Nel 2019, al Gate Theatre di Dublino è andato in scena Pale Sister di Colm Tóibín, frutto del lavoro svolto dal pluripremiato scrittore irlandese nel laboratorio teatrale The Antigone Project (Columbia University, 2018).
Pale Sister è Ismene (Lisa Dwan), «sorella opaca e meno appariscente» rispetto ad Antigone; sorella che vive di solitudine (“Sono sola a questo mondo”, ripete), che «‘guarda’,‘scruta’, ‘osserva’ e racconta solo quel che sa – “I only knew what I saw”»; unica rimasta della famiglia reale tebana e sola testimone di una storia che è necessario raccontare perché, dice Ismene, “Con me finirà la verità ed è per questo che parlo. È per questo che parlo ora”. Scegliendo come pietra d’angolo Ismene invece di Antigone, dando a lei il compito di raccontare, Tóibín ha proseguito parte del cammino intrapreso con il romanzo House of Names (2017, edizione italiana 2018), nel quale aveva tratto fuori dalla zona d’ombra Clitemnestra e aveva scelto il suo punto di vista per porre le basi del racconto di un’altra famiglia del mito, resa celeberrima da Eschilo, Sofocle, Euripide.
Qualche anno dopo la pubblicazione di House of Names, a Londra e Dublino fu rappresentato Girl on an altar della drammaturga irlandese Marina Carr: protagonista, Clitemnestra (2021-22, Londra - Kiln Theatre; 2023 Dublino - Abbey Theatre; inoltre 2021 APGRD).
L’attenzione, negli stessi anni, da parte di due scrittori irlandesi per questa tragica figura femminile e più in generale per la casa degli Atridi pare sia stata sollecitata dal progetto di una nuova Orestea – riscrittura e messa in scena –, pensato in Irlanda intorno al 2015. Fra i nomi delle persone coinvolte circolavano quelli di Tóibín e Carr (qui). Il progetto non andò in porto ma trovò altre realizzazioni: House of Names, appunto, e Girl on an altar.
Nel romanzo come nel testo teatrale si dà molta importanza alla figura di Clitemnestra ma Tóibín e Carr seguono strade e intenti per lo più diversi.
Clitennestra apre il romanzo (I capitolo) ma questo personaggio, pur nevralgico, non è il solo ad avere una posizione di rilievo, che è rivestita anche da una delle figlie (Elettra - capitolo centrale) e dall’unico figlio (Oreste - capitoli II, IV, VI e ultimo).
Il testo della Carr è invece tutto incentrato su Clitemnestra, donna lacerata tra il risentimento viscerale verso Agamennone e il desiderio ancora vivo del marito. L’allusione nel titolo Girl on an altar a Ifigenia mira di fatto a sottolineare come dal noto sacrificio, voluto dagli déi e assecondato da Agamennone, siano scaturiti il dolore insuperabile della madre per la morte della primogenita e l’impossibilità di perdonare Agamennone che, da re prima che da padre, mise la figlia su un altare per ottenere dagli dèi un vento favorevole alla partenza di navi armate alla volta di Troia (Programme note).
In contemporanea e nello stesso frangente di Girl on an altar, Clitemnestra è stata protagonista anche nei teatri italiani, con un testo di Luciano Violante, Clitemnestra (2021-23, regia di Giuseppe Dipasquale, qui il trailer) e Clitennestra, riadattamento da La casa dei nomi di Tóibín curato da Roberto Andò, anche regista dello spettacolo (2022-24).
Da spettatrice, e da lettrice del romanzo di Tóibín, Clitennestra è stata un’ulteriore occasione per riflettere sulla complicata e dibattuta questione se un romanzo possa sempre farsi teatro o se, perché questo accada, regista, attori, dramaturg debbano poter riconoscere nell’opera caratteri teatrali su cui lavorare e con cui mettere alla prova il testo e loro stessi. Uso l’espressione ‘mettere alla prova’ nel senso che ha almeno in due noti spettacoli creati da romanzi epocali: Moby Dick di Herman Melville e I promessi sposi di Alessandro Manzoni, il primo Rehearsed, ‘messo in prova’, ‘provato’ da Orson Wells a teatro nel 1955 (di recente in scena con Elio De Capitani), il secondo da Giovanni Testori: I promessi sposi alla prova diretto da Andrée Ruth Shammah nel 1984 (a teatro nel 2023).
Ora, credo che il romanzo di Tóibín manchi di molti tratti teatrali e, direi, intenzionalmente: se Tóibín avesse voluto scrivere un dramma sulla casa degli Atridi l’avrebbe scritto, analogamente a quanto fatto da Marina Carr, e per giunta sarebbe stato certo in grado di misurarsi con la scrittura drammaturgica come ha dimostrato con Pale Sister e non solo. Ma se si vuole comunque portare a teatro un romanzo quale House of Names, le strade da seguire dovrebbero essere in linea con quelle esemplari appena ricordate o con altre presentate e discusse in un recente articolo da Claudio Longhi o, per fare un esempio che in parte ha a che vedere con Clitennestra, con il percorso tracciato dal lavoro di Emanuele Trevi sul romanzo di Raffaele La Capria Ferito a morte (Premio Strega 1961) e dalla regia di Roberto Andò (qui): una sfida difficile, senza dubbio vinta.
Tra le principali ragioni che fanno di Clitennestra uno spettacolo teatrale poco convincente penso quindi che vi sia un adattamento per la scena poco riuscito e una scelta a monte, ovvero quella di concentrarsi su Clitemnestra che, pur in dialogo e in azione con altri personaggi, fa avvertire più di una mancanza: anzitutto quella della architettura concepita da Tóibín, nella quale i piani abitati da Clitennestra (capitolo I e V), con i suoi ricordi, le sue emozioni, con le schegge di una vita, vacillano se privati dei piani abitati da Oreste (II, IV, IV) e da Elettra (III). La Clitemnestra di Tóibín è per certi versi simile alla protagonista della celeberrima serie TV House of Cards (2013-18, dall’omonimo romanzo di Michael Dobbs), Claire Underwood, una serie che, oltre ad avere connessioni con la tragedia greca, smette di funzionare quando viene privata del ‘piano abitato’ dal marito di Claire (Frank), eliminato nell’ultima stagione. Ecco, credo che House of Names vada portata a teatro ‘riadattando’ tutto il romanzo perché i significati più profondi e interessanti di questo retelling contemporaneo del mito tragico della casa degli Atridi sono nel tutto, nella casa nella sua interezza, più che in una delle sue parti, benché importanti. Una simile scelta sarebbe anche un’occasione per percorrere la strada di nuove esplorazioni, potenzialmente intriganti, nel dialogo fra linguaggi ed estetiche del teatro e della serialità, già avviato da qualche tempo e particolarmente sensibile a certe re-visioni della tragedia greca (esempi, con riferimenti alla casa degli Atridi: qui).
«Ho dimestichezza con l’odore della morte. L’odore nauseabondo e zuccherino che si diffondeva nel vento raggiungendo le stanze di questo palazzo» – sono le prime parole della Clitennestra di Tóibín – «Guardo le ombre allungarsi. Tante le cose ormai disperse, ma l’odore di morte permane. Forse mi è entrato in corpo, gradito come la visita di un vecchio amico. L’odore della paura e del panico. Quell’odore è qui com’è qui l’aria […]. È compagno fedele; ha ridato vita ai miei occhi […]».
Da subito Tóibín fa dell’odore della morte, dell’odore del sangue una presenza immanente, pervasiva, legata a doppio filo a Clitennestra ma in Clitennestra questo odore fatica a farsi sentire; non accompagna come dovrebbe la recitazione di Isabella Ragonese (Clitennestra) – non basta scolpire con la voce le parole chiave –, non impregna come dovrebbe lo spazio teatrale né le ombre evocate dalla protagonista mentre ricorda, e che man mano appaiono in scena – Ifigenia (Arianna Becheroni), Agamennone (Ivan Alovisio) e altre –.
La casa delle ombre di Tóibín non ha spazi per gli dèi, inesistenti o del tutto indifferenti. È un palazzo soffocante, tra anfratti delittuosi e spazi angusti dove riecheggiano parole che portano rancori, vendette, dolori indicibili, appetiti erotici e di potere, morte che fa cercare bramosamente altra morte, dove il ricordo del vento non dà respiro ma stringe la gola con la memoria incancellabile del sangue di Ifigenia. «Ammazzare la ragazza innocente perché cambiasse il vento», ricorda Clitemnestra. Il vento è punto di non ritorno e soffio che sprigiona sangue e ombre.
In Clitennestra, i momenti cruenti e drammatici come lo stato di desolazione e sporcizia della scena sembrano generalmente costruiti più seguendo il compiacimento estetizzante che le rischiose spinte destabilizzanti inscritte nella crudeltà e nella putrescenza, che toccano in vario modo tutti i personaggi e i luoghi, le stanze del palazzo reale, l’Aulide del sacrificio di Ifigenia.
Nella recitazione non di rado troppo enfatica e poco sorvegliata nelle sfumature – specie degli interpreti di Agamennone e Achille (Denis Fasolo) – si perdono l’essenza e il senso più profondo delle ombre, richiamate a vivere in una dimensione che è quella della memoria e dei suoi tormenti. Le ombre, così, sfumano spesso nella nebbia e creano nello spettatore più distanza che partecipazione, suscitano più emozioni ovattate che a tinte forti, come accade invece leggendo il romanzo. Vi sono tuttavia eccezioni. Penso ad esempio al primo ritrovarsi di Ifigenia e Clitennestra, alla voce spettrale con cui Ifigenia pronuncia la parola “mamma”, dalla quale nasce un gioco di braccia fra madre e figlia che termina con corpi serrati in uno spazio ritagliato dal resto del mondo, laicamente sacro, inviolabile, nel quale però l’amore ritrovato lascia trapelare il buio incancellabile della perdita. Penso a quando Ifigenia si rivolge ad Agamennone per l’ultima volta: nel dire parole come “padre, papà, non uccidermi”, nello stare in ginocchio vicino al padre, nella difficile compostezza tenuta di fronte all’assurdo, sa esprimere a pieno tenerezza e paura. E poi l’apparizione di Clitennesta dal piano sopraelevato, che si innalza sul fondo della scena. Quando Clitennestra comunica da lì la decisione di uccidere Agamennone, raggiunta da una luce che si concentra solo su volto e spalle lasciando il resto nelle tenebre, ha la potenza di una figura ctonia che incombe terribile su tutto.
L’adozione di due piani da parte di Gianni Carluccio, già magnifica nel citato Ferito a morte, e di un meccanismo che potremmo definire di sipari secondari, che si alzano e abbassano in momenti nevralgici dello spettacolo, l’idea di queste scene nella scena riesce a dare visione alle scatole della memoria, che si aprono e chiudono tra necessità di rivelare e di seppellire. Da queste, Clitennestra e le ombre si congedano, con un finale glaciale e di dissolvimento.
Clitennestra
da La casa dei nomi di COLM TÓIBÍN
adattamento e regia Roberto Andò
Clitennestra Isabella Ragonese
Agamennone Ivan Alovisio
Ifigenia Arianna Becheroni
Achille Denis Fasolo
Donna anziana del popolo Katia Gargano
Egisto Federico Lima Roque
Cassandra Cristina Parku
Elettra Anita Serafini
Coro Luca De Santis, Eleonora Fardella, Sara Lupoli, Paolo Rosini, Antonio Turco
scene e luci Gianni Carluccio
costumi Daniela Cernigliaro
musiche e direzione coro Pasquale Scialò
suono Hubert Westkemper
coreografie Luna Cenere
aiuto regia Luca Bargagna
produzione Teatro di Napoli - Teatro Nazionale, Campania Teatro Festival - Fondazione Campania dei Festival
Visto al TEATRO STREHLER, 6-11 FEBBRAIO 2024
Le foto di Clitennestra (photo credit Lia Pasqualino) sono tratte da https://www.piccoloteatro.org/it/2023-2024/clitennestra; https://teatrodinapoli.it/evento/clitennestra-mercadante/.
Le citazioni da La casa dei nomi (Einaudi 2018) sono da p. 5, p. 9.
Su Pale Sister di Colm Tóibín: Loredana Salis, Antigone in Irlanda: un mito greco nella contemporaneità, in S. Fornaro, R. Viccei (a cura di), Antigone. Usi e abusi di un mito dal V sec. a.C. alla contemporaneità, Edizionidipagina, Bari 2021, pp. 263-276; pp. 272-273, per le citazioni all’inizio di questo articolo.
In Italia, Pale Sister è andato in scena a Roma (regia Carlo Emilio Lerici) in occasione di TREND nuove frontiere della scena britannica - XXII edizione.
La casa dei nomi, dichiara Colm Tóibín, «si basa in buona parte sull’immaginazione e non ha una fonte in nessun testo. Alcuni personaggi e molti avvenimenti della Casa dei nomi, anzi, non figurano nelle versioni precedenti di questa storia. I protagonisti principali, però – Clitennestra, Agamennone, Ifigenia, Elettra e Oreste –, e l’impianto narrativo sono tratti dall’Orestea di Eschilo, dall’Elettra di Sofocle e da Elettra, Oreste e Ifigenia in Aulide di Euripide» (Ringraziamenti, in La casa dei nomi, Einaudi, Torino 2018, p. 262).
Su La casa dei nomi e i tragici greci: E. Medda, Quando il mito perde i suoi dèi. La storia degli Atridi in House of Names di Colm Tóibín, in F. Citti, A. Iannucci, A. Ziosi (a cura di), Agamennone classico e contemporaneo, 2022, pp. 199-216 https://edizionicafoscari.unive.it/media/pdf/books/978-88-6969-633-6/978-88-6969-633-6-ch-09_fMtPBmE.pdf.
Sul romanzo a teatro
Convegno Teatro e romanzo. Storie, pratiche e modelli culturali a confronto sulla scena europea tra XX e XXI secolo (Università La Sapienza, Roma, 27-28 maggio 2021, https://news.uniroma1.it/27052021_0900); numero 22 della rivista Status Quaestionis: Narrative Dimensions and European Theatre, from the Early Twentieth Century to the Present (https://rosa.uniroma1.it/rosa03/status_quaestionis/issue/view/1650), dove è pubblicato il citato articolo di Claudio Longhi (C. Longhi, M. Marchetti, A. Peghinelli, Teatro e Romanzo. Conversazione con Claudio Longhi a cura di Marta Marchetti e Andrea Peghinelli, «Status Quaestionis» XXII, 2022, pp. 265-279, https://rosa.uniroma1.it/rosa03/status_quaestionis/article/view/18082).
Sulla centralità dell’odore del sangue nell’Orestea di Eschilo e in alcune delle più recenti Orestee in scena: R. Viccei (a cura di), Orestee del XXI secolo, «Visioni del tragico. La tragedia greca sulla scena del XXI secolo» III, 2022, https://www.visionideltragico.it/index.php/rivista.
Infine, vale la pena ricordare che negli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso hanno dedicato a Clitemnestra
un balletto e una “tragedia musicale” Martha Graham e Ildebrando Pizzetti.
Clytemnestra, Martha Graham, 1958: https://marthagraham.org/portfolio-items/clytemnestra-1958/; https://bibliolmc.uniroma3.it/node/1668.
Clitennestra, musica e libretto di Ildebrando Pizzetti, Teatro alla Scala di Milano, 1 marzo 1965: https://www.teatroallascala.org/it/archivio/spettacolo.html?guid_=a7a519c0-38de-43d7-9b13-dcc41f352dda&id_allest_=560&id_allest_conc_=&id_evento_=7196&mode=EVENTI.