L’inizio del 2023 ci regala una nuova Antigone dal titolo cinematografico, Antigone e i suoi fratelli. Grazie al palese rinvio al celebre film di Luchino Visconti Rocco e i suoi fratelli (1960), questo titolo intende tracciare una linea di continuità tra il dramma di una famiglia della mitologia antica, quella di Edipo, e la tragedia di una famiglia di emigrati meridionali nel Nord del boom economico.
Il titolo evocativo ci ricorda che la vicenda mitologica attorno a cui ruota l’Antigone, ma anche l’Edipo Re e l’Edipo a Colono di Sofocle, nonché i Sette a Tebe di Eschilo e le Fenicie di Euripide, racconta anche una vicenda intima, familiare, in cui però si rispecchiano i conflitti e le contraddizioni di tutta una società e di un preciso momento storico.
Vi sono altri punti di contatto tra il Rocco del film di Luchino Visconti, figura letteraria prima ancora che cinematografica, perché ispirato dai racconti di Giovanni Testori, e l’Antigone del mito greco: ma il principale tratto d’unione tra le due figure, mi sembra, consiste nel fatto che l’amore fraterno può superare qualsiasi altro amore, può superare persino le regole della convivenza umana, può superare l’attaccamento alla propria stessa vita. Vi sono elementi angosciosi, inquietanti in un rapporto così viscerale, come quello tra Rocco e il fratello Simone, anche quando quest’ultimo diventa un assassino e uccide la donna amata da Rocco; non crea meno disagio l’attaccamento di Antigone al fratello morto, per seppellire simbolicamente il quale sacrifica la propria vita. La ragazza esprime persino il desiderio perverso di giacere accanto a lui.
I fratelli di Antigone sono due, Eteocle e Polinice, e una volta che si sono reciprocamente uccisi le due sorelle Antigone e Ismene restano in una sconfinata solitudine, dato che nessun altro della famiglia è sopravvissuto. Nella famiglia di Rocco, invece, i fratelli sono cinque e ognuno sceglie la sua strada, senza perdere la speranza, come in fondo accade nell’ Antigone. A uno di questi fratelli Testori affida il ruolo di tutore della legge, poiché non ha remore a denunciare il fratello assassino, che gli altri vorrebbero invece proteggere. Anche l’amore fraterno, dunque, e soprattutto la solidarietà del clan, un tipo di organizzazione familiare che si trova in molte culture arcaiche, deve trovare un limite nel rispetto della legge.
Però l’amore fraterno regge anche quando le opposizioni politiche e ideologiche sono frontali, nette. Vengono in mente i fratelli Peci che sono stati ricordati da ultimo nella serie televisiva dedicata al generale Carlo Alberto della Chiesa (Il nostro generale), e la cui vicenda non a caso è stata avvicinata da Edoardo Ripani a quella di Eteocle e Polinice nello spettacolo teatrale Fratelli. Qual doglia incombe sulla mia città? (ne parliamo qui). E ricordiamo ancora i fratelli che si trovano su fronti opposte di La meglio gioventù, memorabile film diretto da Marco Tullio Giordana. E si potrebbe continuare. Abbiamo così ricordato gli anni bui del terrorismo, gli ‘anni di piombo’ del secolo scorso. Ci torneremo. Torniamo all’Antigone.
Una delle domande fondamentali attorno a cui gira l’Antigone di Sofocle è dunque questa: fino a che punto i legami familiari vanno difesi, rispettati, protetti? Fino al punto di andare contro tutto, e con ‘tutto’ va inteso principalmente lo Stato e le sue leggi? Fino a sacrificare e perdere altri affetti? Fino alla morte? La tragedia di Sofocle pone questa domanda, alla quale i personaggi del dramma danno risposte diverse. Antigone seppellisce il corpo del fratello senza paura della condanna a morte, pronta a trasgredire la legge stabilita dal re Creonte in nome dell’affetto familiare, della philia per un fratello; sua sorella Ismene è invece restia a compiere una simile trasgressione, meno convinta dell’utilità dell’azione, meno coraggiosa. A quella domanda sono chiamati a rispondere, ciascuno secondo il proprio ethos e ruolo nella tragedia, Creonte, Emone, figlio di Creonte e sposo promesso di Antigone, l’indovino Tiresia e le risposte sollecitano precise azioni, ed aprono nuove questioni sul potere, sull’amore, sul sacro.
L’Antigone racconta le conseguenze di una lotta fratricida, innervata in una famiglia ‘maledetta’, quella di Edipo, una lotta nella quale ognuno dei due fratelli – Eteocle e Polinice – pensa di stare dalla parte della ragione. Anche Antigone e Creonte, che sono tra loro legati per parentela, essendo nipote e zio, pensano di stare ognuno dalla parte della ragione, e la parentela non impedisce di condannare a morte Antigone.
Queste opposizioni mitologiche sono tornate prepotentemente nell’immaginario durante il terrorismo degli anni Settanta, quando la nuova generazione di quell’epoca aprì una vera e propria guerra armata contro la vecchia generazione e fratelli di sangue si trovarono spesso dalla parte opposta delle barricate, come abbiamo già accennato.
Non a caso l’Antigone fornisce la struttura narrativa di due film che raccontano, in modo diverso, le terribili inquietudini di quella generazione, due film di registe donne: I cannibali (1968) di Liliana Cavani e Anni di piombo (1980) di Margarethe von Trotta. Attraverso il mito di Antigone Cavani rappresenta la crudeltà e lo sconcerto di una generazione giovane che si trova circondata dalla violenza e che comprende come il fascismo non sia morto con la fine della seconda guerra mondiale; Margarethe von Trotta dirige invece un film che ha prestato alla storiografia e al senso comune la definizione di quegli anni bui e che traccia un bilancio prematuro degli anni del terrorismo attraverso la storia vera di due sorelle, una diventata terrorista e poi morta nel carcere di massima sicurezza di Stammheim, l’altra, invece, che aveva trasformato la sua ribellione contro i padri in impegno sociale. Sarà quest’ultima a doversi occupare del corpo della sorella, trovata morta suicida in carcere, che nessun cimitero voleva accogliere.
Per i ragazzi della Scuola di Attori del Teatro Stabile di Torino che, dopo aver fondato una propria compagnia, Potenziali Evocati Multimediali (PEM), hanno messo in scena con Gabriele Vacis Antigone e i suoi fratelli ispirata sia alle Fenicie di Euripide che all’Antigone di Sofocle (vedi inoltre qui Raffaella Viccei), gli anni di piombo appartengono alla storia, forse nemmeno studiata a scuola. Nei loro ricordi da bambini, la parola terrorismo è invece certamente legata all’attentato alle Torri gemelle dell’11 settembre 2001 e dunque al terrorismo islamico. Durante gli anni Settanta Antigone, specie in Germania, fu spesso evocata come controfigura delle donne che parteciparono alla lotta armata e in tempi più recenti anche per alcune terroriste islamiche, per la loro insindacabile determinazione, per il sacrificio della vita, per il legame con i fratelli terroristi uccisi, è stato usato il parallelo con Antigone.
Negli intermezzi degli attori, inserzioni di loro pensieri e punti di vista a margine del dramma antico, si avverte la ricerca di qualcosa, persino qualcosa che possa rivelarsi sbagliato, per cui pensare che valga la pena dare la propria vita. Si avverte l’inquietudine di una generazione tenuta a freno per due anni dal Covid, partecipe di una guerra vicina e lontanissima insieme, confusa sulle ragioni degli uni e degli altri, disposta a infrangere la legge per manifestare, ad esempio, contro l’inarrestabile disastro ecologico e le mancate o inefficaci risposte dei governi.
Nella loro struggente interpretazione, si intuisce il rimpianto per una famiglia rifugio, l’angoscia di appartenere ad una generazione considerata viziata e senza veri scopi, incapace di intimità, persino di abbracci, perché persa nel proprio mondo virtuale. Una generazione alla ricerca di ideali, spaventata da quelli sbagliati che hanno rovinato la vita di molti loro dei nonni e che sicuramente hanno segnato la vita dei padri. Anche per la forza di queste incursioni messe in dialogo con le due tragedie greche – a parte qualche momento troppo didascalico – , grazie anche all’uso efficace dei cori e delle scelte musicali e coreografiche, nel teatro delle Fonderie Limone a Moncalieri abbiamo assistito a una tra le versioni emotivamente più coinvolgenti, viste negli ultimi anni, del mito di Antigone, di Eteocle e Polinice, e certo basata su una lettura profonda e attenta dei due drammi di Euripide e Sofocle.
Lo spettacolo è stato accompagnato da uno dei Quaderni del Teatro Stabile di Torino ricco di riflessioni e immagini. Non condividiamo tutto di queste pagine, ad esempio queste righe a firma di Annalisa Ambrosio: «Per certi versi la tragedia di Antigone suggerisce la risposta a una domanda oramai piuttosto antica. È una questione che risuona ogni volta che il movimento femminista si leva e fa sentire la sua voce: come starebbero le cose, se a decidere fossero le donne?».
Non capisco bene quale sarebbe la risposta dell’Antigone, ma la domanda che pone Sofocle non mi sembra affatto questa. Antigone non decide nulla né vorrebbe decidere: la sua azione si conforma a una legge sacra, più antica del nuovissimo editto di Creonte, e quella legge di Zeus le impone di seppellire il fratello, anche se ha portato guerra alla propria città. Antigone agisce anche come donna, perché è alle donne che era affidato il dovere del lutto, ma agisce piuttosto in quanto superstite di una famiglia segnata da dolori inenarrabili, incesti, vendette. Non vuole fondare alcun nuovo ordine e nemmeno sovvertire l’ordine esistente, anche se riesce ad attirare su Creonte l’ira annichilente degli dei. Si richiama anzi, come è stato detto più volte, a un ordine più arcaico e probabilmente mal tollerato nella città democratica. Il fatto che sia una donna rende ancora più intollerabile a Creonte la sua disubbidienza, ma anche il coro credono che abbia esagerato nel voler trasgredire la legge a ogni costo: in questa sua ostinazione appare davvero figlia di Edipo, ma non certo una rappresentante del genere femminile.
Non penso, inoltre, che la legge di Antigone sia quella dell’amore universale, dato che Antigone dichiara che non avrebbe mai compiuto la stessa azione per suo marito o per suo figlio, ma solo per quel fratello, dato che un altro non poteva nascere, morti i genitori (Edipo e Giocasta). Antigone agisce per un amore condiviso con la sua famiglia, con i suoi fratelli, e la valenza politica del gesto di Antigone sta nella sua incrollabile convinzione di agire secondo giustizia, nel rispetto di Dike, nonostante trasgredisca la legge, nonostante il parere contrario del Re, della sorella, e della maggioranza dei cittadini di Tebe. Per questo si è potuta equiparare Antigone ad una ‘irriducibile’ degli anni di piombo. Che Antigone sia latrice di un universale «messaggio amoroso» è piuttosto un luogo comune interpretativo.
Nelle Note di regia Gabriele Vacis elenca tutta una serie di domande che il testo ha posto agli attori. Altre se ne potrebbero aggiungere, perché la natura della tragedia greca, che si basa sul confronto, anche violento, tra diverse posizioni, è proprio porre domande. A cui non spetteremo mai di rispondere sino a che continueremo a interrogare questi testi.
da Sofocle
adattamento e regia Gabriele Vacis
con (in ordine alfabetico) Davide Antenucci, Andrea Caiazzo,
Chiara Dello Iacovo, Pietro Maccabei, Lucia Raffaella Mariani, Eva Meskhi, Erica Nava, Enrica Rebaudo, Edoardo Roti,
Letizia Russo, Daniel Santantonio, Lorenzo Tombesi,
Gabriele Valchera, Giacomo Zandonà
scenofonia e ambienti Roberto Tarasco
pedagogia dell’azione e della relazione Barbara Bonriposi
dramaturg Glen Blackhall
suono Riccardo Di Gianni
cori a cura di Enrica Rebaudo
Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale
in collaborazione con Associazione culturale PEM
Foto @Andrea Macchia