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Ci sono ‘maschere’ della mitologia greca di cui la contemporaneità ha bisogno. I nostri tempi sembrano rievocare spesso Ecuba, in una ampia tastiera di variazioni.

La sua finale metamorfosi in cagna, che si trova in alcune delle variazioni del mito antico, ha sedotto quegli interpreti che hanno voluto insistere sulla fisicità del teatro cosiddetto post-drammatico, in cui il testo, cioè, ha perso la centralità che gli è propria nel teatro drammatico, in favore di una performance più fisica. Il Teatro di Buti, invece, in questa produzione  per la regia di Dario Marconcini, ha optato per esiti diversi.  Chi dice Dario Marconcini intende teatro di sperimentazione e di ricerca: nota è la sua collaborazione con Roberto Bacci, col quale fonda, è il 1974, il Centro per la Sperimentazione e la Ricerca Teatrale diPontedera. Accanto a Marconcini sta Giovanna Daddi, musa e compagna nella vita e nell’arte: la loro complicità  esistenziale e teatrale è sempre e da sempre incredibilmente, misteriosamente efficace.   

Ecco dunque questa Ecuba. Un teatro in levare. Una sola interprete, Giovanna Daddi, quasi sempre ferma, seduta su un rustico panchetto, ammantata di vesti grigie e nere, talvolta curva in avanti, talvolta inginocchiata. Le fa da rapido contraltare il giovane Poseidone, Leonardo Greco, e un tappeto di suoni le viene fornito dalla Sagra della Primavera di Stravinskij. Lo sfondo, video, svanisce subito: una città che crolla: non Troia, una città di oggi, una delle innumerevoli rovine che la guerra si lascia alle spalle. Si rinuncia subito però a trasportare il destino di Ecuba in tempi moderni, accomunarla alle molte donne che soffrono e subiscono le conseguenze delle mille guerre che solcano il nostro pianeta. Lo sfondo contemporaneo, quindi, scompare ed è Euripide che comincia a parlare: Euripide, il grande tragico che ha reso Ecuba la ‘maschera’ più ferma e forte del cordoglio, del vuoto, della sconfitta.

 

Un tempo regina e ora schiava, in attesa di sapere chi sarà il nuovo padrone, Ecuba deve ancora vivere il momento più lacerante di un conflitto che ha costellato di cadaveri la città e la sua famiglia: deve intonare il compianto sul corpo fracassato del nipotino, Astianatte, il figlio di Ettore e Andromaca, lanciato dalle mura dai Greci che vogliono così eliminare il futuro vendicatore e di spezzare ogni germoglio della stirpe nemica, ora completamente annullata. Non è necessario trasportare Ecuba nel tempo e renderla nostra contemporanea per ascoltarne la pena: la voce del suo dolore è eterna e non ha bisogno di incarnazioni per colpirci al cuore. Basta che venga a noi così com’è.  

Con alto stile, l’attrice pronuncia un lungo monologo che riassume tutte le sfumature del cordoglio di Ecuba nelle Troiane: lutto, desolazione, vuoto, perdita, sconfitta, incredulità. Lo pronuncia, non cedendo mai alla tentazione del pathos: brechtiana, pulita e sublime, lo porge in una dimensione che sta agli antipodi dal compianto per immergersi nella luminosa eternità della narrazione senza tempo. Lo porge in una traduzione non contemporanea (alla domanda su chi sia il traduttore, che non compare in locandina, Dario Marconcini sorride ironico e dice che non lo ricorda, che si tratta di brani tratti dal suo manuale di scuola: una civetteria, certo, che però ha tutta l’aria di essere vera), che in alcuni luoghi cede alle insidie di una lingua fin troppo letteraria, imbalsamata, non realistica (si nomina ‘il fastigio di Ilio’, i ‘cinguettanti pennuti’), ma che svolge completamente il suo compito: risultare alta, oscura, oracolare, poco comprensibile. Non quotidiana, aliena.

Nel dibattito contemporaneo sulla traduzione teatrale, molti si sono pronunciati in favore della ‘dicibilità’, della comprensione immediata: altri, come Alessandro Serpieri, celebre traduttore di Shakespeare, esortano invece a rimanere densi ed ellittici, senza banalizzare mai, perché proprio da questi nodi di semi incomprensibilità nasce la suggestione poetica, la magia. E se non la poesia, almeno l’amara consapevolezza. Almeno tutta la portata di una disperazione asciutta, insensata, irrimediabile.

Il pubblico siede e ascolta, l’attrice siede e offre il suo monologo e per una volta la parola si rivela, con tutti i suoi angoli di mistero, i suoi echi e le sue oscurità, più contemporanea e più rivoluzionaria di molte soluzioni performative d’avanguardia. 

La lezione gelida e sublime che Giovanna Daddi ci fornisce esplode nel finale: il lungo monologo si conclude nei latrati della cagna nera, nella quale, secondo il racconto mitologico, Ecuba si trasformò durante la traversata che avrebbe dovuto condurla al suo destino di schiavitù: “forsennata latrò sì come cane,/ tanto il dolor le fé la mente torta”, chiosò Dante.

E lo spettacolo conosce una chiave di lettura metateatrale proprio all’ultimo secondo, quando Dario Marconcini raggiunge in scena la sua attrice per pronunciare una immortale battuta di Shakespeare: nell’Amleto, una compagnia di teatranti girovaghi è arrivata a corte, e il primo attore ha pronunciato un monologo in cui Ecuba lamenta la morte del marito, con pathos estremo, con partecipazione esibita. Il principe se ne meraviglia: “chi è Ecuba per lui?” si chiede, e per quale magia ha potuto verificarsi in scena un’immedesimazione così alta? Come un perfetto estraneo è riuscito a dipingere le emozioni e le reazioni di una figura del mito, che non condivide nulla con la sua realtà?  

A parte il sottile suggerimento interpretativo, perché la lezione di Giovanna Daddi non ha attinto al pathos, all’emotività,  ma si è attestata in un sublime lunare gelido ed efficace , la scena fa sobbalzare l’intero pubblico, tanto è forte l’impatto con la presenza e la voce di Marconcini: dalla sua entrata, molti hanno pensato che lo spettacolo avrebbe conosciuto una seconda partenza, un nuovo inizio. È il vertice, invece, prima del sipario, fra gli applausi del pubblico.    

 

ECUBA, LA CAGNA NERA

Da Le Troiane di Euripide

Drammaturgia e regia Dario Marconcini

Scene e Luci Riccardo Gargiulo e Maria Cristina Fresia

Produzione Associazione Teatro Buti

Visto alla Sala di Bartolo il 9 dicembre 2022

Le foto sono tratte dal sito facebook del Teatro di Buti