Dalla rubrica Notizen aus dem Polis della Volksbühne di Berlino, ringraziando l’autrice e il teatro berlinese per la gentile concessione, traduciamo questa testimonianza sulla pacifica rivoluzione bielorussa, uno degli avvenimenti più significativi di quest’anno al tramonto e del suo (tragico) tempo della rivolta.
Come scrivevamo già a maggio, ampliando i contenuti di questo blog, parlando cioè anche d'altro che non sia strettamente legato alla tragedia greca, cerchiamo di non venir meno alla prima funzione del teatro nella tradizione occidentale, che è portare in scena i problemi della polis, della città. Ed è nella stessa direzione che va, sin dal titolo, la rubrica periodica Notizen aus dem Polis della Volksbühne, a cura della scrittrice, drammaturga e giornalista berlinese Annett Gröschner. (S.F.)
Ho ripercorso mentalmente la cronologia del 2020 e tutto quel che è successo negli ultimi mesi in Bielorussia mi sembra incredibile. Cos’è stato? Una rivoluzione? Una sollevazione popolare? Una crisi politica? Una guerra? Nessuna di queste parole può davvero definire con precisione quel che è accaduto: nessuno se lo aspettava, nessuno lo aveva previsto.
È andato tutto troppo velocemente, un singolo giorno di quest’anno è valso quanto mesi. Al principio c’è stato il coronavirus. Quando ha raggiunto la Bielorussia e si è rapidamente diffuso, il regime ha mostrato un’assoluta, cinica indifferenza verso la vita umana. Il presidente Lukašėnko ci tacciò di isteria e ci consigliò di combattere il corona virus con la wodka.
Nell’estate del 2020 ci siamo svegliati da un lungo letargo; senza darci appuntamento, ci siamo incontrati per strada. Allora è cominciata una campagna elettorale scorretta, basata sulla repressione, cosa per niente nuova per la Bielorussia. Eppure stavolta è stato tutto diverso. Per la prima volta dopo 26 anni abbiamo avuto la speranza che qualcosa potesse cambiare. Questa speranza è stata brutalmente annientata il 9 agosto 2020, il giorno delle elezioni. Quando siamo scesi in strada per reclamare il peso dei nostri voti, ci hanno accolto proiettili di gomma, bastonate e gas lacrimogeno.
Nella nostra storia c’è qualcosa di speciale, di unico: non siamo un’opposizione che lotta per il potere, tra noi non c’è nessun leader che si vuole impadronire del paese. C’è solo un’orgogliosa maggioranza, che adesso finalmente si riconosce come un unico popolo, che si è compattata durante le elezioni e che lotta costantemente per la sua libertà e dignità.
Sino ad oggi sono state arrestate più di 30.000 persone, 156 di loro sono in carcere come prigionieri politici. Centinaia e centinaia sono stati feriti, torturati in carcere e almeno sette assassinati. Per tutti i bieloruss*, che si trovino nel paese oppure all’estero, è diventato un rito serale quotidiano verificare le infinite liste di prigionieri, che vengono compilate quotidianamente dall’organizzazione per i diritti umani Viasna. Invece di giornali e libri, invece di guardare la televisione o film, tutti noi guardiamo solo ancora le notizie nei canali di Telegram. Con quest’app comunichiamo anche con le nostre famiglie, con gli amic* i collegh*, naturalmente tramite VPN, Proxy e PGP. Per fortuna internet funziona quasi sempre, tranne durante il week end, quando è ferma anche la metropolitana, in maniera tale che la gente non possa riunirsi nelle grandi piazze del centro. La maggior parte dei bus non fanno fermate sul Viale dell’ Indipendenza. Invece stazionano lì celerini, idranti e unità speciali della polizia (OMON), pronte a reprimere qualsiasi atto di rivolta e resistenza.
Il mio bar preferito nella ‘Strada Ottobre’ è stato chiuso per sempre, e così il mio caffè nella ‘Strada della Libertà’, e pure tanti altri posti a Minsk, dove i contestatori riuscivano a nascondersi, fuggendo la polizia, oppure caffé che scioperavano per solidarietà.
Il centenario teatro Kupala già ad agosto è stato chiuso a tempo indeterminato, la maggior parte degli attori licenziati. I musicisti hanno perso il posto perché suonavano canzoni popolari per strada e cantavano insieme ai contestatori.
I medici sono stati licenziati, perché curavano i feriti delle manifestazioni e condannavano pubblicamente la violenza. Gli operai sono stati licenziati, perché scioperavano. Scienziati e insegnanti sono stati licenziati, perché non volevano più sostenere l’ideologia di Stato.
I giornalisti, che hanno solo fatto il loro lavoro dando la cronaca delle manifestazioni, sono stati arrestati per ‘aver partecipato ai disordini’ – come suona la formula ufficiale; gli studenti sono stati picchiati nella stessa università e sono stati destituiti in massa dallo status di studenti.
Chi è in giro per le strade di Minsk, soprattutto a sera oppure durante il week end, deve vestirsi in maniera calda e comoda. Alle donne si sconsiglia vivamente di indossare tacchi alti, gonne e gioielli. Si deve avere con sé calze e intimo di ricambio, spazzolino, articoli igienici e qualcosa da mangiare.
Infatti non si sa mai: si può essere costretti a scappar via di corsa improvvisamente, ma se si è presi non si sa dove si sarà portati e obbligati a trascorrere i prossimi quindici giorni. Si consiglia di lasciare a casa il cellulare, perché le foto e i messaggi di Telegram possono essere addotti come prove nei processi-farsa. Se si vedono dei minibus blu, degli uomini vestiti di nero oppure delle video camere, si deve correre il più veloce possibile nella direzione contraria.
Questa è la nuova quotidianità nella mia città natale, Minsk, che negli ultimi cinque mesi è cambiata sino a diventare irriconoscibile. Non accetterò mai che nelle strade in cui sono cresciuta siano picchiate ed arrestate delle persone, solo perché passeggiano con dei fiori in mano. Non posso credere, che ci siano persone obbligate a stare tutta la notte sotto la pioggia in un recinto di filo spinato, non posso credere che nelle carceri gli arrestati siano brutalmente torturati. E che questo accada in una città nelle cui strade, di notte, mi sono sentita sempre sicura, anche da sola.
Non riesco più a ricordarmi com’era un tempo: di cosa abbiamo parlato, come abbiamo trascorso le sere e i fine settimana, se di notte sognavamo e per cosa eravamo tristi.
Se io guardo da Berlino quel che accade nella mia Minsk, allora mi sembra di assistere ad un film distopico, con una sceneggiatura del tutto prevedibile. Ciò che è malvagio, in questo film, è davvero troppo malvagio, ed è talmente stupido da sembrare una caricatura; invece ciò che è buono è troppo nobile e troppo ingenuo.
Un dittatore cattivo cammina per la città armato di mitra e predispone la sua incoronazione segreta. Banditi in uniforme o in abito civile, i cosiddetti Tichari [i ‘silenziosi’, agenti del KGB], rastrellano i cortili dei condomini e distruggono i monumenti pubblici per i morti durante le proteste. Possono in ogni istante bussare alla mia porta o a quella dei miei cari – solo il pensiero mi fa battere forte il cuore e mi ruba il sonno.
Le manifestazioni organizzate dal governo e i concerti con la gente vestita verde-rossa, gli slogan studiati e i simboli sovietici appaiono troppo innaturali per essere veri. Gli agenti di propaganda importati dalla Russia in televisione aprono una finestra in una dimensione parallela, in cui Polonia e Lituania vogliono aggredire la Bielorussia.
A tutta questa oscurità e tutto questo terrore si oppongono la solidarietà e la coesione della gente. Quando sono stata a Minsk l’ultima volta, ad agosto, ne ho avuto un’esperienza molto intensa. Ero in Piazza dell’indipendenza tra migliaia di contestatori. In risposta ai gesti minacciosi delle forze di massima sicurezza degli OMON le donne in coro intonavano il canto popolare bielorusso ‘Kupalinka’. Mentre gli agenti vestiti di nero attaccavano e colpivano a caso tra la folla, i contestatori, vestiti di bianco, si tenevano insieme tra loro stretti stretti, una barriera impenetrabile, si facevano scudo l’uno con l’altro. Com’era meravigliosa, in quel momento, Piazza indipendenza, piena di una folla bianca-rossa-bianca, infinita. In quella folla di estranei ho potuto parlare con chiunque, come se si trattasse di un vecchio amico. Mi è sembrato che noi potessimo reciprocamente leggerci nei pensieri.
Allora era ancora estate, e adesso di nuovo inverno… ma anche se ogni giorno diventa sempre più freddo e buio, la protesta e la solidarietà non sono scomparse dalle strade di Minsk. Sono nei cortili dei prefabbricati, dove degli estranei improvvisamente escono dalle case, si conoscono tra loro e diventano una vera e propria comunità. Così, negli ultimi mesi, sulla mappa della città sono comparsi nuove denominazioni per alcuni luoghi, come ‘Piazza del cambiamento’ oppure ‘Piazza Maria Kolesnikova’, in onore della politica dell’opposizione che è stata arrestata.
Le comunità spontanee di Minsk, composte da vicini di casa, adesso hanno persino le loro specifiche bandiere con i colori bianco e rosso – ad esempio sulla bandiera in via Rosa Luxemburg c’è l’emblema di una rosa e una bottiglia rotta.
Dalle finestre traspaiono luci e bandiere bianche-rosse-bianche; sulle ringhiere e sulle recinzioni sono appesi nastri bianchi e rossi, ed anche alle pareti degli edifici ci sono immagini nei colori della protesta. Le imprese di pulizia e gli addetti comunali tagliano i nastri, distruggono le pitture murali, rubano le bandiere e persino i capi intimi bianchi e rossi appesi ai balconi. Eppure, non appena sono distrutti, i simboli della protesta appaiono di nuovo, rimessi al loro posto da una mano invisibile.
Ogni giorno la gente si riunisce nei cortili dei condomini per bere insieme tè, per cantare insieme in concerti improvvisati, oppure per discutere di politica e di storia. Queste nuove comunità fanno la colletta per pagare le sanzioni in denaro inflitte ai loro membri, e se qualcuno di loro finisce in prigione si occupano degli animali domestici.
Hanno sperimentato che per aiutarsi reciprocamente e sostenersi non hanno bisogno di alcuna guida o capo politico. Legami solidali, unità e movimenti di base sono il nocciolo duro della protesta bielorussa.
E se anche dal punto di vista politico in questo momento persiste una situazione statica, in Bielorussia c’è ormai già stata una vera e propria rivoluzione, e non si può tornare indietro.
Sophija Savtchouk è attivista e femminista di Minsk, Bielorussia. È cofondatrice e prima presidente dell’associazione ‘RAZAM’, creata nell’estate 2020 dalla diaspora bielorussa in Germania. Nel 2018 si è laureata in Scienze della comunicazione all’Università Europea di scienze umane di Vilnius, Lituania, università bielorussa in esilio. Dal 2019 vive a Berlino e lavora nel programma ‘Fund for Belarus Democracy’ (German Marshall Fund of the United States).
Per una cronaca della rivoluzione bielorussa dell’agosto 2020 vedi ad esempio questa serie di brevi documentari di Arte e https://www.internazionale.it/reportage/ingo-petz/2020/11/18/radici-rivoluzione-bielorussa
Le immagini dopo il logo della rubrica della Volksbühne: Le prime due sono tratte dal sito dell’associazione Razam: 1. Fabifa, Mauerpark Berlin, 2020; 2. Autore Axana van der Ra, per una manifestazione di solidarietà a Colonia https://www.facebook.com/libertasBelarus/. La seconda, di Andrei Liankevich, si trova qui. Le altre immagini (di J.Shnipelson) sono tratte dall’articolo di Angelo Bonaguro, Quello di Minsk non è solo un carnevale, in: https://www.lanuovaeuropa.org/societa/2020/11/16/quello-di-minsk-non-e-solo-un-carnevale/ Al centro un'immagine del presidente bielorusso a Minsk questo agosto armato di mitra, diffusa dalla stampa internazionale