In margine alla Medea diretta da Federico Tiezzi (questa estate a Siracusa, nel contesto della LXXX Stagione delle Rappresentazioni classiche dell’Inda, ne abbiamo parlato qui), ho incontrato Roberto Latini per discutere di quella sua esperienza.
Roberto Latini è uomo di teatro a tutto tondo (attore, regista, drammaturgo, performer), che da anni attraversa i territori del mito con la sua riflessione estetica. L’idea era intervistarlo non solo sulla sua esperienza di attore nel lavoro di Tiezzi, ma più ampiamente sulla sua personale riflessione di artista e intellettuale che nel suo lavoro creativo ha spesso incontrato e attraversato il mito, e non solo quello greco. Nella Medea siracusana di Tiezzi, Latini ha incarnato il personaggio di Creonte che indossa a tratti una maschera di coccodrillo quasi a personificare la rivelazione degli animal spirits del capitalismo occidentale incapace, nella sua ferocia, di comprendere (tradurre, interpretare, accogliere, mediare) la dimensione di assolutezza e purezza del sentimento di Medea. Tuttavia, quando in giugno ci siamo incontrati per realizzare l’intervista nel sole di Piazza Duomo a Siracusa, è stato subito chiaro che c’era bisogno di tempo e di distanza. Tempo e distanza per realizzare un’intervista che potesse scendere nella profondità di questa esperienza e potesse andar oltre l’emozione singolare, immediata e potente, di trovarsi a recitare Euripide davanti un pubblico di diverse migliaia di persone. Chiunque conosca e segua il lavoro di questo artista, inoltre, sa quanto sia spiccata la sua attitudine alla consapevolezza e alla riflessione critica ed estetica rispetto ai testi (di amplissima scelta) che sceglie di rielaborare per la scena contemporanea.
Prima dell’esperienza siracusana ha incontrato diverse volte la drammaturgia classica. La sua teatrografia parla chiaro: nel 2003 “Buio re. Da Edipo a Edipo”, l’“Edipo a Colono” di Mario Martone per il Teatro Di Roma nel 2004, “Ecuba e Amleto” sempre nel 2004, la rilettura di Anouilh dell’Antigone sofoclea nel 2010. Perché un artista contemporaneo sente l’esigenza di rileggere la tragedia greca e di confrontarsi con riletture e riscritture di essa?
«Rileggere è un po’ rileggersi. Penso che ci sia ciclicamente bisogno nell’esercizio fondamentale della riscrittura, nella destinazione naturale della scrittura scenica, di riferirsi ai capitoli principali dei nostri paragrafi. Tutto il contemporaneo, anche quello che si dimette nelle negazioni, non può fare a meno dei princìpi fondanti della nostra letteratura. Non parlo dei titoli, non dei personaggi, non delle trame. Intendo qualcosa di più profondo, di meno evidente, di più vicino, di corrente: il riflesso che la letteratura classica, antica, precedente, riesce a proiettare nell’oggi e nella ricerca. Il riflesso che illumina riflessioni, che sperimenta riflettenze, che frequenta sensazioni già sfiorate e che le destina, vibranti, verso la scena in corso. Come “Teatro”, “Drammaturgia” è parola al plurale, declinata nel suo rivelarsi».
E poi c’è il mito: oltre alle "Metamorfosi" tratte da Ovidio nel 2015 e al recente “Venere e Adone”, appare chiaro un interesse per la dimensione mitica di figure che appartengono alla tradizione teatrale moderna (da Amleto a Jago, da Lucignolo e Mangiafuoco ad Arlecchino e, non ultimi, i Giganti della montagna pirandelliani). Che cosa è un mito per lei? Quale valore possono avere oggi i miti antichi nel tessuto della cultura contemporanea?
«Il mito è quello che sappiamo prima di sapere quello che sappiamo. C’è da prima di noi e ci sarà oltre noi, c’è malgrado noi, a prescindere da noi, dalle nostre interpretazioni e manomissioni. Averne a che fare vuol dire sperare di essere ammessi all’occasione e perché questo accada credo ci sia bisogno di portarsi lì vicino, sul confine dell’interpretazione e poi caderci dentro, smettendo resistenze. L’affanno di certe volte è nella conquista-a-perdere. Non si tratta mai di mettere in scena il mito, ma attraverso il mito provare ad andare altrove, forse a dove siamo, o verso dove non potremmo muovere altrimenti, facendo il giro delle nostre aspirazioni».
Prima e al di là della riflessione di Tiezzi, ha riflettuto autonomamente alla dimensione umana di Creonte? Che uomo è quello che hai incarnato?
«Sono stato Creonte già un’altra volta, anni fa, in un Antigone per la regia di Maurizio Panici. Non si è mai trattato di interpretare quel personaggio. Personalmente, non lo vivo così e non ho riferimenti al ruolo se non quello che consiste precisamente nel portare quello che dice. Per me, il “personaggio” è le sue parole e le sue parole sono i silenzi possibili. la qualità del suo dire sarà misurata alla qualità che hanno le parole di tacersi. Di essere segno, senso, suono. Non aggiungo pensieri interni. Non ho bisogno di sapere di più. Quello che immagino è dentro la parte, non devo cercare altrove. Per Medea avevo pensato che Creonte potesse fermarsi a lungo prima di decidere di accordare a Medea quel fatale giorno in più prima dell’esilio».
E Medea? Secondo la sua riflessione di artista, perché uccide i figli? Che senso ha quella vendetta?
«Sono così tante le interpretazioni possibili; c’è una letteratura intera a riguardo. Se dovessi scegliere io, pescherei argomentazioni rispetto al fatto che togliere a Giasone la sua discendenza è quanto di peggio potesse fargli. Peggio che uccidere lui. Lo lascia vivo, ma fuori natura, dove finisce anche lei».
Medea è una tragedia meravigliosa e presenta un meccanismo drammaturgico di tremenda esattezza. Non può essere banalizzata e ci vogliono artisti di valore per riscriverla. Ma per metterla in scena con il testo euripideo non si può evitare di dare ad essa una voce che sia consapevolmente contemporanea. Che cosa ne pensa?
«Io sono stato ospite di questa produzione e ho cercato di rispondere al meglio e completamente alle richieste del regista. Federico Tiezzi ha risposto a sua volta a un invito che non era soltanto di mettere in scena Medea, ma di farlo a Siracusa. Ogni debutto coincide con una separazione, anche da sé. Il Teatro greco di Siracusa restituisce tutto».
Crediti fotografici: @Cecchetti @Aliffi Per il ritratto di Latini in copertina vedi qui.