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MENIPPO Dove sono i belli o le belle, Ermes? Accompagnami, visto che sono un nuovo arrivato.
ERMES Non ho tempo, Menippo; però basta che dia un’occhiata là, a destra, dove ci sono Giacinto, Narciso, Nireo, Achille, Tiro, Elena, Leda e insomma tutte le antiche bellezze.


MENIPPO Vedo solo ossa e crani privi delle carni, per lo più identici.
ERMES Eppure le ossa, che tu sembri disprezzare, sono quelle che tutti i poeti ammirano.
MENIPPO A parte ciò, mostrami Elena: da me non saprei riconoscerla.
ERMES Questo cranio è Elena.
MENIPPO E per questo furono allestite le mille navi da tutta l’Ellade, caddero tanti Elleni e barbari e tante città furono rase al suolo?
ERMES Ma tu, Menippo, non hai visto viva quella donna: avresti detto anche tu che non era biasimevole «per una simile donna per molto tempo soffrire»[1]; perché anche i fiori che sono secchi se uno li guarda quando hanno perduto il colore, è chiaro che gli sembreranno brutti, eppure quando fioriscono e hanno il colore, sono bellissimi.
MENIPPO Appunto di questo, Ermes, mi meraviglio, che gli Achei non capissero che stavano soffrendo per una cosa tanto effimera e facile a sfiorire. […]

Nulla resta di Elena se non un indistinguibile cranio. Il fiorire della bellezza dolceamara di lei «che terribilmente somiglia alle dee immortali» (Iliade III, 158) vive confinato nel tempo e nello spazio della memoria, della fama, della poesia. Nella surreale passeggiata tra i morti immaginata da Luciano di Samosata, Ermes e Menippo dialogano di Elena; camminano accanto a quel che resta del suo corpo; guardano un volto senza colore e, in questo, vedono la morte, la stessa che la perturbante bellezza di Elena aveva causato a Greci e Troiani, a corpi nel pieno fiorire della gioventù, recisi da una guerra lunga e insensata.

Seconda Guerra Mondiale, tre anni dopo la fine del conflitto. I «Greci» hanno «sempre parlato della disperazione solo attraverso la bellezza», scriveva Albert Camus nel saggio L’Exil d’Hélène (1948). Queste parole valgono anche per un Greco contemporaneo di Camus, Ghiannis Ritsos (1909-1990), tra i massimi poeti del Novecento, bersaglio degli orrori dei regimi reazionari e dittatoriali che si sono succeduti in Grecia nel XX secolo, detenuto in campi di concentramento e costretto a subire roghi e censure dei suoi libri.

Ghiannis Ritsos

Nel 1970, nel pieno del regime dei colonnelli che, appena insediato, tolse al popolo greco la libertà di parola e personale garantita dalla Costituzione, Ritsos fu costretto a domicilio coatto a Karlòvasi (nell’isola di Samo). Privato della libertà, scrisse il monologo drammatico ῾Ελένη (Quarta Dimensione): protagonista una Elena straniante rispetto al ‘canone-Elena’, in «esilio dentro […] abiti che invecchiano, dentro la […] pelle che avvizzisce», un’Elena che guarda con disincanto alla «vanità» e alla «precarietà di ogni vittoria», che ride pensando a «com’era tutto senza senso, / senza scopo, durata né sostanza – ricchezze, guerre, glorie», a com’era insensata «la [sua] stessa bellezza».

Ritsos, spogliato della libertà e in isolamento, immagina un’Elena che cammina sola, sulle alte mura della città di Troia in guerra, «libera / dal timore della morte e del tempo, con un fiore bianco tra i capelli, / con un fiore tra i seni, e un altro tra le labbra per nascondere / il sorriso della libertà». Un terzo fiore, che Elena fa cadere ultimo dopo gli altri, liberando il sorriso della libertà.

Ghiannis Ritsos, Quarta dimensione, Crocetti editore

 

Rappresentato soprattutto in Grecia (APGRD; https://www.festivalandros.gr/en/event/helen-giannis-ritsos/), Elena è stato interpretato in Italia, negli ultimi anni, da Mariangela D’Abbraccio, Elisabetta Pozzi, Elisabetta Vergani – fra le altre – e ora, al Teatro OUT OFF di Milano, da Elena Arvigo.

Per l’attrice e regista, insignita lo scorso anno del Premio Le Maschere Del Teatro Italiano - Miglior interprete di monologo (I Monologhi dell’Atomica), il monologo drammatico di Ritsos è allo stesso tempo nostos e nuovo viaggio: è un ritorno all’Elena tratteggiata dal poeta greco, già esplorata dalla Arvigo in precedenti spettacoli, ed è un ripartire, da questi e accompagnata dal lavoro su figure femminili della tragedia greca – Andromaca, Giocasta, Antigone –[2].

Tra i fili che uniscono queste interpretazioni di donne del mito, uno è il filo nero della guerra, che Arvigo ha teso anche al di là dell’orizzonte greco, antico e contemporaneo, per dire coraggiosamente di altre donne: Le imperdonabili – è questo il titolo del progetto –, «imperdonabili perché testimoni scomode della realtà che le circonda. Donne che scelgono di non tacere e resistere», come quelle dei Diari della guerra, da  Il Dolore e Quaderni della guerra di Marguerite Duras (https://www.klpteatro.it/il-dolore-elena-arvigo-recensione;  https://www.teatroecritica.net/2019/03/dolore-marguerite-duras-elena-arvigo-nella-stanza-della-memoria/).

Elena inizia con una preghiera di pace: l’invocazione rivolta alla Luna da Norma perché porti pace ai Galli e ai Romani in guerra. La musica della celeberrima Casta diva, nell’interpretazione di  Maria Callas, avvolge gli oggetti-memorie disseminati in scena e le tende, rese sottili dagli anni, di una stanza fané: la stanza di Elena. Seduta, Elena appare segnata dal tempo proprio come le cose che la circondano; lo sguardo lontano, da Troia e dall’odore del sangue della guerra. Da quella lontananza riaffiorano Paride e Menelao, Ulisse e altri fantasmi. Negli occhi grandi e cupi ricordo e oblio si confondono, le parole sono relitti senza memorie, i suoni sono forse i soli a dire ancora qualcosa, e così i profumi. Attraverso gli occhi si vedono le piccole cose viste da Elena, una farfalla, una mosca, «un pezzo di carta» che «rotola per strada», cose che «hanno una bellezza desolata, inspiegabile». Di tutto questo e del fissare «ogni cosa con una chiarezza indicibile, imperturbabile» sanno raccontare gli occhi di Elena Arvigo.

E con loro raccontano le parole, affidate a una voce che riesce a restituire i colori del tempo che passa, che consuma e sfinisce, che trema di nostalgie. Tra questi colori dominanti affiorano a tratti i toni della seduzione, che Elena conserva a dispetto delle rughe e di un «mento che trema» di vecchiaia, poi i toni del distacco ironico, dato dalla consapevolezza della vanità di molto di quello per cui l’uomo è lupo al suo simile, infine i toni di una leggera vena di follia.   

Arvigo è straordinaria nel farsi carico della solitudine di Elena. Una solitudine difficile e troppo rumorosa. In essa abitano i morti («In questa casa il vento si è fatto impetuoso e inspiegabile, forse / per la presenza così naturale dei morti»), «vestiti a festa», «sdraiati dove capita», dimentichi del «rubinetto che gocciola»; si aggirano ancelle – ruolo ottimamente interpretato da Monica Santoro, inoltre pregevole presenza musicale nello spettacolo –, che dovrebbero occuparsi di Elena ma in realtà si preoccupano solo di piombare come avvoltoi su beni e abiti e di deridere con livore quello che Elena è diventata, umiliando la sua bellezza sfiorita.

In quella solitudine c’è un ospite di un solo giorno. Si tratta di una presenza indefinita che è già nella stanza quando Elena dice le prime parole, rivolgendosi proprio a lui: «Sì, sì, – sono io. Siediti un po’. Non viene più nessuno». A questa presenza Elena chiede di restare, ancora un po’, per raccogliere i frammenti delle sue memorie e i suoi ultimi pensieri, e poi, alla fine del giorno, di andare  («Ora puoi andare. Si è fatta notte. Ho sonno»). Forse è un soldato («E tu, come stai? Sei sempre nell’esercito? […] Ce l’hai ancora / quello scudo su cui avevi inciso il mio volto?»), forse un’ombra, forse è semplicemente chi è in teatro, seduto di fronte a Elena.

Arvigo trova il giusto modo per muoversi in questa ambiguità, tra un ‘tu’ ombra, un ‘tu’ che potrebbe essere invece una presenza reale, un ‘tu’ spettatore. Mostra che il monologo a teatro può essere una finzione nella finzione perché il personaggio solo in scena ha un tu a un passo dalla scena con cui dialoga incessantemente. Con questa idea Arvigo innesca un perfetto gioco teatrale, specie quando sceglie momenti particolarmente pregnanti del monologo di Elena per spingersi fisicamente vicina al tu-spettatore: gioca il suo ruolo mettendosi sul limite della scena o superandolo, quasi sfiorando gli spettatori della prima fila. In quegli attimi, complice anche lo spazio intimo e raccolto della sala dell’OUTOFF, sembra di essere nella stanza di Elena, insieme a Elena, a tu per tu con lei.

Cosa resta del corpo di Elena nella poesia di Ritsos? Elena è un corpo stanco. Così Elena Arvigo si sostiene a un bastone, per resistere, e a volte corpo e bastone sembrano fondersi alla ricerca della forza della giovinezza. Il bastone è usato anche come mezzo per dare ritmo al tempo dei ricordi e per scandire la musica del tempo della fine che si avverte vicina.

Nella misura di movimenti e gesti richiesta a un corpo che trascina il peso di una vita dove tutto è accaduto, quello stesso corpo sorprende: per alcuni attimi si riveste di una sublime leggerezza, quella che sulle alte mura di Troia aveva portato l’oggetto del desiderio di Greci e Troiani a muovere «le mani», a sollevarsi «sulle punte dei piedi» e ascendere «al cielo», lasciando «cadere di bocca anche il terzo fiore». Senza più vedere cosa accadeva a Troia. Senza guerre. Libera.

 

ELENA
di Ghiannis Ritsos
Traduzione di Nicola Crocetti


Regia Elena Arvigo
Con Elena Arvigo
Con la partecipazione di Monica Santoro


Scene e costumi Elena Arvigo
Luci e tecnica Luigi Chiaromonte
Assistente alla regia Monica Santoro
Consulenza al testo Francesco Biagetti
Collaborazione scene e costumi Maria Alessandra Giuri
Consulenza musicale Ariel Bertoldo


Una produzione Teatro Out Off in collaborazione con Compagnia Elena Arvigo
(Associazione SantaRita & Jack Teatro)

 

 

La citazione iniziale è la traduzione di Luciano, Dialoghi dei morti XVIII, 5.

La traduzione di Elena di Ghiannis Ritsos, qui citata, è di Nicola Crocetti.

Le foto dello spettacolo sono di Alessandro Villa.

 

[1] Omero, Iliade III, 157.

[2] Soliloqui poetici del Mito “Le altre eroine”, da Quarta Dimensione di Ritsos (2020); Elena di Sparta o della Guerra  (2015); Andromaca in Le Troiane di Euripide (2019);  Giocasta in Edipo re di Sofocle (2016-17); Antigone in Edipo a Colono di Sofocle (2016-17).