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PERCHÉ ESISTI? IN CHE MODO INCIDI SULLA SOCIETÀ? SEI CAPACE DI METTERE IN ATTO DEI CAMBIAMENTI?

Questa l’impegnativa domanda che in lettere maiuscole accompagna l’annuncio del podcast Le voci della città dei miti, sul sito web del Teatro dei Borgia (teatrodeiborgia.it). Una domanda che da tempo questi artisti rivolgono a se stessi, prima che a noi, potenziali ascoltatori o spettatori.

Il progetto de La città dei miti (di cui si è già parlato in questo blog), nato con la preparazione di Medea per strada nel 2015 e compiuto nel corso dell’ultimo anno, in piena pandemia, con la trilogia che affianca a Medea Eracle l’invisibile e Filottete dimenticato, è infatti un teatro che si propone esplicitamente di incidere sulla realtà: non nella forma del teatro sociale – in cui per così dire il “fare” è più importante della performance –, ma autentico teatro d’arte, calato, anzi, letteralmente dislocato nella società.

La città dei miti lavora sul mito cercandone la verità a contatto con il mondo d’oggi, come molti altri progetti artistici contemporanei, ma lo fa in un suo modo particolare: se Milo Rau, ad esempio, porta Oreste  – programmaticamente – in una realtà “di crisi o di guerra” come Mosul, per poi ri-portarlo nei teatri delle città europee, Teatro dei Borgia trasferisce invece la tragedia greca in una realtà molto più vicina a noi – anche se dolorosa e ignorata – cercata, anche fisicamente, con gli stessi spettatori, fuori dal teatro, per strada, ai margini delle città.

 

Nella prima puntata del podcast la voce ironica di Gianpiero Alighiero Borgia racconta come è nata questa storia: «Un collega regista salentino ci commissionò un lavoro sul mito greco per un sito archeologico. Una di quelle cose un po’ turistiche ma anche un po’ contemporanee, anche classiche e – perché no? – impegnate». Il mito greco viene tirato fuori dal suo cellophane quasi come pretesto (significativamente, però, la richiesta viene da un sito archeologico: l’antico pur presente nel nostro territorio!), in ogni caso si intreccia subito con l’osservazione della realtà, quella della statale pugliese su cui tutti i giorni passando in auto si vedono le ragazze che si prostituiscono. E Medea per strada nasce così: dal mito, ma anche «dalla realtà rimasta fuori dalle cartoline e dall’urgenza di non assuefarsi».

Il teatro esce allora dai suoi classici ‘contenitori’, e trova dei compagni di strada: assistenti sociali, esperti, psicologi, utenti dei servizi, volontari… e spettatori. Io stessa, in una delle parentesi dell’emergenza covid, la scorsa estate, ho assistito all’allestimento della Città dei miti a Barletta: il pubblico è stato portato per mano da un luogo all’altro dell’area urbana, dal centro (affollato) del pomeriggio fino alla strada deserta, a ridosso della campagna buia, dove l’unica presenza era quella di un furgone bianco e l’ampia, intensa voce di Medea. Una esperienza in cui teatro e mito diventano le coordinate di una autentica esplorazione: entriamo in luoghi della città che di solito non frequentiamo e al tempo stesso ci inoltriamo nel senso del mito.

Attraverso la Medea che cammina sulla statale, l’Eracle che potremmo conoscere in una mensa della Caritas o il Filottete dimenticato in una RSA incontriamo – improvvisamente – la ‘verità’ dei miti, capiamo di cosa parlano, quali realtà esplorano.

Con gli studenti del Laboratorio di Drammaturgia antica di Roma “Tor Vergata” (per cui vedi anche qui)  ci siamo interrogati a lungo sulla Medea interpretata da Elena Cotugno: cosa aggiunge il nome dell’eroina di Euripide alla vicenda di questa ragazza rumena? E in che modo ci spiega, la sua vicenda, il mito antico? Di fatto, attraverso la forma mitica riusciamo a penetrare più profondamente nella dimensione tragica di quell’esistenza, e, viceversa, la sua realtà ci fa capire meglio il senso del mito.

Studiandoli a tavolino a volte dimentichiamo quale fosse la vera sostanza di questi personaggi: figure dell’umano proiettate in una realtà senza tempo, per definizione sempre disponibili a nuove riscritture, che ci permettono ancora di guardare da vicino e in un certo sperimentare – senza morire – il tragico dell’esistenza. Tà deinà – la violenza, il sopruso, la miseria, l’abbandono, tutti gli aspetti della fragilità umana – si presentano allora ai nostri occhi attraverso queste ‘maschere’ di eroi che potremmo incrociare su un autobus o in una sala d’attesa senza notarli, mentre con disperata tenacia trascinano la propria esistenza…

Viene in mente la celebre frase di Simone Weil secondo cui è un vero peccato che storie come quella di Antigone siano note solo a «chi ha passato la vita tra le quattro mura di una biblioteca» e rimangano per lo più sconosciute a «coloro che sanno cos’è lottare e soffrire». Un’osservazione sul recinto elitario in cui i classici sono confinati, su cui ci sarebbe ancora da riflettere… In effetti, chi vive una condizione difficile, messo in contatto con alcuni testi teatrali antichi, comprende facilmente di cosa si tratta: è la scommessa su cui si fondano esperimenti interessanti come il progetto newyorkese Theater of warma anche in una semplice conversazione con un detenuto che abbia letto Eschilo può capitare di capire meglio cosa significhi l’obbligo di vendicarsi vissuto da Oreste, o il senso profondo dell’errore catastrofico di Serse.

Veniamo dunque a noi, gente ‘per bene’, gli spettatori. Perché andiamo a teatro? E perché –eventualmente – a vedere un dramma classico? E infine: cosa intendiamo fare di questi classici? (Come dire: perché esisti?)

Se è vero che il teatro, l’arte, la cultura – e soprattutto forse la cultura classica – può generare autocompiacimento (ci consola, conferma la nostra ‘identità’, ci tiene fermi), ciò di cui abbiamo disperato bisogno (ora più che mai) è al contrario una cultura in grado di aprire il futuro, di aiutarci a scoprire prospettive nuove, a pensare cose inedite. La scommessa allora è riscoprire il potenziale straordinario, vitale dei classici, cui accennava Simone Weil: «Riattivare il mito», espressione cara al Teatro dei Borgia.

Per gli antichi greci andare a teatro significava partecipare, e il dramma nel suo contesto (spazio aperto, spettatori visibili gli uni agli altri, emozione che attraversa come un’onda la cavea) era, almeno nelle sue forme più riuscite, un dispositivo complesso concepito per favorire la riflessione comune, per catalizzare il pensiero e i sentimenti di tutti attorno a un tema, una questione, una domanda.

Teatro dei Borgia si richiama esplicitamente a questo ideale, e la sua ricerca sul mito coincide di fatto con la ricerca di un teatro diverso, in grado di incontrare un possibile pubblico, una comunità che senta ancora il bisogno di un luogo di elaborazione collettiva.

La strada, su cui questo teatro ha cominciato a camminare con Medea, è diventata un metodo (odós, in greco, comprende i due significati): e ha cominciato a trasformare profondamente il lavoro della compagnia.

Appena capito «di aver aperto la porta di un altro mondo» gli attori hanno cominciato a documentarsi sul campo, a parlare, a chiedere. E nell’incontro con gli operatori e le associazioni sul territorio, con persone che si prendono cura tutti i giorni della comunità, capiscono che il proprio compito è «uscire, vedere la vita, scoprire la realtà, anche per chi rimane a casa»: lo spiega bene Elena Cotugno.

Il metodo è dunque quello del viaggio, del confronto, del modificarsi e adattarsi: di città in città il progetto si arricchisce di spunti, informazioni, e di persone, e l’approfondimento stesso del mito diventa ricerca sul campo e lavoro collettivo: «mito che si nutre di realtà».

Di tutto questo percorso, invisibile allo spettatore ma parte essenziale del progetto, abbiamo ora un resoconto poetico nel podcast Le voci della città dei miti, che dunque non è solo il documento di un processo di creazione artistica, ma anche il racconto di una trasformazione, dell’elaborazione di un metodo, e di un senso ritrovato di fare teatro.

 Nelle nove puntate programmate (tre per ciascun eroe, di cui già due pubblicate) le voci degli artisti raccontano i personaggi dei tre spettacoli e, accanto, i corrispondenti eroi della tragedia greca, ma soprattutto intrecciano questa narrazione con le molte voci delle persone che nel tempo li hanno accompagnati nel percorso: sentendoli, ci pare di conoscerli, di vederli, persone che descrivono le difficoltà del loro lavoro, parlano delle persone di cui si prendono cura, svelano aspetti che non conoscevamo.

Stare ad ascoltare, una puntata dopo l’altra, per noi può essere un modo per “condividere la strada”, approfondire, capire: rimane la sensazione di quanto poco sapevamo, di quante persone si occupano giornalmente delle invisibili tragiche esistenze di nostri simili, e anche di una comunità che malgrado tutto esiste già.

La sensazione viva di un modo di fare teatro aperto alla comprensione di ciò che ci circonda – necessaria, anche se mina le nostre certezze e ci ricorda la nostra stessa fragilità. Proprio come i pathe degli eroi – del resto –  nel teatro greco.

 

Il link per ascoltare i podcast è questo: https://www.spreaker.com/show/le-voci-della-citta-dei-miti

Le immagini sono tutte tratte dal sito del Teatro dei Borgia, Progetto 'Il trasporto dei miti': http://www.teatrodeiborgia.it/trasportodeimiti/