L’immagine bianco e nero di una donna in cella, gli occhi sbarrati, la bocca dalla piega amara che sembrerebbe ancora capace di chiedere aiuto con un sorriso deformato, le mani strette alle sbarre tra cui affaccia il volto palesemente segnato dalla sofferenza e dalla fame.
Dove abbiamo visto gli stessi occhi?
Nelle foto dei prigionieri dietro il filo spinato dei campi di concentramento nazisti, gli stessi occhi spalancati nel vuoto, atterriti eppure ancora pieni di speranza, le guance scavate, la stessa disperazione e la stessa forza, l’impossibilità di rassegnarsi e l’esposizione di un corpo fragile, sottile al punto da spezzarsi.
Qualcosa in quegli occhi ricorda ancora i fotogrammi da Il gabinetto del dottor Caligari (1920), il film che anticipò l’incubo del nazismo: occhi che fissano l’orrore, posseggono il coraggio di fissarlo, persino di rispecchiarlo, nel silenzio dovuto allo spezzarsi delle parole. Gli stessi occhi del Creonte interpretato da Emil Jannings nell’Antigone (1917) di Walter Hasenclever, occhi-specchio del proprio sviamento, dell’errore criminale, dell’assassinio compiuto.
L’ Antigone visionaria e pacifista di Walter Hasenclever (1917), scritta nella devastazione delle trincee e nel delirio psicotico della paura, termina con una voce dalla tomba, in cui chiede che tutta l’umanità si ravveda rispetto alle colpe compiute. Poco prima di essere arrestata, Ebru Timtik, la donna della cui ultima foto stiamo parlando, avvocatessa curda morta dopo 238 giorni di sciopero della fame, sciopero iniziato per chiedere un processo equo dopo il processo farsa che l’aveva condannata nel 2018 a 13 anni di carcere, aveva gridato: «se un avvocato muore, domanderà giustizia dalla sua tomba».
«Per me non fu Zeus a emanare quel bando, per cui non dovevo seppellire mio fratello, né Giustizia, che dimora con gli dei inferi: loro non hanno fissato tali leggi fra gli uomini. Né pensavo che i tuoi proclami, Creonte, avessero una simile forza, da indurre un mortale a sottrarsi alle leggi non scritte e ben salde degli dei» - così l’Antigone di Sofocle a Creonte (vv. 450-455).
Il mito di Antigone, diventa con queste parole il mito di chi chiede giustizia, di chi pone la questione della giustizia assoluta, di chi per la giustizia muore perché la morte non spegne l’esigenza di giustizia, la rende anzi eterna. E così la morte diventa una conquista, e un’arma che si ritorce contro chi la usa: «Una volta che mi hai catturata, che vuoi fare più che uccidermi?» - chiede Antigone a Creonte, sfidandolo. La stessa sfida sembra alzarsi dall’ultima immagine di Ebru Timtik, aggrappata alle sbarre della sua prigione.
L’ultima immagine di Ebru Timtik è pericolosa: perciò il ministro dell'Interno turco ha criticato l’ordine degli avvocati di Istanbul che l’ha pubblicata. Pericolosa per le associazioni che evoca, con i prigionieri di Auschwitz, le immagini delle torture di Abu Ghraib, dei lager in Libia, dei deportati di ogni tempo e luogo. Evoca quei volti consumati dal dolore, i loro occhi testimoni dell’indicibile, le dita serrate quasi ad afferrare la vita, evoca ogni immagine simbolica di uno stesso gesto, della lotta, strenua e mortale, contro l’ingiustizia, e non contro un’ingiustizia che derivi dal destino o dal caso o da una forza extra umana, ma l’ingiustizia che deriva da uno Stato e dalle sue leggi.
Nel 1946, Piero Calamandrei, in un saggio dal titolo Le leggi di Antigone sulla rivista fiorentina «Il Ponte», scriveva che non si doveva permettere che l’espressione leggi dell’umanità rimanesse un nesso retorico e vago: ‘umanità’ doveva cominciare ad essere finalmente un ordinamento giuridico, ed in nome delle sue leggi, le stesse leggi a cui obbediva Antigone, bisognava condannare i criminali dello stato nazista, che intendevano giustificare le loro azioni come obbedienti alle leggi del loro stato. Da quel saggio di Calamandrei si è sviluppata una tradizione di studi giuridici che usa il mito di Antigone come forma di narrazione delle principali questioni che riguardano la legge, la sua applicabilità, la necessità della ribellione alla legge che viola l’uomo. Le immagini che abbiamo evocato, producono una memoria dell’ingiustizia, non devono finire nella confusione di una società e di una cultura in cui la normalità è dimenticare, non ricordare. E in quelle immagini si profila, ancora per associazione, e ancora come strumento narrativo, il mito di Antigone.
Non vogliamo abusare del mito, anche se il mito nasce per essere abusato, per adattarsi a ogni situazione senza proporre artificiali esemplarità. Le analogie tra il mito della figlia di Edipo e le vicende di Ebru Timtik sono così patenti da sembrare banali, al punto che insistere su tali analogie potrebbe sembrare un gioco intellettuale, potrebbe svilire l’enormità del sacrificio umano dell’avvocatessa turca, del collega Aytac Unsal, degli altri prigionieri politici del governo di Erdogan.
Eppure, questo appare un caso in cui il richiamo al mito può servire anche da consolazione, perché inserire la vicenda di Ebru Timtik nella tradizione antigonea del rifiuto della legge ingiusta, ancorarlo ad una tradizione del mito e alla sua specifica ricezione giuridica, riconoscerne le radici nell’immaginario greco e dunque occidentale e ricostruirne la genealogia anche nel pensiero politico, significa a nostro parere amplificarne la voce e il significato, renderlo universale e simbolico. Significa non lasciare sola Ebru Timtik.
Ebru Timtik come Antigone: contro un Re legittimo e le sue leggi contro l’umanità, un’Antigone alla quale, come all’Antigone della tragedia greca, non è concesso alcun processo e alcuna difesa, condannata ad una pena abnorme per un crimine non dimostrato e non dimostrabile.
Ebru Timtik - come Antigone - si è avviata volontariamente alla morte, per non accettare la condanna di una legge che riconosce ingiusta: «Se i colpevoli sono costoro, che soffrano mali non più grandi di quelli che ingiustamente fanno a me» (vv. 927-928).
Ebru Timtik ha compiuto fino in fondo quello che sarebbe stato il destino di Antigone, morire di fame e segregata, e che con la propria morte ha dimostrato la coerenza della propria azione e la fede in una giustizia assoluta. Chi muore così, non muore da pazzo o da disperato, ma nella lucida consapevolezza del valore delle proprie azioni. E tuttavia, pur scegliendo di morire per protestare contro l’ingiustizia della condanna, Ebru Timtik, come Antigone, è stata condannata a morire.
«Le autorità turche volevano la morte della mia assistita», dice il suo avvocato, e proprio per questo avevano stabilito il ricovero in un ospedale, avendo rifiutato di liberarla per motivi di salute. Ma il trasferimento in ospedale è stato un alibi, per rendere innocente la città, così come Creonte, per non rendere impura la città con un crimine di sangue, condanna Antigone a essere reclusa in una grotta con quel poco da mangiare che possa tenerla ancora in vita. Ebru Timtik è stata chiusa «in una stanza gelida a causa dell’aria condizionata, con la luce sempre accesa, senza la possibilità di aprire una finestra. Non le davano zucchero e l’acqua era razionata. In questo modo è morta molto prima che se fosse rimasta in cella».
Così Creonte nella tragedia di Sofocle: «Facendola portare là ove non sia traccia di orme umane, la seppellirò viva in un antro rupestre, solo con quel tanto di cibo che basti come espiazione, in modo che la città intera sfugga al contagio. E là pregando Ade, il solo che venera fra gli dèi, otterrà forse di non morire; o almeno apprenderà allora che è vana fatica onorare i morti» (vv, 773-780).
Ebru Timtik è stata portata a morire dalla prigione a un ospedale, dove forse avrebbe ottenuto di non morire. E la città non è stata contaminata dal suo omicidio.
Anche Ebru ha una sorella, Barkin, una nuova Ismene, condannata anche lei da Creonte: «portatele dentro; d’ora in poi bisogna che queste donne non siano lasciate libere» (vv. 578-579). Barkin Timtik è in carcere, e le è stata negata la possibilità di partecipare ai funerali della sorella, costringendola a diventare a sua volta simbolicamente una Antigone; funerali sui quali sono stati lanciati lacrimogeni, perché il funerale non diventi luogo di memoria, funerali interdetti ai familiari, che non hanno potuto portare il corpo sulle spalle.
«Per costui è stato ordinato a questa città né di onorarlo con una tomba, né di piangerlo» (Antigone, vv. 204-205).
Ebru Timtik come Antigone, Antigone come Ebru Timtik.