Per arrivare al teatro Menotti di Milano, dalla fermata della metro Palestro, si attraversa un quadrilatero di silenzio, dove un tempo verdeggiavano gli orti del convento dei Frati Cappuccini.
Al centro, una piazza aristocratica che porta il nome di Eleonora Duse dove si affacciano palazzi monumentali: in uno di essi, nel 1934, fu costruita al sesto piano una serra per dispensare orchidee alle signore che avrebbero abitato l’edificio. La serra non si realizzò ma i cortili scenografici dei palazzi, con le loro fontane, i marmi, le aiuole, il ferro battuto sono altrettanti luoghi teatrali, dove pare si aggiri la Duse e, con lei, la sua arte
Non vi è forse preludio migliore alla rievocazione di una grande attrice, la cilena Maria Cánepa (1921-2006), che l’Odin Teatret porta sulla scena del Menotti stasera 13 marzo 2023. ‘Portare in scena’ penso sia un’espressione sbagliata. Qui non c’è teatro, non ci sono attori che fingono di essere attori, ma c’è un abbraccio sororale: tra il fantasma di Maria Cánepa e Julia Varley, l’attrice dell’Odin che fu amica di Maria e che stasera, di nuovo, abita il fantasma dell’attrice cilena.
La vita di Maria Cánepa, donna straordinaria, rimasta sempre bambina nonostante la lunga vita, sino agli ultimi anni vissuti nell’oblio di quell’infanzia rinnovata e dolce che talora può essere l’Alzheimer, donna che rese il teatro la sua missione nell’orrore del Cile di Pinochet, capace di reinventarsi sino all’ultimo, sino a fondare ormai ottantenne un ristorante ove poteva tornare alle lontane radici piemontesi e sino a sposare, pochi mesi prima di morire, il compagno regista e attore Juan Cuevas di trent’anni più giovane, la vita di Maria, dicevo, è stata un vita piena d’amore.
E l’amore sopravvive alla morte, attornia chi ci ha amato con mani impalpabili, con un soffio leggero, con una presenza silente ma concreta. E così a Julia Varley riesce di riabbracciare quell’amore e insieme di trasmettere a chi guarda l’incontro, in un’unica figura, tra lei e Maria, scomparsa ma presentissima, di cui Julia riecheggia la voce-ricordo. Siamo trascinati dalla forza, dall’intensità, dalla sofferenza di quell’amore: che è amore dell’amica per l’amica, ma anche dell’attrice per l’attrice, di Maria per i suoi due amori, che furono due registi, e di Julia per il regista (Eugenio Barba) che è il suo amore. Amore indissolubile, che gioca con la morte, amore che rende viva la morte stessa: come nel rimpianto struggente per un figlio cercato e mai avuto. Amore di madre, di figlia, di amante, amori di donna.
Assistiamo, dunque, a un abbraccio strettissimo tra due donne, senza corpo e senza volto, nemmeno l’attrice in sala, che si nasconde e si nega, da maschio si trasforma in femmina, poi in teschio e infine in sposa spettrale. Descrivere questo abbraccio mostra solo l’insufficienza delle parole. Un abbraccio vuoto e pienissimo, come quello tra due uomini agli albori della letteratura occidentale, nella prima attestazione letteraria di un fantasma: il fantasma di Patroclo, che appare all’amico Achille da morto, e quello vuole con desiderio stringerlo a sé, ma il fantasma si dilegua e l’abbraccio coglie solo l’assenza del corpo, ma si riempie d’amore. Perché l’amore, l’amore resta.
Io non voglio e non posso qui commentare la tecnica senza tecnica che dà origine a uno spettacolo rituale e illusionistico, una lotta tra vita e morte che finisce con una riconciliazione, una lotta dell’attore col fantasma del suo personaggio, e del regista con l’angelo che lo ispira. Qui il gesto attoriale penetra nel mistero della morte e nel cuore della vita e per avvicinarsi alla sua difficoltà si deve leggere l’aureo libretto che accompagna la performance e ne racconta la storia, corredato da documenti commoventi, come le lettere di Julia Varley a Maria Cánepa poco prima di morire.
Non si può restare spettatori, perché a questo corpo a corpo tra vita e morte, tra attore e regista, tra le varie potenze d’amore che si compenetrano ma anche oppongono, si prende parte con tutta la mente, l’immaginazione, gli occhi, il respiro, le ginocchia, il cuore.
Questa performance si vive, col sorriso di una danza macabra, con la nostalgia del futuro, con la compassione per tutto ciò che è umano e che passa, con le lacrime dei fili interrotti e dei desideri spenti.
E resta la poesia di un amore, la poesia che redime ogni vita, la poesia che muove il mondo e abbraccia, senza parole, come fumo odoroso, come luce soffusa, come gesto studiato nel teatro della vita, in cui tutti abbiamo comunque un ruolo.
«Sei come la notte, silenziosa e costellata.
Il tuo silenzio è di stella, così lontano e semplice».
Per i 60 anni dalla Fondazione dell’Odin Teatret Eugenio Barba torna a Milano, al Teatro Menotti, per una rassegna dedicata alla sua arte. ‘Ave Maria’ fa parte della rassegna, su cui torneremo, il cui programma completo si può leggere qui: https://www.teatromenotti.org/event/60-anni-di/