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Beato te che sei cane e genitori non hai,

beato te che sei figlio e coi genitori non stai,

beato te che sei cane e sentimenti non hai,

beato te che sei cane e ragionamenti non fai,

beato te che sei cane e la volontà di altri seguirai,

beato te che sei cane e delle scarpe di vetro regalate

dal papà niente te ne fai.

(Mea, in I figli di Medea di Per Lysander e Suzanne Osten, Edizioni primavera, Avellino, 2020)

 

Secondo una convenzione del teatro tragico greco, che si può cercare di spiegare in vari modi, ma che certamente ha un enorme potenziale estetico perché amplifica l’immaginazione dello spettatore, i fatti di sangue non avvenivano in scena. Non fa eccezione l’assassinio dei figli di Medea, che la madre uccide in casa, mentre il coro e gli spettatori ne ascoltano le ultime disperate invocazioni d’aiuto che vengono dall’interno del palazzo.

Come rappresentare un delitto talmente inaudito e impensabile è questione con cui si sono confrontate e si confrontano tutte le revisioni della Medea di Euripide. Si ricorderà la scena finale del film di Lars von Trier (1988) in cui il figlio maggiore aiuta la madre nell’omicidio, che avviene – di contro alla versione euripidea – per impiccagione. Nella Medea di Pier Paolo Pasolini (1969) i bambini vengono addormentati, anche se il regista, dopo la prima idea iniziale di farli cullare da una ninna nanna cantata da Maria Callas, rinunciò proprio alla voce della ‘divina’.[1] Per una tradizione politicamente corretta, artefice Christa Wolf e il suo fortunato romanzo  Medea.Voci (1996), tradizione peraltro già presente in una variante mitologica antica, Medea fu ingiustamente accusata di un omicidio non commesso.[2]

   Nell’immensa tradizione su Medea, si distingue il dramma degli svedesi Per Lysander e Suzanne Osten (nelle immagini sotto), I figli di Medea, che data 1975, ma da poco disponibile anche in italiano nella traduzione di Laura Cangemi per la bella collana ‘i gabbiani’ , a cura di Federica Iacobelli per le campane edizioni primavera, collana specifica di letteratura teatrale per giovani lettori.

Questa pièce affonda le sue radici nell’intensa attività della stessa Osten, una delle più note drammaturghe per l’infanzia europee, che nel 1975 fondò il teatro per bambini ‘Unga Klara’ all’interno del teatro cittadino di Stoccolma. Il testo nacque dalla concreta attività di laboratorio teatrale con i bambini, guidati nell’espressione ed elaborazione dei problemi della loro vita reale da pedagoghi e psicologi.

 

 

Così scaturisce una Medea raccontata dal punto di vista dei figli: il tema diventa quello della separazione dei genitori, certamente un tema ancora tabù a metà degli anni Settanta, e che veniva affrontato coraggiosamente dalla parte dei figli di genitori divorziati. L’azione del dramma si concentra dunque sulla parte finale del dramma euripideo, riduce i personaggi al ristretto nucleo familiare inclusa la nutrice, dà un nome ai bambini che reduplica ‘in piccolo’ quello dei genitori (‘piccolo Giasone’ e ‘piccola Medea’ nell’originale, Mea e Gias nella traduzione italiana).

Ad ogni scena viene dato un titolo, che sta a indicare il centro tematico dei dialoghi, oppure l’oggetto di riflessione: i bambini rifiutano un regalo da parte della nutrice, che si presenta a loro inaspettatamente come sostituta dei genitori,  e restano legati agli animali di pezza che sono stati loro dati dai genitori. Ma la realtà dolorosa irrompe nelle loro vite:  in Prima fuga i bambini, che si sono resi conto che i genitori si stanno separando, imitano a loro volta una ‘separazione’, termine di cui non comprendono bene il significato e soprattutto la motivazione.

In Bombegrottetende il ‘piccolo Giasone’ immagina che ci sia un luogo dove fuggire, un mondo alternativo, in cui tutti possano vivere senza separarsi: il nome di questo luogo, Bombegrottetende appunto, è una specie di incantesimo, non va rivelato ai grandi, che sono visti come i nemici in una terribile guerra psicologica e affettiva. Ma la ‘piccola Medea’ lo fa, e così l’incantesimo viene rotto ed anche la possibilità di una fuga verso quel mondo di fantasia.

Nell’episodio Depressione, un altro termine usato dagli adulti che per i bambini non ha un significato definito, la madre Medea mette in scena tutta la sua enfatica disperazione per essere stata tradita: Medea ‘grande’ parla in versi, riprende le parole del personaggio di Euripide (tradotte da Federico Diamanti), si esprime perciò in un modo che ai bambini riesce incomprensibile. La ‘depressione’ diviene perciò ai loro occhi un parlare confuso, una specie di follia, una mancanza assoluta di attenzione nei loro confronti. Anche la nutrice, quando interloquisce con gli adulti, con i genitori, usa i versi ed una dizione poetica, escludendo così i bambini dalla comunicazione e soprattutto dalla comprensione.  

 Nell’episodio Al campo sportivo vengono rappresentati gli stereotipi della mascolinità e della femminilità: la ‘piccola Medea’ gioca a calcio molto meglio del piagnucoloso fratello, ma il padre Giasone sa già che non potrà mai diventare titolare di squadra perché è una femmina e di converso usa un linguaggio da maschio, ricordando i suoi trascorsi atletici, con il figlio, che ha solo 5 anni, e che si sbuccia un ginocchio al primo tiro.

In Seconda fuga i bambini, su imitazione dei pensieri suicidi della madre, mettono in scena vari modi di morire (con una caduta, per strangolamento, per annegamento) e di uccidersi reciprocamente e riflettono sulla morte, un argomento su cui grandi e piccoli sono parimenti ignoranti. La morte può divenire allora solo un esercizio della fantasia, uno stato dell’immaginazione; o al contrario la morte è lo stato in cui viviamo, e ciò che chiamiamo vita solo una proiezione dei nostri pensieri. «Potrei essere morto io e soltanto PENSARE che tu esisti» - afferma ‘piccolo Giasone’.  Questo è certamente l’episodio emotivamente più coinvolgente e impressionante, oltreché – alla luce di recenti fatti di cronaca – terribilmente attuale. Attuale è anche il confinamento di questi bambini nella loro cameretta, che è rifugio ed insieme prigione, unico scenario delle loro segrete angosce, unica rassicurazione e méta: perché anche i loro viaggi di fantasia, alla fine, ritornano sempre al punto di partenza. La prospettiva di una separazione da quello che i bambini sentono come il loro proprio mondo li spaventa, e d’altro canto costituisce l’unica possibile via di fuga da una situazione insopportabile.

  La piéce, che può anche essere considerata una sorta di dialogo filosofico per scene staccate, si basa non solo sulla dicotomia linguistica tra mondo dei grandi e mondo dei piccoli, ma anche sulla separazione tra mondo immaginario e mondo reale:  mentre il confine tra lingua poetica e lingua parlata è evidente, però, il rapporto tra realtà e immaginazione non lo è affatto.

 La nave Argo e le fantastiche imprese della spedizione che precedono la tragedia di Giasone e Medea forse non è mai esistita, è un giocattolo che il padre dà ai figli (episodio Regalo). Il Litigio, ultimo e fatale tra i genitori, invece,  proprio perché tradotto quasi alla lettera dal testo di Euripide, resta sul piano di una rappresentazione teatrale priva d’ogni realismo, sospesa nel tempo dell’evento performativo. La Terza fuga dei bambini, avviene solo nella fantasia, e per giunta l’immedesimazione dei bambini con gli adulti è talmente riuscita che non si capisce invero chi è che fugga, se i grandi Giasone e Medea o i piccoli. In un Sogno, anzi in un incubo, avviene  l’assassinio dei bambini.

 Visto con gli occhi dei bambini, tutto è incerto: oscilla persino l’identità sessuale di ‘Nutrice’, che viene da loro chiamata ‘mamma’, ma ama una donna. Il divorzio dei genitori è reale, ma la maniera di presentarlo da parte dei grandi, tentando cioè ipocritamente di salvaguardare la tranquillità dei figli, lascia il dubbio che tutto possa continuare così com’era, che anche la separazione sia un’invenzione.

I bambini forse fuggono, forse si uccidono ereditando la depressione materna, o forse uccidono i genitori che non sopportano più: oppure, più semplicemente, accettano la fine dell’amore dei genitori e la loro futura assenza. In ogni caso, dunque, uccidono simbolicamente il padre e la madre e in questo trovano consolazione.

Il risultato è la percezione di una realtà frammentata, disorganica, illogica, inspiegabile, in cui i ruoli nella famiglia cambiano in continuazione, ma soprattutto cambia il posto che ognuno crede di avere al mondo. Con gli occhi dei bambini, il mondo dei grandi è ostile e ogni tipo di apertura affettivo verso di esso, ad esempio verso la nutrice, viene ricambiato con un tradimento. Unica certezza resta la possibilità di usare la fantasia e il dialogo  sincero con i veri e unici amici, due animali di pezza, il cane per ‘piccola Medea’ e un’anatra per ‘piccolo Giasone’. Paradossalmente, però, quel mondo odiato, così diverso, anche sul piano linguistico, viene imitato in continuazione, perché resta l’unico modello di riferimento nella costruzione della propria identità.

  I figli di Medea è una drammaturgia, cioè un testo destinato ad essere portato in scena: così meglio si capiscono le diverse stazioni dell’elaborazione della separazione dei genitori a cui il pubblico di bambini viene indotto a partecipare, dall’imitazione, appunto, all’aggressione, verso sé stessi e verso i genitori: l’effetto, secondo alcuni psichiatri, sarebbe catartico, perché nel rappresentare le passioni da cui vengono presi di fronte a un grave atto luttuoso, i bambini se ne libererebbero. In questo senso, il testo de I figli di Medea costituisce solo una traccia per un evento performativo che si deve basare sulla comune esperienza teatrale ed emotiva. Ri-vivendo il lutto lo si rielabora e lo si supera.

Del resto il testo nasce da un lavoro comune con bambini dai 6 ai 10 anni, per lo più figli di genitori separati, che all’epoca hanno raccontato i loro  pensieri, le loro reazioni, la loro ansia di fuga e poi di ricomposizione, che hanno insomma visto il loro diritto a vedere messa in scena la loro tragedia, e non quella dei genitori. Anche per questo molti genitori si rifiutarono di far partecipare i figli alle rappresentazioni.

Non siamo esperti di letteratura o teatro per l’infanzia: sicuramente prodotti come I figli di Medea rappresentano, al di là del genere, la possibilità di guardare alla tradizione tragica greca, e a i suoi temi esistenziali (l’amore tradito, la morte e la pulsione di morte, l’assassinio, l’incesto, il potere), con uno sguardo diverso, libero proprio da quella stessa tradizione, quasi ingenuo. Si tratta, in fin dei conti, di un ritorno al mito: della storia di Medea resta il dramma della separazione di una coppia che ha avuto figli, la distruzione del nucleo familiare, la riflessione sul significato della famiglia e sul necessario rinnovamento di questa istituzione sociale in un mondo che non riconosce più le stesse categorie di genere.

 

 I figli di Medea è dunque un prodotto tipico degli anni ’70 e dell’onda lunga della rivoluzione del ’68, un prodotto degli ‘anni di piombo’ in cui, tra le altre cose, veniva radicalmente messa in discussione la famiglia tradizionale e se ne denunciavano le conseguenze autoritarie. Non si può dimenticare, in quest contesto, che Scene da un matrimonio di Ingmar Bergman esce nel 1973.  Proprio per i contestatori di quegli anni, per i quali arte e politica era un binomio inscindibile, il mito greco rappresentò un patrimonio di simboli archetipici degli orrori di una mentalità fascista e capitalista. Resta però da interrogarsi sul fatto che quei miti appartenevano ad una cultura, classicistica e idealizzata, che veniva usata e contemporaneamente combattuta come reazionaria.

Dopo quegli anni, altri testi hanno adottato lo stesso punto di vista anche dopo: mi viene in mente, ad esempio, la favola La storia di Antigone raccontata dall’autrice di culto scozzese Ali Smith.

  Il fatto è che questa drammaturgia sfugge all’etichetta ‘teatro per ragazzi’ e anche a quella di ‘terapia familiare’. Le frequenti inserzioni del testo euripideo hanno senso anche per un pubblico che sa riconoscerle, non sono solo stranianti per il pubblico ingenuo dei bambini; il complesso gioco tra realtà e fantasia rinvia a testi teatrali di ben altra tradizione, Beckett, Ionesco e il teatro dell’assurdo, ad esempio; il livello simbolico della ‘favola’ non riguarda certo solo i bambini, il loro complesso di colpa di essere all’origine della separazione, la loro incolmabile solitudine.

Anzi, se si pensa al possibile pubblico de I figli di Medea, il pubblico privilegiato non può che essere adulto: e questo anche se la pièce viene solo letta invece che rappresentata. In una rappresentazione, invece, che prevede un ruolo difficilissimo per i giovani protagonisti, bisogna anche tener conto della struttura musicale della drammaturgia (le ‘fughe’ rinviano ad un commento musicale), con l’inserimento di diversi ‘cori’.

Non si tratta dunque di un testo facile, né facilmente rappresentabile. Però è un testo che può essere fruito a più livelli, perché permette un lavoro con i bambini di comprensione, rielaborazione, rifacimento del testo stesso, una sua riscrittura in un mondo che dalla metà degli anni Settanta ad oggi è profondamente mutato ed è rimasto altrettanto profondamente identico, come le emozioni umane e la possibilità di esprimerle con l’arte.

 

Ho sognato che eravamo morti. Eri disteso, così… (fa coricare sul pavimento il fratello) e io così (si stende sul letto) ed eravamo stati colpiti da un’ascia con delle campanelle…a me avevano tagliato a metà la pancia e a te il collo, e la testa ti si staccava e rotolava per terra come una palla (fa rotolare la palla) e in quel momento arrivava il papà e prendeva la tua testa perché doveva andare al campo sportivo a fare un po’ di tiri e quando vedeva la tua testa diceva (Giasone mima le parole) “Non si è lavato i denti” (Giasone fa rimbalzare lontano la palla, di malagrazia).

(Mea, in I figli di Medea di Per Lysander e Suzanne Osten, Edizioni primavera, Avellino, 2020)

 

Nelle immagini diverse foto di scena da varie rappresentazioni della piéce:   Backa Theater di Götheborg (2010); du Lung Has Theatre (2011);  la penultima immagine  dalla   VERA Teatro - Nischnij Nowgorod (2014); Hålogaland Teater (2013). 

Da giovedì 11 marzo ore 18, prende l’avvio I FIGLI DI MEDEA un ciclo di incontri dedicati al testo firmato da Suzanne Osten e Per Lysander, primo appuntamento del progetto Scritture e Scene d’Infanzia volto ad attivare un dialogo sulla drammaturgia del teatro ragazzi, promosso e organizzato da 3 circuiti multidisciplinari - ATCL - Associazione Teatrale fra i Comuni del Lazio, ATER Fondazione/Teatro Comunale Laura Betti, ERT FVG Ente Regionale Teatrale del Friuli Venezia Giulia, nell’ambito di teatroescuola dell’Ente regionale teatrale del FVG e Class Action. Il diritto al teatro, con il patrocinio di Agis nazionale e Assitej, in diretta streaming sulle pagine Facebook dei partner del progetto.
Dall’incontro della ricerca letteraria, editoriale e teatrale di Federica Iacobelli, scrittrice e curatrice della collana, nata pochi mesi prima della pandemia, I gabbiani: letteratura teatrale per giovani lettori di Edizioni Primavera, con l’importante esperienza tra palcoscenico, pubblico giovane e scuola di Cira Santoro, direttrice del Teatro Laura Betti di Casalecchio di Reno e Responsabile del settore ragazzi di ATER Fondazione, il Circuito Regionale multidisciplinare dell’Emilia Romagna, è nato il progetto SCRITTURE E SCENE D’INFANZIA che si interroga sul rapporto tra scritture per il teatro per l’infanzia e la scena, sull’autorialità in questo particolare segmento teatrale e sul possibile sviluppo in termini di educazione al teatro che la presenza di un’editoria dedicata e di un lavoro di formazione destinato alle figure educative, potrebbe creare.
In questo viaggio sono diventate presto alleate preziosissime Silvia Colle e Lucia Vinzi, responsabili del settore Scuola dell’ERT FVG, Ente Regionale Teatrale del Friuli Venezia Giulia/ teatroescuola, ideatrici della piattaforma www.teatroescuola.it dedicata alle risorse FADAD, acronomi di Formazione a Distanza (FAD) e Didattica a Distanza (DAD), e Emanuela Rea, che si occupa di Teatro Ragazzi e scuola per ATCL, il Circuito multidisciplinare del Lazio, promotrice, durante il lockdown della scorsa primavera, di una prima alleanza tra queste istituzioni teatrali, che proprio sul terreno del Teatro Ragazzi possono esercitare una importantissima funzione di coesione territoriale e formazione del pubblico.
Prima tappa di questo percorso nella letteratura teatrale per giovani lettori, I FIGLI DI MEDEA di Suzanne Osten e Per Lysander, una pièce scritta per e con i bambini rileggendo insieme a loro quella tragedia di Euripide in cui ‘i figli’ sono stati per secoli le vittime onnipresenti ma mute. È un testo messo in scena con stupore e scalpore nei paesi scandinavi dagli anni Settanta fino a oggi, ma ancora pressoché sconosciuto in Italia.

 

[1] Cfr. Margherita Rubino, Medea di Pier Paolo Pasolini. Un magnifico insuccesso, in: Il mito greco nell’opera di Pasolini, a cura di Elena Fabbro, Udine, Forum,  2004, p. 108 e il classico libro di Massimo Fusillo, la Grecia secondo Pasolini. Mito e cinema, Roma, Carocci, 2007, pp.130-138.

[2] Cfr. Andrea Rodighiero, Filologia e ideologia: il caso Medea, in: Storia della filologia classica, a cura di Diego Lanza e Gherardo Ugolini, Roma, Carocci, pp.339-342.