Dal 14 al 22 ottobre al teatro Puntozero di Milano è andata in scena l' Antigone di Sofocle, per la regia di Giuseppe Scutellà.
Lo spettacolo ha visto anche una versione speciale, in tre appuntamenti, dal 27 al 29 ottobre, con le musiche di scena originali del Maestro Alessandro Solbiati eseguite dal vivo da LaFil – Filarmonica di Milano, sotto la direzione del direttore Marco Seco. È a quest’ultima rappresentazione che abbiamo assistito, patrocinata anche dal Progetto co-finanziato dall’Unione Europea Erasmus+ Beyond: Inclusion of Young People beyond Barriers, che mira all’inclusione sociale di giovani all’interno del sistema giudiziario in situazioni di disagio attraverso le arti performative, in particolare il teatro e la musica[1].
La compagnia e associazione non-profit Puntozero, fondata nel 1995, rappresenta infatti uno degli esempi più importanti in Italia di teatro sociale[2], insieme con altre realtà, tra le quali spicca soprattutto la compagnia La Fortezza di Ermanno Punzo, che dal 1988 opera nella Casa di Reclusione di Volterra. Puntozero è composta da giovanissimi attori e giovani detenuti ed ex-detenuti dell’Istituto Penale Cesare Beccaria di Milano. Nata come esperienza di laboratorio teatrale all’interno del carcere minorile, l’associazione non solo rappresenta uno spazio ricreativo e di libera azione per i giovani rispetto alla struttura del carcere dove le libertà individuali sono per forza di cose limitate, ma offre anche loro concrete possibilità di riscatto e reinserimento sociale attraverso esperienze formative e professionali retribuite, sia in qualità di attori che di tecnici a vario titolo (tecnici del suono e delle luci, falegnameria, sartoria)[3]. Lo spettacolo ha luogo in una sala teatrale di 200 posti sita all’interno dello stesso Istituto Penale, che Puntozero, grazie al sostegno di varie fondazioni, dopo una ristrutturazione durata 15 anni ha potuto aprire al pubblico nel 2019. Da allora il teatro, pur essendo all’interno di un’istituzione di detenzione, è dotato in modo eccezionale di un ingresso indipendente da quello dell’Istituto Penale stesso, che dà sulla strada principale e che consente il libero ingresso non soltanto ai membri della compagnia ma anche al pubblico cittadino, senza dover transitare dal carcere.
Il regista, insieme con Lisa Mazzoni, co-fondatrice della compagnia e in scena nel ruolo primario di Creonte (ma anche in quelli di Euridice e del coro: la fusione osmotica tra personaggi e coro, come si vedrà, è un elemento di spicco del dramma) ha messo in scena il testo della tragedia sofoclea nella sua interezza, e ha optato per la traduzione chiara e scorrevole di Maria Grazia Ciani.
Lo spettacolo è preceduto e introdotto da una energica performance corale, non a caso denominata proprio “Khorós”, ideata dal regista specificatamente in relazione all’Antigone, che in questo caso era accompagnata dal ritmo battente e fragoroso dei timpani del percussionista de LaFil. Si tratta in sostanza di un training fisico e vocale del coro – ossia di tutti gli attori – che, sebbene nato come esercizio di riscaldamento, è diventato anche spettacolo a sé stante[4], la cui cifra è un tumultuoso, a tratti selvaggio ma completamente libero e disinibito, flusso di movimenti collettivi, accompagnati da urla, in cui gli attori si fondono quasi a costituire un unico corpo psico-fisico, che prelude anche al ruolo centrale che durante lo spettacolo avrà proprio il coro e la fisicità dirompente e fresca degli attori, tutti molto giovani. Questa danza iniziale, quasi ‘tribale’, focalizza inoltre l’attenzione degli spettatori su quello che è l’elemento principale della scenografia minimale ma potente dello spettacolo: una imponente, spessa e alta pedana di legno gialla – quasi un pugno nell’occhio – che si staglia al centro della scena occupando la gran parte del palcoscenico: simbolo di Tebe, della città, della comunità dei cittadini. Tutta la messa in scena ruota intorno a questa dominante pedana – che non a caso figura anche nella locandina dello spettacolo insieme a un attore immortalato in un balzo pirotecnico – sulla quale e dalla quale si slanciano gli attori, vestiti con costumi anch’essi essenziali nel monocromo beige color corda.
La pièce vera e propria inizia con un breve e intensissimo preludio musicale in cui violino e violoncello si avvicendano in una serie di rapidissimi urti stridenti, quasi delle sticomitie sonore[5]. La musica non solo dà il la alla prima scena del dramma, che vede l’appello iniziale di Antigone ad Ismene a una ‘comunione’ sororale di intenti e di azione nel dare sepoltura a Polinice, slittare subito in una netta distanza oppositiva tra le due sorelle; ma la dissonanza musicale simboleggia quello che George Steiner riconosceva nell’Antigone come il fondo agonistico e dialettico «necessario e insolubile» del conflitto all’interno dell’esperienza umana, declinato nelle contrapposizioni elementari tra uomo/donna, vecchi/giovani, individuo/società, vivi/morti, uomini/dèi[6]. Nello scambio tra le due sorelle si alternano accenti enfatici a toni più mesti e trattenuti, e Antigone si esprime per lunghi tratti con voce calma e quasi mesta, tonalità sottolineata anche da una serie di interludi musicali di natura sospensiva e inquieta. Interessante l’espediente (che ritorna a più riprese durante lo spettacolo), di ripetere più volte in forma di eco da parte della voce corale di sottofondo alcune battute chiave del prologo pronunciate dalle due attrici con una dizione molto chiara e ben comprensibile: in particolare i vv. 68 e 92 «agire oltre i propri limiti è follia», e «non si deve tentare l’impossibile». Il prologo si chiude con una scena di forte impatto, l’abbraccio insistito tra le due sorelle nel momento in cui Ismene dichiara ad Antigone, malgrado la sua radicale e sprezzante intransigenza, il proprio affetto: il materiale ricongiungersi dei corpi rende l’intensissimo ma complesso rapporto tra le due sorelle, giocato tra dissidio, complicità e amore. Un abbraccio accompagnato da un nuovo intermezzo musicale, questa volta il suono calmo e di sospesa ma luminosa interrogazione del vibrafono che apre al primo coro della tragedia.
È forse nei sei canti corali, la parodo e i successivi cinque stasimi, che la rappresentazione vede i momenti di maggiore efficacia artistica e creativa, sul doppio versante della messa in scena, dove ogni ode costituisce un vero e proprio micro-spettacolo a sé stante dal forte e originale impatto scenico, e delle musiche che svolgono la funzione di commento emotivo alle azioni dell’episodio che ha avuto luogo, ma anche di preludio a quanto sta per succedere – in questo cogliendo il carattere polisemico degli ardui ma bellissimi corali sofoclei dell’Antigone. Nel caso della parodo la declamazione stentorea riesce bene nel rendere la dimensione marziale del famoso assalto dei sette condottieri contro Tebe guidati da Polinice. La musica progressivamente lascia spazio ai colpi percussivi delle mani degli stessi coreuti sulla pedana di legno, che con accenti sempre più frequenti ritmano lo scontro mortale e fratricida fra Eteocle e Polinice e le danze notturne in onore di Dioniso (v. 154 «il dio che fa tremare Tebe»), che ha salvato la città, concedendo la vittoria. Un successo al quale il coro vorrebbe si accompagnasse l’«oblio» (v. 151) della guerra civile appena consumatasi, un augurio che resterà tragicamente vano.
Come si è accennato, gli stessi attori che interpretano i vari personaggi compongono anche il coro della tragedia. Vi sono certo ragioni di organico a motivare questa scelta, ma essa indica anche la profonda e inevitabile implicazione in ogni società tra singolo e pluralità, tra privato e pubblico, tra ‘io’ e ‘noi’, significando che la responsabilità individuale ha un peso fondamentale per l’intera collettività.
Il primo episodio vede infatti subito vacillare la speranza dell’ordine statale della polis che Creonte crede di poter garantire attraverso i principi da lui espressi nel celebre ‘discorso della corona’ o ‘del buon governo’. Il sovrano ha decretato attraverso un bando pubblico inderogabile per Eteocle, il fratello difensore della patria, i massimi onori funebri, mentre per Polinice, il traditore, il divieto della sepoltura e l’esposizione umiliante del suo corpo all’oltraggio delle fiere. Ma il progetto di stabilità politica, prima ancora di venire annunciato da Creonte stesso in scena, è già stato invalidato dal gesto di Antigone, che ha dato una sepoltura simbolica al fratello Polinice, violando il decreto dello zio.
Le argomentazioni di Creonte sono però declamate con pacata fermezza nella bella interpretazione di Lisa Mazzoni, e con un’inflessione che tradisce sincera premura e buone intenzioni da parte del nuovo sovrano di Tebe, che si trova davanti il problema di gestire una situazione politica di gravissima emergenza dopo l’attentato terroristico di Polinice e di dover tutelare il bene e la sicurezza comuni della collettività. Emerge qui un dato rilevante dell’interpretazione del regista rispetto ai personaggi del dramma, che sono tutti resi nella loro complessità umana, rinunciando a una semplicistica visione manichea buono/cattivo, bianco/nero, una lettura che ci sembra in questo senso rispecchiare anche le intenzioni di Sofocle. Un Creonte che non solo parla in modo ragionevole all’inizio, ma è interpretato da una attrice donna, una scelta provocatoria e interessante. Da un lato si enfatizza la problematica di matrice hegeliana della divisione dei ruoli di genere e del lavoro, per cui la donna è confinata nell’oikos, lo spazio privato della famiglia, dedita alla cura e ai riti funebri dei morti e alle leggi divine che ad essi sovrintendono, mentre l’uomo, esentato da tali compiti, può permettersi il lusso di occuparsi della sfera pubblica e della politica dove vengono emanate le leggi positive dello Stato; d’altro canto viene però anche segnalato come la volgare misoginia e l’ottusa unilateralità di pensiero che caratterizzeranno in seguito Creonte non sono certo solo appannaggio del sesso maschile, ma di qualunque soggetto accolga un tale tipo di disposizione mentale, uomo o donna che sia.
Due momenti, inoltre, acquistano significativa rilevanza scenica in questo episodio. Il primo è la duplicazione del personaggio della guardia che riferisce della prima sepoltura in un quartetto di quattro attori, che ben rende le perplessità delle sentinelle poste a guardia del corpo esposto di Polinice, ma anche la dimensione corale della collettività che è tema portante dell’intero spettacolo. Il secondo, ancor più originale, è la declamazione in tono da legge marziale del bando di Creonte per sette volte consecutive in più lingue: italiano, spagnolo inglese, arabo, albanese, greco antico, e tedesco. La proclamazione multilingue da un lato rappresenta l’unico momento estraneo al dettato sofocleo, attualizzando la scena alla realtà contemporanea della Comunità Europea; dall’altro enfatizza la dimensione pubblica e vincolante della norma legale, valida per tutti i cittadini e alla quale tutti sono tenuti all’obbedienza, dando così risalto a uno dei temi nevralgici del dramma, quello della legge e del diritto, un tema che nella recitazione di giovani attori detenuti ed ex-detenuti acquista una salienza e una drammaticità molto intense.
Il primo episodio, chiusosi sulla crescente durezza di Creonte e sulle sue minacce nei confronti della sentinella/guardie se non troverà/anno il responsabile del reato della sepoltura, è seguito da un ulteriore intermezzo musicale. Una melodia del tutto opposta, intonata da un violino solo, si innalza da una dolcezza iniziale progressivamente in un registro sempre più acuto trasportando il pubblico alle altezze di pensiero del corale più famoso e filosoficamente denso della tragedia greca antica, la celeberrima ‘ode all’uomo’. Il primo stasimo è recitato da una coreuta da sola in scena, per le prime tre strofe accompagnata ancora dal violino, che culmina in un assolo strumentale esilissimo e di registro acutissimo in corrispondenza del riferimento alla morte, unico ostacolo che l’ingegno umano ambiguamente celebrato nel corale non ha potuto superare. Anche in questo caso il verso «solo alla morte non può sfuggire» (vv. 361-2) è ripetuto dall’unisono corale delle voci degli altri attori fuori scena, così come avviene per altri sintagmi pregnanti dello stasimo: ‘terra infaticabile’, ‘pieno di ingegno’, ‘impegno civile’, ‘mali irrimediabili’. Dopo lo stacco di una breve pausa, la strofe finale, declamata ora dalla sola voce della giovane attrice senza l’accompagnamento del violino, mette in risalto i versi moralmente più gravidi del corale che qui nella resa molto efficace di Maria Grazia Ciani suonano: «padrone assoluto dei sottili segreti della tecnica, può fare il male quanto il bene» (vv. 365-7). Nel famosissimo incipit del canto, «Molte meraviglie vi sono al mondo, nessuna meraviglia è pari all’uomo», la scelta traduttiva di ‘meraviglia’ per il densissimo e intraducibile deinós dell’originale, non è forse per varie ragioni la più adatta a indicare il potenziale pericolosamente e spaventosamente distruttivo di quell’essere dotato di parola, di tecnica, di senso di giustizia che è l’uomo, ma ha il merito oltre che di una dicibilità molto chiara, di mettere in luce l’ironia sofoclea che permea il canto nell’indicare l’apparente positività e leggerezza di quanto può invece celare potenzialità e abissi mostruosi ed inquietanti: con questi due aggettivi, insieme a ‘violento’, ci richiamiamo alle note traduzioni date dell’originale vocabolo greco deinós rispettivamente dal poeta tedesco Friedrich Hölderlin (ungeheuer, gewaltig) e dal filosofo Martin Heidegger (unheimlich)[7].
Uno scroscio fulmineo di note interrompe lo stasimo riportando dalle eteree vette della meditazione all’hic et nunc della realtà. Ed è Antigone che viene letteralmente fatta srotolare dall’alto della pedana legata a una corda: simbolo che la ragazza è stata ora colta sul fatto e arrestata dalle guardie. Nel celebre confronto tra l’eroina e Creonte non prevalgono i toni aspri e urlati di una duplice e incomunicabile risolutezza che impedisce ogni possibilità di dialogo, come spesso capita nelle rappresentazioni della tragedia. Antigone si esprime per lunghi tratti con tono calmo e mesto, quasi parlasse da un altro mondo, da una consapevolezza arcaica e primigenia, che la lega all’ordine cosmico immutabile della physis, della natura. E quando Creonte vuole che anche Ismene sia condotta in scena per essere condannata insieme alla sorella, l’intonazione con cui la giovane attrice pronuncia le parole di Antigone sembra indicare un sincero tentativo di voler salvare Ismene. Si segnala nella scena seguente il momento in cui il diverbio tra le due sorelle è reso in modo estremamente vivido attraverso l’espediente della recita simultanea delle battute delle due attrici, tale da risultare praticamente incomprensibile, ma assai efficace nel rendere metaforicamente un momento di intensissimo pathos.
Nel successivo secondo stasimo i coreuti strisciano lentamente proni sulla pedana uno dopo l’altro, quasi a simboleggiare l’inesorabile e ciclico abbattersi delle sciagure mandate dagli dèi sulle generazioni umane cantato nel corale. Ricompare anche la musica, particolarmente inquieta, dove spicca la melodia cupa del violoncello, in sintonia con la meditazione sull’enigmatico potere di Zeus che non lascia scampo e sulla vaghezza delle speranze umane. Ben scandite e prominenti nella recitazione si stagliano le due massime gnomiche, espressione della saggezza tradizionale del coro: «nella vita umana non vi è eccesso senza sciagura», «il male può sembrare un bene se gli dèi ti accecano la mente» (vv. 613-4, 624-5).
Nel terzo episodio spicca il confronto tra Creonte e il figlio Emone, il personaggio che rappresenta il tentativo più efficace della saggezza pratica e della flessibilità contro il dogmatismo unilaterale dei due protagonisti. Nel confronto tra padre e figlio prevalgono ancora i toni calmi e pensosi rispetto alle modalità aspre e scattanti, e una insistenza, che ci appare voluta, nel rendere il più chiaro e comprensibile possibile il dettato sofocleo in alcuni passaggi dove più forti emergono le ragioni della phronesis: è particolarmente sentito l’appello di Emone nei versi «padre, il bene più grande è la ragione», «solo quello che dici tu, e nient’altro al mondo, è giusto», e «io sono giovane, ma se posso darti un consiglio» (vv. 684, 706, 719).
Segue lo stasimo centrale della tragedia, forse il più suggestivo ed enigmatico tra i corali dell’Antigone, quello di Eros. Le sonorità sorde e molto potenti dei timpani de LaFil aprono e chiudono il canto, durante il quale le musiche strumentali si arrestano, sostituite dal fragore assordante dei colpi dei bastoni con i quali i coreuti, con ritmo fisso e uguale, percuotono il palco. Una trovata scenica fortemente espressiva, che ben simboleggia il ‘polso cosmico’ delle leggi ancestrali del mondo a cui presiede Eros, il dio che nel corale regna incontrastato su tutti gli esseri viventi: animali, uomini e dèi. La violenza della passione, che nel dramma si rivelerà tragicamente mortale per tutti i personaggi, ma che nondimeno li anima nelle loro aspirazioni più nobili, è resa scenicamente dalla chiusa che trasforma il canto in una serie di duelli tra i coreuti divenuti ora lottatori armati di bastoni. Rimane alla fine sulla pedana, da sola e imbattuta, un’unica attrice che sembra simboleggiare l’imperio invincibile di Afrodite sull’intero cosmo.
Nell’episodio successivo viene dato spazio all’oscillazione del coro, che ha sì pietà per Antigone condannata ad essere sepolta viva in una grotta/prigione da Creonte, ma non si esime da una serie di critiche nei confronti dell’audacia estrema e dell’orgoglio ‘autonomo’ e ‘folle’ della giovane protagonista. Questi tratti sono resi attraverso l’uso di vocette acute e dispettose, che sembrano irridere come velleitari gli intenti della figlia di Edipo, oltre ad insinuare che il suo eroismo sia stato mosso soprattutto dal desiderio di acquistare una gloria personale. Una serie di risolini maligni sottolineati anche dalla musica (a tratti forse troppo forte nel coprire le parole degli attori) strisciante e acida in sottofondo delle superballs, particolare tipo di percussioni, denunciano la meschinità e la viltà dei più che hanno preferito sottomettersi al potere di Creonte.
Ma nel dialogo lirico con il coro Antigone risponde con voce ferma, sincera e rattristata, e nel finale del suo lamento urla la sua protesta «cittadini di Tebe guardate la sola discendente di Tebe cosa deve subire e da che gente per aver onorato la pietà» (vv. 940-4): il contrappunto tra i due registri vocali sembra qui esprimere la valenza politica del sacrificio eroico di Antigone, di una protesta volta a smuovere le coscienze, coscienze di concittadini troppo proni all’inerzia e colpevoli di ignavia. Un monito e un’accusa che Scutellà, seguendo Antigone, sembra voler rivolgere al pubblico. La tonalità acida del coro prosegue anche nel successivo quarto stasimo mitologico, durante il quale i coreuti emergono sdoppiati con testa e gambe in su da una serie di botole che si aprono nella pedana, quasi fossero esseri malefici-demonici. Non siamo sicuri di aver capito qui le intenzioni del regista ma forse la scena surreale rispecchia la Schadenfreude dell’avversa volontà divina la cui potenza «tremenda» (v. 952, deiná), simboleggiata dalle «Moire dalla lunga vita» (v. 987), è cantata nello stasimo. Nel canto, infatti, la tragica sorte di Antigone, sepolta viva, è paragonata ad altri episodi del mito di infelici prigionie imposte dagli dèi, come quelle di Danae e di Licurgo.
L’episodio successivo vede il confronto fra Creonte e Tiresia: molto efficace l’interpretazione dell’attore che interpreta il cieco veggente tebano, in un crescendo sempre più vibrante che da una mesta gravità iniziale, dove spicca uno dei versi chiave del dramma «tutti gli uomini possono sbagliare» (v. 1024), trasmuta nel fortissimo potente e minaccioso della profezia finale sulle morti che colpiranno Creonte nei suoi affetti più intimi. La predizione è seguita da un assolo improvviso della marimba, acutissimo e rapidissimo e dal ritmo circolare – uno dei momenti musicali più suggestivi e originali dello spettacolo – che sembra qui suggellare la dimensione sacrale e oracolare delle parole di Tiresia, e nel suo orientamento a spirale simboleggiare l’ineluttabile andare a segno della profezia, quasi quello di una freccia fulminea e infallibile.
Dopo l’ultimo intermezzo corale, il quinto stasimo – in cui l’invocazione a Dionisio purificatore, contrassegnata dal rimbombare dei timpani, rimarrà vana – nell’esodo la catastrofe è compiuta. Segue il racconto partecipato e ancora una volta molto ben chiaramente scandito, del messaggero delle tragiche morti suicide di tutti i famigliari di Creonte – di Antigone, del figlio Emone e della sposa Euridice. Ma è proprio Creonte annichilito dal dolore e dal rimorso a chiudere il dramma, che nell’interpretazione composta di Lisa Mazzoni, riconosce lucidamente ma troppi tardi la follia delle sue deliberazioni e la sua dolorosissima responsabilità, pregando di essere portato via e invocando anche su di sé la morte. Nelle scene finali ritorna il suono delle percussioni, in particolare quello della marimba, ma con un registro molto più basso, quasi ovattato, che sembra rievocare per confermala, la verità ineluttabile della profezia funerea di Tiresia.
Malgrado lo scenario di desolazione e di sconforto dal quale sorgono, le parole supreme della tragedia, sillabate lentamente dal coro, affidano agli spettatori il messaggio finale sull’assai faticosa conquista della saggezza: «chiave della felicità è la saggezza» (vv. 1346-7). Un finale che sembra in parte aprire a una possibilità, per quanto soffertissima e dolorosissima, di speranza, sia nelle intenzioni del regista, che in quelle del compositore, che affida questo auspicio conclusivo all’unico momento orchestrale in cui tutti gli strumenti guidati dal violoncello intonano insieme nel Postludio una melodia molto suggestiva, a tratti dolcemente elegiaca a tratti accorata e pietosa.
Scutellà porta in scena un’Antigone fresca, polifonica, corale e politica, che non si sottrae al confronto con il testo originale sofocleo nella sua totalità rispecchiandone le ricchissime e contradditorie significazioni, e che non fa distinguo tra protagonisti e personaggi minori, conferendo a questi ultimi particolare rilievo. Il connubio tra attori e orchestra, tra gesti corali e musiche infonde grande vitalità a tutti i momenti del dramma, e l’energia della performance dei giovani attori e musicisti (anch’essi piuttosto giovani) è salutata alla fine dai forti ed entusiastici applausi del pubblico per lunghi minuti. Fulcro significante e ispiratore sia della rappresentazione che delle musiche, resta però la ‘parola poetica’ di Sofocle.
La potenza espressiva che i giovani dispiegano sulla scena, la cui bravura fa davvero dubitare che possano non essere degli attori professionisti arrivati al teatro soltanto attraverso dei laboratori teatrali all’interno di un carcere, riflette anche la maturità delle loro esperienze di vita, di minori e giovani adulti che sono a contatto con la giustizia quotidianamente e hanno vissuto in prima persona cosa voglia dire che chi sbaglia paga.
Nello stesso tempo, l’intensità dei sentimenti che esprimono nel dare corpo, voce e gesti ai personaggi-coro della tragedia manifesta anche come l’incontro con il testo sofocleo li abbia profondamente segnati, in un processo di crescita personale. E come li abbia fatti meglio riflettere sul problema nevralgico della legge e della pena, in perpetuo e difficilissimo equilibrio tra l’esigenza, da un lato, da parte del nomos (la legge) di vigere, essere rispettato e ove violato reclamare il proprio diritto alla sanzione, e tuttavia, dall’altro, della necessità che ad animare e ad orientare la legge vi sia sempre il fine della giustizia e del bene.
Su questa riflessione sulla dialettica tra legge e giustizia, e in generale sulla natura conflittuale delle relazioni umane l’Antigone di Sofocle continua e continuerà a interrogare le coscienze. La tragedia greca, in particolare quella sofoclea, insegna una sapienza desolata e tragica che non sembra ammettere una soluzione all’enigma «tremendo» del male umano, cantato nell’ ‘ode all’uomo’ del primo stasimo. Eppure, nella tragedia stessa quel sapere contiene già in sé i germi di una possibile fine del tragico, che si esprime nella consapevolezza – animata da indulgente compassione e fiduciosa operosità – che «tutti gli uomini possono sbagliare, ma saggio e fortunato è colui che nell’errore non persevera e cerca di rimediare al male» (vv. 1023-26).
Teatro PuntozeroBeccaria
Antigone di Sofocle
Dal 14 al 22 ottobre 2023
Con i giovani detenuti e non del carcere minorile Cesare Beccaria di Milano
27 / 28 / 29 ottobre 2023
Edizione speciale con le musiche di Alessandro Solbiati eseguite dal vivo da LaFil
Traduzione Maria Grazia Ciani
Drammaturgia Lisa Mazzoni
Regia, scene e luci Giuseppe Scutellà
Musiche Gianluca Messina, Alessandro Piantanida
con Marko Adam, Carlotta Bruschi, Greta Greppi, Lisa Mazoni, Martina Medici, Enea Pablo Zen Scutellà, Alex Simbana, Alessandra Turco, Vanessa Costa, Albert Tavazza
Organizzazione e promozione Vanessa Costa, Greta Greppi, Lisa Mazoni, Martina Medici, Mattia Romeo, Rocco Sapienza
Produzione Puntozero – Istituto Penale Minorile Cesare Beccaria
[1] Si tratta di un progetto internazionale che, oltre a Puntozero e LaFil, vede la partnership dell’Asociación Juvenil Teatral On&Off (Spagna) e dell’associazione Inter Alia (Grecia), cf. https://erasmus-plus.ec.europa.eu/projects/search/details/2022-1-ES02-KA220-YOU-000089404. La produzione Puntozero dell’Antigone, nata come laboratorio teatrale all’interno dell’Istituto Penale Cesare Beccaria di Milano nel 2009 è già andata in scena in altre stagioni, ed è stata ospitata anche dal Piccolo Teatro di Milano nel 2019.
[2] Cf. C. Bernardi, Il teatro sociale. L’arte tra disagio e cura, Roma, Carocci 2004.
[3] Sulla storia della compagnia si veda sia quanto scrive lo stesso regista in G. Scutellà, Il teatro di un carcere non nel carcere. La ristrutturazione del Teatro Puntozero Beccaria, in Il nuovo attore. Con un focus sul teatro in carcere al tempo del coronavirus, a cura di C. Valenti, «Quaderni di teatro carcere», 2019-2020, n. 7-8, che il volume scaricabile in open acess P. Barone, V. Berni, C. Palmieri, S. Vaccaro, Fare teatro in carcere minorile. L’impatto delle attività della compagnia Puntozero all’interno dell’Istituto Penale Minorile Cesare Beccaria di Milano, Franco Angeli 2022. Si segnala anche il libro SceKspir al BeKKa. Romeo Montecchi dietro le sbarre dell’Istituto Penale Minorile Beccaria, a cura di M. Cavecchi, L. Mazoni, M. Rose, G. Scutellà, Milano, Edizioni Clichy 2020, nato dalla collaborazione di laboratorio teatrale fra Puntozero e il Dipartimento di Lingue e letterature straniere dell’Università degli Studi di Milano, su cui vd. la recensione di Y. Bezrucka in «Skené. Journal of Theatre and Drama Studies» 9, 1, 2023.
[4] È stato rappresentato per esempio al Castello sforzesco di Milano durante la manifestazione culturale “Estate sforzesca” (04.07.2020), ed ha costituito un appuntamento di Mechrí, Laboratorio di filosofia e cultura (“Fare Khorós: la formazione nei luoghi di soglia” (20.03.2022, la cui registrazione audio è disponibile alla pagina http://www.mechri.it/archivio/archivio-2021-2022/).
[5] L’organico in scena de LaFil vede un ‘quintetto Pierrot’, uno degli ensembles canonici della musica classica contemporanea: flauto (in sol e in do), clarinetto basso, violino, viola, violoncello e percussioni. Si ringrazia il compositore Alessandro Solbiati, per averci gentilmente fornito la partitura (si tratta in realtà non di musiche composte ex-novo ma di un riutilizzo di pezzi appositamente trascelti dal compositore stesso all’interno della sua ampia produzione che si intersecano alle scene del dramma in una serie di otto «Intermezzi», aperte da un «Preludio» e chiuse da un «Postludio»).
[6] G. Steiner, Le Antigoni, Milano, Garzanti 1990, p. 307.
[7] Cf. F. Hölderlin, Sämtliche Werke, a cura di F. Beissner, Kohlammer, Stuttgart 1943, pp. 42, 219; M. Heidegger, Introduzione alla metafisica, Milano, Mursia 1968, pp. 148-49. Sceglie di rendere l’originale greco con ‘meraviglia’ anche il poeta irlandese Seamus Heaney nella sua versione della tragedia, A Burial at Thebes («Among the many wonders of the world / Where is the equal of this creature, man?», «Fra le tante meraviglie del mondo / dov’è l’uguale di questa creatura, l’uomo?»), su cui vd A. Rodighiero, «Dai campi arati trasse un buon raccolto». Traduzione, imitazione e ibridazione da Sofocle a Heaney in, S. Heaney, Speranza e Storia. Le versioni sofoclee, a cura di L. Guzzo, R. Pretto, M. Sonzogni, M. Zanetti, 13-4. Massimo Cacciari nella sua traduzione per Einaudi in Sofocle. Antigone, Torino 2007, rende l’incipit πολλὰ τὰ δεινά con «molte potenze sono tremende».