello rappresentativo che Rancière attribuisce all’estetica.
Seguendo questi approcci critici, mi allontano, in un certo senso, dal fecondo e straordinariamente influente orientamento metodologico constestualista che ha plasmato e profondamente arricchito gli studi sulla tragedia greca negli ultimi tre decenni. Nell’introduzione di Nothing to Do with Dionysos? (1990), Jack Winkler e Froma Zeitlin polemizzano contro una tendenza nella critica a “escludere il contesto sociale in cui i drammi ebbero luogo”.[10] Trascurare “gli aspetti extratestuali della tragedia” genera uno “sparagmos metodologico”, che impedisce all’interprete di capire “come quei . . . testi teatrali avessero senso”. Tuttavia, la “chiusura” lamentata qui può essere vista come un effetto dei testi stessi, del fatto che, come osserva Adorno, “l’arte acquisisce la sua specificità separandosi da ciò da cui si è sviluppata”.
Le prospettive strutturaliste-antropologiche su cui si fonda questo approccio contestualista sono funzionali alla valutazione di “come quei testi teatrali avessero senso”, cioè allora e lì. Ma gli istruttivi confronti con l’“esterno” sociale, che sono attivati dalla critica culturale, scaturiscono da effetti di lettura, dalle potenzialità immaginative del linguaggio tragico, ossia dal “testo”, con le sue latenze interpretative, innumerevoli, simultanee. In risposta alla convenzionale e fuorviante interpretazione di “il n’y a pas dehors-texte”, vorrei dire che, nonostante l’illusione storicistica alimentata dall’idioma del greco antico, il testo è diacronicamente stratificato, ospitando molteplici potenziali contesti che sfumano l’uno nell’altro e che sono stati – o che saranno – attualizzati nelle varie esperienze di lettura. Interrogando le fonti sul coinvolgimento dei cittadini Ateniesi nell’allestire e giudicare le produzioni teatrali, Sean Gurd ha sottolineato che “il dramma, nonostante il suo chiaro radicamento nelle pratiche civiche e la sua persistente associazione con le pratiche di auto-promozione dell’élite, appare essere frustrantemente dis-integrato dal suo contesto sociale”.[11]
Come afferma Gurd, “la resistenza del dramma a una facile integrazione entro noti schemi di causalità sociale era un’anomalia provocatoria, una di quelle a cui i teorici hanno cercato di ovviare dimostrando come fosse, di fatto, socialmente produttiva”. Il pioniere di questi critici è Aristotele stesso, la cui teoria della catarsi può essere interpretata come un tentativo di annullare l’autonomia e la ricalcitranza estetica della tragedia attraverso l’imposizione di un modello di funzionalismo sociale basato sulle emozioni. C’è una convergenza tra il contenimento catartico e l’aspirazione contestualista a incorporare, cioè contenere e confinare significati entro i limiti di una matrice culturale storicamente determinata.
La forza riparatrice della catarsi è la controparte estetica del ricostruttivismo ermeneutico. Intendo l’orientamento non storicista delle mie letture — l’uso di una cornice temporale indeterminata che non esclude ma trascende l’antichità — come un mezzo per cogliere la recalcitranza estetica della negatività emotiva tragica, una negatività anti-catartica che è correlata alla forza di rottura con l’esterno discussa sopra. Voglio illuminare questa recalcitranza, materializzata in forma poetica, come (represso) piacere tragico.
Ponendo al centro del mio modello di anti-catarsi la pulsione di morte, come è stata teorizzata da Freud e da altri dopo di lui, rintraccio il piacevole dolore della tragedia greca in una seducente destabilizzazione senza sollievo, che è prodotta non solo da momenti di anti-chiusura formale, ma anche dalla forza estetica di fantasie di un interminabile disfacimento dell’individuo. Sia che questo disfacimento sia messo emotivamente in moto dalla ricerca di ciò che sempre svanisce (“intensità” emozionale compresa), dalla dissoluzione del corpo nel movimento undulatorio della vita elementale, dalla prossimità della morte, o dal suo rinvio o impossibilità, la tragedia offre a un pubblico l’opportunità di un esercizio estetizzato dell’ossessione primitiva per una radicale rottura temporale, l’opportunità di un prolungamento della sospensione carnevalesca. La negazione del momento della riparazione provoca nel pubblico un piacere negativo, una perversa gratitudine per non aver ricevuto chiusura e sollievo.
Individuando una contro-estetica materializzata nella forma tragica e nelle collisioni tra rappresentazione e non-rappresentazione, la mia argomentazione fornisce un’ulteriore prospettiva per riflettere sulle potenzialità emotive del teatro tragico nell’Atene del V secolo e oltre, ampliando così la percezione del suo impatto sul pubblico moderno e contemporaneo. Nel leggere in modo anti-catartico, possiamo ad esempio percepire le tormentate intimità della condizione umana postmoderna in alcuni dei più iconici legami interpersonali tragici: Medea/Egeo, Eracle/Teseo, Filottete/Neottolemo, Agave/Cadmo.
Arriviamo a vedere le relazioni con gli altri, così pure con il passato dell’archivio, come precarie, sospese, e persino non relazionali, a livello di conoscenza e possesso, idealmente e di fatto (poiché gli individui resistono all’essere archiviati o assimilati). Possiamo vedere la tragedia forgiare legami, disposizioni emotive che possono essere considerati “queer” non solo perché producono torsioni della parentela eteronormativa, ma perché attingono a espressioni estetizzate di rifiuto, futilità, sospensione: sensazioni negative eppure potenzialmente emancipatorie, mobilitate da espressività formale.
Le emozioni d’archivio che esploro qui includono vari registri della pulsione di morte. In quel che segue, imposto la mia lettura anti-catartica discutendo modelli teorici per questi registri e tracciando il nesso tra pulsione di morte e archivio così come è stato discusso specialmente da Derrida in Mal d’archivio. Inizierò con Freud, con la sua introduzione del concetto di pulsione di morte in Al di là del principio del piacere, uno dei suoi libri più complessi, passato attraverso molteplici, frustranti cicli di revisione.[12]
[1] https://www.artforum.com/slant/antigone-a-roundtable-with-anne-carson-simon-critchley-and-trajal-harrell-55046.1
[2] E. Young–Bruehl, Anna Freud: A Biography (New Haven, Yale University Press 1988).
[3] J. Derrida, Mal d’archivio: un’impressione freudiana, trad. G. Scibilia (Napoli, Filema 2018).
[4] R. S. Liebert, Tragic Pleasures from Homer to Plato (Cambridge, Cambridge University Press 2017).
[5] J. I. Porter, “Nietzsche, Tragedy, and the Theory of Catharsis.” Skene 2: 201–28.
[6] J. Bernays, “Section IV of Outlines of Aristotle’s Lost Work on the Effects of Tragedy.” Translated by J. I. Porter. In Tragedy and the Idea of Modernity, edited by J. Billings and M. Leonard, 315–28. Oxford University Press.
[7] F. I. Zeitlin, Playing the Other (Chicago, Chicago University Press 1996).
[8] E. K. Sedgwick, Tendencies (Durham, NC: Duke University Press, 1993).
[9] J. Rancière, L’inconscio estetico, trad. M. Villani (Milano: Mimesis, 2016)
[10] T. Adorno, Teoria estetica, a cura di F. Desideri e G. Matteucci (Torino: Einaudi 2009).
[11] S. Gurd, “Social Function? Making the Case for a Functionless Theatre.” In A Cultural History of Theatre in Antiquity, edited by M. Revermann, 35–45. Bloomsbury.
[12] S. Freud, Al di là del principio del piacere, a cura di A. Civita (Milano, Bruno Mondadori: 2007).