I personaggi del mito hanno il destino racchiuso nel nome.
Anche per chi non ne conosce la ‘vita’ immaginaria e la leggenda basta il nome ad evocarne la natura, l’essenza, la caratteristica. Antigone, per esempio: nome che sta per rivolta, opposizione, per il saper dire ‘no’ all’ingiustizia; nome emblematico della carcerazione come tortura, oppure dell’indissolubilità del legame familiare e del diritto naturale alle consuetudini del lutto e del compianto.
E Ismene, Ismene sorella di Antigone?
Ismene pare un’eccezione: il suo nome non fa da esempio, non sta per una virtù o per un difetto; Ismene non è un carattere simbolico. Il nome, legato forse a quello di un fiume, contiene la radice del verbo greco che vuol dire ‘vedere’ e ‘conoscere’. ‘Colei che ha visto’ tutte le disgrazie della sua famiglia, fino in fondo? ‘Colei che sa’ o che ha saputo come comportarsi?
Ismene è, almeno a partire dalla tragedia di Sofocle, sempre e solo la sorella di Antigone, che resta invece la protagonista indiscussa del mito; e poi certo anche dei suoi due fratelli maschi che si sono uccisi per una questione di potere, ma che, nella tragedia di Sofocle, Ismene non sembra aver particolarmente amato. Ismene è la donna che non sa e non vuole opporsi al sistema dei maschi, perché ne uscirebbe stritolata.
Ed inoltre è un personaggio non privo di contraddizioni: ancora nell’Antigone rifiuta di aiutare la sorella nel suo folle gesto, ma poi – in maniera ancora più folle – si dichiara anche lei colpevole e vorrebbe essere condannata a morte con Antigone.
Non sappiamo cosa ne sia stato di lei, dopo il suicidio di Antigone e la conseguente catastrofe. Come ha potuto sopravvivere? Cosa è accaduto alla sorella incapace di trasgredire la legge, che solo in un secondo momento ha voluto condividere il destino di Antigone, e le è stato negato, non solo dal re Creonte, che l’ha lasciata libera, ma anche dalla stessa Antigone, che le ha imposto di sopravvivere?
Ismene è figura del negare e dell’essere negati, del rifiutare e dell’essere rifiutati. Però Ismene non rinnega, né se stessa, né le azioni altrui, le cui ragioni non ha condiviso.
La sua condanna, nella vicenda messa in scena da Sofocle, appare ancora più terribile e ingiusta di quella destinata alla ribelle Antigone: perché consiste proprio nella sopravvivenza, nella condanna, cioè, ad una non-vita fatta di ombre e di ricordi, in un palazzo oscuro di rimpianti; condannata a vivere insieme all’artefice della distruzione della sua famiglia, lo zio Creonte, che stranamente non si esilia dalla città, ma destina a sé stesso la fine che aveva previsto per Antigone, la chiusura di ogni orizzonte sociale. Ma cosa poi accada, in quel palazzo, possiamo solamente immaginarlo.
Ismene è figura di quel che non sappiamo e del silenzio che segue a ogni tragedia.
Nel palazzo, castrata nel suo desiderio di morte, prigioniera del passato ma ancor più del presente, la troviamo nell’intenso monologo di Ghiannis Ritsos, scritto tra il 1966 e il 1971, espressione della claustrofobia e della paura del regime dei colonnelli. Il monologo di Ritsos è certamente tra le espressioni più intense della fortuna del personaggio di Ismene, che nei secoli ha avuto una ricezione assai sbiadita rispetto a quella di Antigone[1].
Ismene infatti rimane, nell’immensa tradizione che accompagna il ripensamento del mito di Antigone, evanescente o quasi.
La drammaturga olandese Lot Vekemans riesce a farla rivivere in un intenso monologo dal titolo Ismene, sorella di… (2005), purtroppo ancora non tradotto né rappresentato in Italia.
Il monologo si può ora vedere in prima mondiale in un film, realizzato da un mostro sacro della fotografia tedesca, Jim Rakete, trasmesso sul canale you tube dell’emittente berlinese Radioeins, nell’interpretazione perfetta di Susanne Wolff, volto molto noto del teatro e della televisione tedesca, che ha già interpretato il testo, nella traduzione tedesca di Eva Pieper, nel 2014 al Deutsches Theater di Berlino (da quella messa in scena traiamo le foto di Arno Declair).
Abbiamo scritto ‘film’, ma si tratta di un prodotto volutamente ibrido: tecnicamente è infatti un film, ma poiché l’unico personaggio parla guardando in una video-camera, fissando direttamente negli occhi lo spettatore ed emotivamente infrangendo la quarta parete, l’effetto di esperienza teatrale può dirsi più che riuscito. Tanto più che il volto di Susanne Wolff, il volto di Ismene, che ci parla in video, è analogo ai mille volti di amici, colleghi, parenti che questo infinito lockdown ci sono vicini solo attraverso lo schermo di un computer.
Prima della pandemia, questo esperimento avrebbe avuto un’altra risonanza emotiva; ma adesso, la Ismene che ci sta davanti ci parla per davvero. Lo schermo ha perso il suo significato etimologico, non protegge più chi guarda da chi è guardato, né separa. La pandemia ha portato anche un cambiamento nell’estetica teatrale di cui dovremo tenere conto.
Il film ambienta il monologo nel 2020. Ismene è in prigione, vestita d’arancione, identificata da un numero stampato sulla tuta, condannata, sembra, all’ergastolo. Racconta davanti a una videocamera la sua storia, che tutti conoscono e che non è diversa da quella che la tragedia di Sofocle ha consegnato alle epoche successive: Polinice ed Eteocle, i due fratelli, tutti e due eredi del trono maledetto di Edipo, si uccidono in guerra. Antigone non si piega alla legge nuova di Creonte, seppellisce una prima volta Polinice che il Re vuole invece abbandonare insepolto; il cadavere è però di nuovo lasciato nudo ed esposto, Antigone allora tenta di nuovo di dargli sepoltura e viene catturata e portata in una grotta fuori città, senza cibo. Si uccide e provoca la morte di Emone, che la ama e di sua madre, la moglie del Re, Euridice. Creonte diviene vittima della sua stessa legge.
Finalmente è Ismene, che non è mai stata tirata in causa per tanti secoli, a poter raccontare la storia dal suo punto di vista.
L’ambiguità sta nel fatto che non si capisce se sia costretta a parlare, o se si tratti di una sua richiesta, di una sua esigenza. Di sicuro, questa Ismene prigioniera parla da vicino a tutti noi costretti a un lockdown forzato senza che i motivi ci siano veramente chiari. E la sua confessione, il suo monologo interiore, comunque assomiglia ai pensieri a ritroso, alle memorie non sollecitate, che questo periodo di isolamento ha provocato in molti di noi; anche i sentimenti di rabbia e una certa aggressività, l’impotenza di fronte al passato ma ancor più di fronte al futuro, rispondono a un’atmosfera contemporanea – in un modo che l’autrice, quando ha scritto il monologo, certamente influenzato dal poemetto di Ritsos, non poteva prevedere o immaginare.
Perciò paradossalmente è stata necessaria la pandemia per rendere Ismene un simbolo a noi più vicino dell’ostinata e caparbia Antigone. Simbolo di chi si trova sotto stretta sorveglianza per colpe che non sembra abbia commesso.
Ismene, sorella di Antigone, Polinice ed Eteocle, è la minore di una famiglia segnata da ogni orrore, la famiglia, come si sa, in cui padre e madre sono anche figlio e madre. Eppure pur sempre una famiglia, almeno sino alla sua distruzione, tenuta insieme dai fragili legami dell’affetto e della vita insieme. Ismene è la più debole e indifesa dei figli, schiacciata innanzitutto dalla personalità prorompente della sorella.
Mia sorella e io… era
non so
per lei ero un essere inferiore
un essere insignificante
perché non ero la migliore
o perché non volevo esserlo
non ero la più veloce
non arrivavo per prima
lei si,
lei voleva
voleva sempre
sempre, dappertutto
arrivare per prima
sia che si salisse in cima
sia che si ridiscendesse a valle.
Qualche volta mi permetteva di andare con lei
(ma era meglio di no
preferiva andare con mio padre
o con uno dei miei fratelli)
però qualche volta, sì, mi permetteva di accompagnarla
e qualche volta potevo persino
precederla,
eh sì
allora mi stava tutto il tempo alle calcagna
'Stai bene? Ce la fai?' - Mi chiedeva ogni due metri
'Ce la fai ancora?'
Ogni sentiero che facevamo insieme, poi lo ripercorreva di nuovo
da sola
per dimostrare che poteva correre più forte
più veloce di me
più veloce senza me
‘che figa, tua sorella’
sì, mia sorella, sì
mia sorella è la migliore
mia sorella è un’eroina, sì
lo so
lo so bene
La verità di Ismene non è né eroica, né esemplare: racconta di una famiglia incestuosa e del trauma correlato ma sepolto sotto un’apparenza di normalità e di perbenismo; racconta di un’Antigone algida, insensibile (in questo diretta erede del racconto dell’Ismene di Ritsos) e del legame viscerale proprio con Polinice:
Allora
tutto divenne assurdo,
papà se ne era andato via,
mamma era morta,
la gente taceva, quando mi vedeva passare
e poi sparlava di me, in mia assenza…
però sono sopravvissuta, anche allora, grazie a mio fratello
Polinice
non Eteocle
Polinice.
Mi fece da fratello e da padre
forse anche da madre
ebbe cura di me
mi metteva a letto
mi raccontava le favole sull’origine del mondo e la nascita degli dei
del ciclope con un occhio solo
dei dodici Titani
di come Zeus sfuggì alla vendetta di suo padre
e così divenne il padre degli dei.
Polinice parlava spesso degli dei
e dei loro capricci
dei loro brutti scherzi
sembra che
gli dei si annoino
si annoino a morte
e per la noia
abbiano cominciato a scommettere al gioco
solo per passare il tempo.
Ma
quando si scommette, c’è chi vince e c’è chi perde,
lo sa pure un bambino,
e lui, Polinice, diceva che gli dei cominciarono a decidere
giocando a dadi, chi dovesse diventare re e chi invece un mendicante
chi un eroe e chi un vigliacco
e con queste storie mi addormentavo
…
Può un uomo opporsi al proprio destino?
Può andare contro il volere degli dei?
Può farlo, se la vita è decisa solo da un tiro di dadi?
Cosa mai posso fare io contro questo?
La correzione del mito sta in questo viscerale amore per Polinice, che invece nella tragedia di Sofocle è attribuito alla sola Antigone.
La ‘colpa’ di Ismene è essere quello che è, accettare il proprio destino, deciso in un altrove che non si può controllare; la colpa di Ismene è essere nata nella famiglia in cui è nata, ed aver comunque cercato di vivere una vita normale; la colpa di Ismene è non aver saputo trarre le conseguenze del trauma, aver desiderato piccole cose, aver rinnegato gli eroismi.
Ero l’unica persona normale in una famiglia disturbata
proprio l’unica
ma voi lo sapete già, vero?
…
Sapete,
volevo solo essere felice
con un papà e una mamma
un paio di fratelli e una sorella
volevo cose del tutto normali
come un uomo che mi ama
ma anche un uomo che non mi ama
volevo comunque un uomo, un marito
una casa
una famiglia, qualcosa del genere
normalità
lunedì: giorno del bucato
mercoledì: giorno delle pulizie
venerdì: si mangia pesce
cose del genere
solo cose del genere
Non aver desiderato nient’altro è la colpa di questa donna sulla quale pesa il macigno dell’accusa di essere una ‘vigliacca’, a partire dall’eroica sorella:
Vigliacca
Antigone mi considerò una vigliacca
che parola di merda
‘vigliacca’
…
Se si tradisce un amico
o se non si confessa la propria colpa
per paura della punizione
sì, questa si può dire ‘vigliaccheria‘
o se si parla alle spalle di persone che sono potenti
e si ridicolizza invece coloro che sono deboli,
questa sì, è ‘vigliaccheria’
…
Ma non si può pretendere che qualcuno pronunci la propria condanna a morte…
La vigliaccheria di Ismene è consistita nel pronunciarsi a favore della vita: circondata da morte, è stata capace di difendere la propria sopravvivenza. Non ha deciso di farlo, ma il puro istinto le ha suggerito di trincerarsi nel suo rifiuto di infrangere l’assurda e nuova legge di Creonte. Perciò non ha aiutato Antigone nella sepoltura:
Si può dire che avevo paura, sì
paura
di morire, sì...
Ma mi si può rimproverare questo?
Cioè di non voler morire?
Qualsiasi essere umano normale vuole vivere,
è proprio così.
Chi di voi dice alla morte:
‘prego, entra pure, che bello che tu sia arrivata’
oppure: ‘ vieni e portami via’,
forse se si è molto malati
se si hanno dolori
oppure se si è vecchi, sì, forse…
Ma io ero giovane,
la mia vita era ancora all’inizio…
Così Ismene diventa il simbolo di chi si lascia andare, di chi segue la corrente, di chi non si oppone perché non sa a cosa opporsi, di chi continua a mantenere fede nei propri sentimenti e nella loro purezza, ma non sa difenderli né imporli.
Non ho visto la battaglia
non ho voluto vedere, come i miei fratelli andavano l’uno contro l’altro con lance e coltelli,
l’uno sperando di uccidere l’altro.
Ci hanno chiamato quando tutto era finito
mia sorella ed io
silenzio di piombo nella città
come se tutti trattenessero il respiro.
Due sorelle che si recavano dai loro due fratelli morti.
…
La vita va sempre avanti
che si voglia o no
se non ci si ammazza
se non ci si impicca al velo,
come mia sorella,
se non ci si conficca una spada in corpo
come il suo fidanzato, Emone.
Sventura su sventura
senza fine, perché si è maledetti
….
Non è che io voglia compassione
o comprensione
cerco solo di raccontare il mio punto di vista della storia
di tutta la storia.
Dopo cento anni o dopo mille anni
resta una frase sui libri:
Ismene, due punti
figlia di…
sorella di…
Questo è tutto quel che resta di me
un nome senza contenuto,
così sono sopravvissuta
un caparbio fiorellino in un muro scrostato…
La sorella piccola, colei che non ha fatto nulla
…
Nessuno mi ha mai chiesto cosa pensassi.
Innanzitutto non ero abbastanza grande
e poi non ero abbastanza coraggiosa
….
Ma proprio così Ismene, questa Ismene, riesce a diventare un simbolo più universale della stessa Antigone. Il simbolo di tutti coloro, e sono la maggioranza, per i quali il solo vivere è un atto di eroismo; coloro che devono affrontare le avversità della sorte, la malattia, la morte, con il coraggio concreto di chi non rinuncia, di chi trova nella vita stessa la ragione per superare una solitudine non voluta, un abbandono costante, e che attraverso la pura vita elabora i propri lutti.
La mia morte è una infinita ripetizione
non ho mai guardato in avanti
non ho mai avuto progetti per il futuro
né nella morte né nella vita.
Innanzitutto ero troppo giovane
una bambina
oggi era oggi e tutto il resto non contava
non pensavo al domani
o a ieri.
E all’improvviso tutto questo finì
all’improvviso c’erano solo… ricordi
del giorno prima
di una settimana prima
di un anno prima.
Papà andò via
la mamma morì.
Poi i miei due fratelli
e alla fine anche lei
mia sorella
….
Quel giorno finì davvero tutto quanto
IO LA ODIO!!
Ismene odia la sorella perché non le ha dato quell’amore e quella protezione di cui aveva bisogno; perché le aveva preferito un fratello morto e l’aveva consapevolmente abbandonata; perché ancora una volta aveva voluto essere la prima, precederla, scegliere per lei; perché l’aveva schiacciata con le sue certezze:
Non so che voglio,
non ho mai saputo cosa voglio
le cose accadono
non ho mai avuto la sensazione, che io…
potessi influenzare qualcosa.
Lei, Antigone, pensava che bisognasse decidere
ma per cosa bisogna decidersi?
Per ciò che è meglio
e come lo so, cosa è meglio?
Ho sempre avuto la sensazione
che il ‘meglio‘ non esista.
Tutto è buono
e contemporaneamente cattivo
‘ci sono cose che bisogna fare per forza’
Non è forse così?
L’eterna ripetizione di Ismene, equilibrista della vita, consiste nel sapersi tenere in bilico tra la disperazione e l’inerzia; nel misurare le proprie rivendicazioni, nel saper apprezzare quel che si è, una medietà ancora più difficile che non la rinuncia eroica alla vita.
E perciò questa Ismene riesce persino a condividere, dopo che tutto è finito, la casa e la vita con il vecchio zio Creonte, per il quale prova una sincera e umanissima pietà. La sua missione diventa consolare gli inconsolabili, sé stessa inclusa. La sua arte consiste nel godere delle piccole cose, del saper fabbricare dei pupazzetti, ad esempio, e nel non crearsi inutili angosce se non si realizzano grandi ideali. Non c’è rassegnazione nella psicologia infantile di questa Ismene poco consapevole del suo trauma, ma piuttosto una certa visionarietà, un continuare a vivere per i morti e con i morti, in questo così simile a tante figure della modernità letteraria che scontano, vivendo, la morte.
Il monologo perciò sembra intendersi come una riabilitazione postuma di Ismene, la vestale della morte altrui, la badante di Creonte sino che anche lui muore, dotata, in questa sua tenace sopravvivenza, di una forza inaspettata.
Ismene, dunque, il modello positivo, la vera alternativa all’irrazionale votarsi alla morte di Antigone, come in parte della critica (specialmente nel libro di Bonnie Honig, qui). Ismene come specchio per ognuno di noi, la quotidianità eroica. È così, ma anche no.
Il contesto del monologo contraddice questa tardiva riabilitazione. Ismene è pur sempre prigioniera, in isolamento, portata davanti alla telecamera con un cappuccio nero sulla testa, come una condannata a morte, come i terroristi di Guantanamo o i loro ostaggi. Forse la vittima di una qualche organizzazione terroristica, se si vuole credere alla sua innocenza, oppure una donna che si è macchiata di crimini di sangue, se la si crede colpevole. Ha le dita incerottate: forse perché si è strappata le unghie graffiando la parete, forse per impedirle di farsi del male, forse per impedirle di fare del male, forse perché è stata torturata, forse perché ha torturato.
Ismene non è in ogni caso innocente. E non perché non abbia voluto condividere il 'crimine sacro' della sorella; non perché non abbia voluto agire. Ma perché – nonostante la sua apparente razionalità, la capacità di spiegare il suo punto di vista – Ismene è stata sconfitta da sé stessa: è impazzita, sente avvicinarsi le Erinni, con la voce di cani latranti come nella tragedia eschilea.
Ricorda lucidamente quel che è accaduto, ma solo fino ad un certo punto. La sua padronanza di sé si svela apparente; ridotta ad un essere senza tempo, immobile in un dolore pietrificato, condannata a ripetere a sé stessa quel che tutti sanno, Ismene ha una mente che non tiene, esplosa il giorno stesso in cui Antigone è morta. Forse ha compiuto anche qualche gesto incontrollato. Forse la sua prigione è solo metaforica, forse è rinchiusa nella sua stessa pazzia, o forse no. Forse la condanna nei suoi confronti non è ingiustificata, come la commozione e l’empatia ci portano a credere.
‘Contro Ismene’ – come suona il titolo di un libro di Luigi Zoia di qualche anno fa – depone una passività colpevole, il non aver voluto o potuto arginare la violenza. Questo monologo immediato, diretto, che fa appello a tutte le emozioni dello spettatore, che ne chiede la compassione, alla fine non riabilita Ismene, ma la condanna definitivamente ad essere la sorella di chi invece ha dato la vita per una ragione.
E se la prigione è immaginaria, allora la colpa di Ismene è non saper infrangere quelle pareti di cristallo: non uscirne fuori, cominciare finalmente a decidere della propria esistenza, urlare al mondo i propri sentimenti, scegliere. Una volta sola pare averlo fatto, nei minuti dopo aver saputo della morte di Antigone. Era corsa fuori dal palazzo, corso forte, forte, e aveva visto un coniglietto morto, lo aveva sepolto. In quel piccolo gesto di pietà, all’aria aperta, aveva scelto, per l’unica volta nella sua vita.
Ed è questo che Ismene, parlandoci attraverso una videocamera, adesso, proprio adesso, vuole dirci: liberiamoci dalle nostre prigioni.
Se io potessi ripetere un attimo della mia vita
un attimo solo
non saprei, quale attimo dovrebbe essere
forse vorrei semplicemente ripetere l’attimo nel quale avrei potuto essere il più felice possibile
perché io possa di nuovo sentire, quel che si prova…
Le traduzioni (mie) sono da: Lot Vekemans, 'Ismene, Schwester von...', traduzione tedesca di Eva Pieper © 2013 Gustav Kiepenheuer Bühnenvertriebs-GmbH, https://www.kiepenheuer-medien.de/newsfolder/108/showNews
Si veda anche la recensione in https://www.rbb24.de/kultur/beitrag/2021/03/berlin-film-jim-rakete-schwester-von.html, con intervista al regista. Alcune immagini sono tratte con il cellulare dal film visibile su you tube.
[1] Cfr. Elena Porciani, Dalla parte di Ismene. Vicende di una sorella minore, in: L’eredità di Antigone. Sorelle e sorellanza
nelle letterature, nel teatro, nelle arti e nella politica, a cura di Monica Farnetti e Giuliana Ortu, Cesati, Firenze, 2019, pp. 255-270.