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S’intitola Ismene, Schwester von (“Ismene, sorella di”) e dal 2014 è in programmazione al Deutsches Theater di Berlino, dove viene regolarmente messo in scena.

Si tratta, dunque, di un vero e proprio “classico” della scena teatrale tedesca contemporanea, ed è notevole che si tratti della riscrittura di una tragedia greca, anche se frutto di pura mitopoiesi. Il testo del monologo è stato scritto dalla drammaturga olandese Lot Vekemans nel 2005, mentre l’adattamento drammaturgico è del regista Stephan Kimmig, con l’ottima Susanne Wolff nei panni della protagonista Ismene. Sulla base del pezzo teatrale è stato anche realizzato un film con medesimo titolo e medesima attrice, ad opera di Jim Rakete (ne abbiamo parlato qui, con stralci di traduzione dal testo).

Susanne Wolf dà corpo e voce a un’Ismene arrabbiata, a tratti nevrotica. Nessuno si è occupato di lei dai tempi di Sofocle, la sua vita è stata dimenticata dalla tradizione mitica, così come la sua morte. È rimasta sospesa nella dimensione dell’incertezza, della debolezza. Ma ora finalmente prende la parola e cerca di uscire dall’oblio e di riscattarsi da un destino che l’ha confinata nel ruolo ingrato della sorella minore di un’eroina coraggiosa, quell’Antigone di cui non vuole neppure pronunciare il nome. Esce allo scoperto per rivendicare il diritto a una vita del tutto normale, senza eroismi e senza mettersi in gioco con gesti eclatanti per i quali si rischia la vita.

 

La sua esistenza, ci rivela Ismene, è stata sempre segnata dal rapporto difficile con la sorella maggiore, un rapporto fatto di rivalità, gelosia e senso di inferiorità. Fin da bambina, prima ancora della celebre ribellione, Antigone voleva essere sempre essere quella brava, la migliore. «La odio», esclama Ismene all’apice del suo sfogo. «Ero l’unica normale in una famiglia disturbata; volevo solo essere felice», dice di sé. Ma così non è stato. Tutti i suoi famigliari sono finiti male, come insegna la saga mitica. La madre Giocasta si è impiccata, il padre Edipo si è cavato gli occhi e si è spento in esilio, i fratelli Polinice ed Eteocle si sono ammazzati a vicenda nella lotta per il potere a Tebe, la sorella Antigone è stata punita con la morte per la sua trasgressione. In vita è rimasta lei, la sorella minore, quella debole ed esitante. Quando lo zio Creonte si è ammalato, è toccato a lei prendersene cura. «Tutti nella mia famiglia hanno potuto scegliere», si lamenta Ismene, «ma purtroppo nessuno ha mai scelto me».

 

L’intero dramma consiste di un monologo di circa sessanta minuti, tanto breve quanto avvincente. La regia di Kimming fa uscire Susanne Wolf / Ismene da una botola nella parete posteriore del palcoscenico e la fa strisciare e poi muovere su una stretta passerella di legno, a due metri da terra. Lo spazio scenico è ridotto a pochissimi metri quadri. L’abbigliamento della protagonista è anonimo e quotidiano: scarpe da corsa, pantaloni larghi da jogging, una felpa. Suggeriscono la banalità del personaggio, ma anche la sua modernità, ovvero l’eternità del modello che incarna. È interessante osservare come nella versione filmica di Jim Rakete l’abbigliamento di Ismene era una tunica arancione da carcerato, a enfatizzare la condizione di prigioniera.

 

Ismene si esprime contro l’orrore e l’insensatezza della violenza, predica la necessità dell’oblio. Lo fa alternando silenzio e aggressività, riflessione e scoppi di rabbia. Il tono di voce scende a un livello di sonorità minima, quasi in uno stadio di afasia, per poi impennarsi improvvisamente in esacerbate invettive urlate con impeto furioso. È una mossa efficace che esprime lo sforzo compiuto da Ismene per liberarsi gradualmente dalla fragilità della propria voce, da tempo non più abituata a parlare. Il corpo e la gestualità di Susanne Wolf rendono credibile l’intero racconto facendo parteggiare lo spettatore per Ismene, la sorella mediocre, quella cui è toccato non solo sopravvivere alle disgrazie del ghenos, ma anche cercare di vivere in modo normale una vita che normale non poteva essere. Questa è la ferita che segna l’identità di Ismene: la condanna di vivere sempre all’ombra di una sorella ingombrante come Antigone ha significato per lei la condizione di non avere neppure il diritto di esistere non avendo compiuto nulla di memorabile.

Questa Ismene non è per niente pacificata col suo destino. Non solo chiede di uscire dall’oblio in cui è stata relegata, ma vorrebbe che il pubblico la giudicasse e la mettesse in salvo dalle minacce del destino. Minacce si concretizzano, nella sua mente confusa, nei cani randagi che pensa le diano la caccia per farla a pezzi, così come un tempo avrebbero dovuto sbranare il copro di Polinice abbandonato senza sepoltura. Il testo di Lot Vekemans, nella versione tedesca di Eva Pieper, esprime un pathos e sprigiona un’energia di grande impatto, che la regia di Stephan Kimmig e la recitazione di Susanne Wolff trasformano in uno spettacolo di spessore estetico-drammatico.

Ismene, Schwester von costituisce un capitolo importante della riscoperta di Ismene nella drammaturgia contemporanea, un processo che si può fare iniziare con il monologo di Ghiannis Ritsos Ismene e che ha trovato conferma più recentemente nel monologo teatrale Pale Sister dello scrittore
irlandese Colm Tóibín (2019)[2]. Si tratta al contempo della valorizzazione di un modello comportamentale carico di risvolti etici e politici, quello di chi agisce all’insegna della mitezza e della prudenza, in contrasto con l’intransigenza e la testardaggine prepotente che contraddistinguono tanto l’agire d Creonte quanto quello di Antigone.

 

 

Ismene, Schwester von

 

Regia: Stephan Kimmig

Traduzione: Eva Pieper

Scene e costumi: Anne Ehrlich

Drammaturgia: John von Düffel

Interprete: Susanne Wolff

 

 

[1] S. Fornaro, ‘Ismene, sorella di...’ ovvero liberiamoci dalla nostra prigione, «Visioni del tragico. La tragedia greca sulla scena del XXI secolo», 1 aprile 2021 (https://www.visionideltragico.it/blog/contributi/ismene-sorella-di-ovvero-liberiamoci-dalle-nostre-prigioni).

[2] Su Pale Sister cfr. L. Salis, Dalla parte di Ismene: Pale Sister di Colm Tóibín (2019), «Il castello di Elsinore», XXXVI, 87, pp. 103-117, online qui:https://ilcastellodielsinore.it/index.php/Elsinore/article/view/264. In generale sulla rivalutazione di Ismene in alcune messinscene contemporanee cfr. A. Maganuco, L’ora di Ismene: la “sorella mite” secondo Antonio Piccolo e Massimiliano Civica, in Sovrimpressioni e intersezioni. Tra generi, intermedialità e transmedialità, a cura di F. Barboni, F. El Matouni, G. Perosa, libreriauniversitaria.it, Padova 2023, pp. 139-154.