Torna l’Ippolito portatore di corona di Euripide al Teatro Greco di Siracusa, sia pure col titolo di Fedra: una scelta non nuova da parte dell’Istituto Nazionale del Dramma Antico (lo stesso era accaduto per la messinscena del 2010) e che trova una sua più che legittima giustificazione nel fatto che già le fonti antiche usavano per il drama euripideo anche il titolo Fedra, così come s’intitolava Fedra una perduta tragedia di Sofocle e quella successiva di Seneca.
La precedente rappresentazione siracusana del 2010 era stata curata dal regista Carmelo Rifici, si basava sulla traduzione di Edoardo Sanguineti, e aveva avuto come interpreti Maurizio Donadoni come Teseo, Massimo Nicolini come Ippolito, Elisabetta Pozzi come Fedra[1]. Quest’anno, per la 59esima stagione dell’INDA la regia è stata affidata allo scozzese Paul Curran, specializzato in regie di opere liriche, già direttore artistico della Norwegian National Opera and Ballet e consulente artistico della Central City Opera di Denver in Colorado. La traduzione, scorrevole e precisa, è di Nicola Crocetti, filologo e traduttore di prim’ordine, nonché animatore della rivista “Poesia” e della omonima casa editrice, conosciuta per le sue proposte di testi della letteratura greca moderna e contemporanea. Accanto al regista ha operato come “drammaturgo” Francesco Morosi, giovane studioso del teatro antico, a sua volta traduttore di testi teatrali e come scenografo e costumista Gary McCann.
Ne è uscito uno spettacolo avvincente ed emozionante, che sottolinea con musiche e trovate scenografiche non solo il dramma di Fedra, travolta suo malgrado dalla passione amorosa e suicida per la vergogna, ma anche il dramma di Ippolito, inflessibile nel suo credo moralista e sessuofobo, maledetto e cacciato dalla casa paterna, come pure il dramma di Teseo, troppo frettoloso nel trarre conclusioni e prendere decisioni irrevocabili, e perciò punito con la morte del figlio.
Il grande spazio scenico del Teatro Greco siracusano presenta sullo sfondo delle impalcature di metallo con scale e passerelle di legno. Un vero e proprio cantiere, pieno di ponteggi e tubolari: dovrebbe essere il palazzo reale di Trezene, località dove Euripide ambienta la vicenda, una reggia un po’ fatiscente, ancora in costruzione o forse già in declino. Al centro la sagoma di una figura umana, una grande testa bianca di donna, alta sei metri, avvolta in un involucro (da leggere forse come allusione all’Ippolito velato, dramma messo in scena da Euripide alcuni anni prima dell’Ippolito portatore di corona, e sonoramente sconfitto nelle Grandi Dionisie per i contenuti eccessivamente scabrosi). Quando il velo viene fatto cadere, sulla testa sono proiettati ora il volto di Afrodite, ora quello di Fedra. Più avanti si scopre che quella testa ingombrante che per tutta la durata dello spettacolo incombe sugli attori e sugli spettatori, e sulla quale vengono proiettate anche immagini di fuoco e di acqua per rappresentare icasticamente le emozioni del momento, è la testa di una divinità, precisamente di Artemide, la dea della caccia cui è devoto il giovane Ippolito con i suoi seguaci.
Del resto, la tragedia è giocata proprio sulla contrapposizione tra due divinità in competizione tra di loro. Artemide contro Fedra, dunque, impegnate in una vera e propria guerra di potere, e le sorti degli umani in balìa dei loro capricci. Afrodite (interpretata da Ilaria Genatiempo) dà inizio alla rappresentazione entrando in scena a sorpresa dalle gradinate, anziché recitare sopra una pedana rialzata (il theologeion) come era uso nel teatro antico. La dea dell’amore è agghindata con un abito luccicante d’oro nella parte superiore e sotto una gonna color avorio con lungo strascico. In testa porta una corona d’oro e ai piedi tacchi a spillo. Non c’è dubbio che la sensualità e l’eleganza del costume di scena e dell’attrice servano ad enfatizzare la potenza di questa dea vendicativa che fin dai primi versi illustra agli spettatori gli antefatti e le conclusioni della vicenda. È un’Afrodite provocante e sfrontata. Piace la sua recitazione estremamente composta e ben calibrata, come si addice a una divinità offesa che con spietata freddezza sta ordendo la sua vendetta («Chi venera il mio potere, io lo rispetto, ma chi mi tratta con arroganza, io lo distruggo»).
Riccardo Livermore, giovane attore emergente, già presente a Siracusa lo scorso anno come pedagogo nella Medea di Federico Tiezzi, dà corpo a un Ippolito scatenato e sfrontato, sgargiante e leggero. Entra in scena con pantaloni bianchi e una camicia argentata luccicante di paillettes e aperta sul davanti a mostrare il petto villoso. La mascolinità, esaltata dal costume, vuole essere dedita esclusivamente ai riti del culto per la dea Artemide, alle pratiche della caccia e delle gare di corsa coi cavalli. Il seguito di Ippolito è composto da ragazzi esaltati che si esibiscono in danze sfrenate e portano sul capo corone d’edera ovvero ne brandiscono ramoscelli. Un po’ hippies anni Sessanta del secolo scorso, un po’ Hare Krishna, un po’ iniziati dei rituali bacchici, si dimenano ascoltando musiche impulsive e caotiche (composte per l’occasione da Matthew Barnes). I paradigmi di riferimento della modernità sono più che leciti e utili per attualizzare il testo. Non disturba affatto che per accendere le musiche un coreuta clicchi il tasto di uno smartphone, ma ci si chiede se questo gioco di rimandi allusivi non sia inappropriato rispetto a un giovanotto come Ippolito che, nel nome di Artemide, predica i valori della castità e del moralismo.
Alessandra Salamida interpreta una Fedra sommessa e tormentata, distrutta psicologicamente dalla vergogna per un amore che lei stessa sa essere inaccettabile socialmente e moralmente, e dalla paura di essere scoperta. L’idea è di farne una donna moderna, sofferente di depressione e divorata dai sensi di colpa verso il marito e i figli. Del tutto inutile è il tentativo di soffocare la passione nel segreto e nel silenzio. Fedra non sa che a colpirla è stata Afrodite, che Eros è una forza invincibile e soverchiante. Il manifestarsi della passione erotica diventa per lei un evento traumatico che le genera un dolore insostenibile. L’amore diventa così un percorso autodistruttivo, che infatti la porterà alla morte. Accanto a lei la Nutrice che nel consolarla l’afferra con le mani, la cinge con le braccia, la supplica chiamandola «bambina», «bimba mia» (ottima soluzione per il vocativo greco παῖ). Gaia Aprea è veramente efficace nel rendere il personaggio dell’anziana balia, devota e maliziosa, con voce ora assertiva e ora melliflua, capace alla fine di strappare il segreto alla sua padrona. E quando Ippolito, scandalizzato per avere saputo della passione immorale che Fedra nutre nei suoi confronti, se ne esce col celebre monologo contro le donne («O Zeus, perché hai messo al mondo le donne, un male pieno di inganni?»), ecco scattare l’applauso che sulle prime è titubante, ma via via prende quota. Il pubblico di Siracusa è sufficientemente attrezzato per capire che quelle battute misogine non sono il messaggio del dramma, ma lo sfogo di un personaggio sconvolto.
La rappresentazione decolla con l’ingresso di scena di Teseo, con indosso una tunica blu che gli conferisce autorevolezza regale. Alessandro Albertin, già apprezzato come Prometeo nel Prometeo incatenato eschileo rappresentato a Siracusa nella stagione 2023, si erge a mattatore assoluto della seconda parte della tragedia. La sua recitazione rende con la massima incisività la catena di sciagure che lo colpiscono: il suicidio della moglie Fedra, la maledizione scagliata contro il figlio Ippolito, ingiustamente accusato di avere abusato della matrigna, e alla fine la morte del figlio stesso, tardivamente riconosciuto innocente. Il finale dell’Ippolito portatore di corona è una tragedia nella tragedia, un aspetto che Paul Curran ha colto perfettamente. Che il seguito di Teseo sia composto da uomini che indossano divise gialle, catarifrangenti ed elmetti con torcia, tipo agenti della protezione civile o vigili del fuoco, ha fatto storcere la bocca ad alcuni spettatori, ma l’anacronismo spiazzante non disturba affatto. Il momento più patetico della messinscena è l’ostensione del corpo di Fedra, trasportato su una lettiga da pronto soccorso, attorno al quale si levano musiche e canti di lamento funebre, mentre il disperato “Nooooo!” di Teseo fa raggelare il sangue nelle vene.
Anche Ippolito morente, ferito in un incidente col carro, è trasportato su una lettiga. Teseo vince la sua durezza e può congedarsi dal figlio in una ritrovata unione affettiva. Il rapporto padre-figlio assume contorni freudiani, senza alterare una sola parola rispetto ai dialoghi euripidei, ma caricando le gestualità e lo stile recitativo dei personaggi. Tra i due c’è una totale incomunicabilità e un rapporto di amore/odio. Nell’ultima sequenza dello spettacolo si vede il vecchio sovrano dell’Attica che tiene tra le braccia il corpo senza vita del figlio, vittima dell’anatema paterno. Lo schema della pietà michelangiolesca, per quanto abusato, in questo contesto non disturba affatto ed anzi carica di emozioni forti il finale. Ma c’è ancora spazio per l’apparizione di Artemide (Giovanna Di Rauso), con lungo peplo classico, elmo, collare e bracciali, tutto di color rosso scuro. La dea esce dalla grande testa totemica che per tutto il tempo è rimasta sulla scena e che improvvisamente si apre. A lei tocca spiegare, con voce ferma e sicura, la verità dei fatti accaduti, ovvero la punizione di Ippolito per opera di Afrodite, e quella di Teseo per avere commesso un grave errore, ovvero avere decretato la condanna del figlio, ingiustamente accusato da Fedra di avere abusato sessualmente di lei, facendosi guidare dalle emozioni e senza alcun accertamento della verità dei fatti.
In un passaggio clou del dramma, quando Fedra, tra imbarazzi e reticenze, rivela finalmente alla Nutrice i suoi sentimenti verso Ippolito, la protagonista chiede: «Che cos’è quella cosa che chiamano amore?» cercando aiuto nel definire lo scuotimento che sente nel cuore. Il regista Paul Curran è voluto partire proprio da questa domanda per farne il punto nevralgico della tragedia. La sua risposta, che si legge nel programma dello spettacolo, ha un evidente valore programmatico: «Nell’Ippolito, l’amore non è tanto il sentimento radioso, nitido e limpido, volutamente depurato da ogni elemento fisico, che una civiltà sessuofoba ci ha imposto nei secoli; nella tragedia di Euripide, l’eros è desiderio carnale, ossessione, rovina. Afrodite, la dea che avvia l’azione e di cui si celebrerà il trionfo, è la forza vitale da cu tutto nasce nel mondo; non è trasgressione ma è la base stessa del cosmo della società umana. Ed Eros è il suo agente terribile e onnipotente»[2]. Su queste basi la messinscena di Curran diventa un’indagine inquietante sulle ambiguità e sulle conseguenze incontrollabili dell’eros, tra desiderio e negazione, libertà e costrizione. I due impulsi contradditori dell’eros, passione e repressione, sono incarnati nelle due divinità in lotta, Afrodite e Artemide.
Tra gli aspetti più riusciti della messinscena va segnalato l’avvincente gioco cromatico dei costumi realizzato da Gary McCann, scenografo e costumista: la tavolozza dei colori alterna il grigio della scenografia sullo sfondo (il Palazzo fatiscente), il bianco-oro luccicante di Afrodite, a simboleggiare l’ansia di vendetta implacabile e voluttuosa, il giallo della tunica di Fedra, colore dello spasmo passionale che si accompagna al senso di vergogna e rimorso, il nero della Nutrice, confidente anziana che anziché fungere da protezione finisce col decretare la rovina funesta, il blu scuro di Teseo, segno di autorità regale e anche di catastrofe annunciata, il rosso di Artemide, a suggellare il trionfo della dea che ex machina spiega all’affranto Teseo le proprie ragioni e le colpe da lui commesse.
Fedra (Ippolito portatore di corona) di Euripide
Regia: Paul Curran
Traduzione: Nicola Crocetti
Drammaturgia Francesco Morosi.
Scenografia: Gary McCann
Costumi: Gary McCann
Musiche del coro iniziale: Matthew Barnes
Musiche dello spettacolo: Ernani Maletta
Luci: Nicolas Bovey
Video design: Leandro Summo
Assistente alla regia: Michele Dell’Utri
Direttrice del coro: Francesca Della Monica
Responsabile del coro: Elena Polic Greco
Interpreti: Ilaria Genatiempo (Afrodite), Riccardo Livermore (Ippolito), Sergio Mancinelli (Servo), Gaia Aprea (nutrice), Alessandra Salamida (Fedra), Alessandro Albertin (Teseo), Marcello Gravina (messaggero), Giovanna Di Rauso (Artemide), Simonetta Cartia, Giada Lorusso, Elena Polic Greco, Maria Grazia Solano (corifee), Valentina Corrao, Aurora Miriam Scala, Maddalena Serratore, Giulia Valentin, Alba Sofia Vella (coro di donne di Trezene), Caterina Alinari, Allegra Azzurro, Andrea Bassoli, Claudia Bellia, Carla Bongiovanni, Clara Borghesi, Davide Carella, Carlotta Ceci, Federica Clementi, Alessandra Cosentino, Sara De Lauretis, Ludovica Garofani, Enrica Graziano, Gemma Lapi, Zoe Laudani, Salvatore Mancuso, Carlo Marrubini Bouland, Arianna Martinelli, Riccardo Massone, Linda Morando, Giuseppe Oricchio, Davide Pandalone, Carloandrea Pecori Donizetti, Alice Pennino, Francesco Ruggiero, Daniele Sardelli, Flavio Tomasello, Elisa Zucchetti (coro).
Foto: Maria Pia Ballarino
Fedra (Ippolito portatore di corona) ha celebrato la premiere al Teatro Greco di Siracusa l’11 maggio e resta in scena fino al 28 giugno. Lo spettacolo sarà replicato al Teatro Romano di Verona nei giorni 11 e 12 settembre.
[1] Quello di quest’anno è il quinto allestimento al Teatro Greco di Siracusa dell’Ippolito portatore di corona dopo le edizioni del 1936, 1956, 1970 e 2010.
[2] P. Curran, Che cos’è quella cosa che chiamano amore, in Fedra - Ippolito portatore di corona di Euripide, Istituto Nazionale del Dramma Antico, Siracusa 2024, pp.13-14 (citazione a p. 13).