Antigone a Siracusa.
Quando nell’autunno del 2012 mi fu chiesto di tradurre Antigone per la stagione 2013 dell’Inda e per il teatro greco di Siracusa, provai lo sconcerto e la paura di dovermi confrontare prima con un capolavoro assoluto della drammaturgia, poi con la scena, con i suoi addetti ai lavori, e anche con un pubblico molto vasto ed eterogeneo di studiosi e studenti, di affezionati della stagione e di turisti occasionali senza speciali qualità. I timori erano però in parte compensati dalla certezza di essere chiamata a lavorare secondo la destinazione primaria di quel testo, per un’occasione pubblica, per tempo e per luogo delle rappresentazioni più vicina al festival attico dei concorsi annuali dionisiaci che a una recita d’essai per il gusto e la riflessione di pochi.
Non sottovalutavo i problemi che qualsiasi rimessa in scena di una drammaturgia comporta a secolare, millenaria, distanza dalla sua composizione. Il grande teatro non è mai innocuo, morde sempre il suo presente, interpreta necessità, risponde a urgenze, anche quando lavora su apparenti dislocazioni di luogo e di tempo. Così, secondo un codice divenuto prevalente e con poche eccezioni, aveva operato la tragedia attica, proiettando i drammi sociali e politici della sua contemporaneità sulla materia mitica, nel non tempo degli eroi e nei luoghi convenzionali delle loro leggende, ristrutturando e riconnotando tendenziosamente, di volta in volta, i racconti tradizionali. Con un’incisività sull’immaginario e sui comportamenti individuali e collettivi che gli antichi, da Aristofane ad Aristotele passando per Platone, avevano colto in tutti i riflessi poetici e pedagogici, e che le nostre riprese spesso semplificano o smussano nel rigore filologico o in spericolate avventure di attualizzazione a effetti speciali. Avevo più volte avvertito, dopo numerosi spettacoli, un certo retrogusto artificioso che mi sembrava venire da pratiche inerziali, obbligate dalla consuetudine – ora in omaggio a un classicismo di maniera, ora pregiudizialmente contro ogni classicismo – e che mi sembravano portare a una irrimediabile saturazione.
Il pericolo poteva essere anche più insidioso con Antigone. La tragedia nella primavera del 442 era stata premiata con il primo posto al concorso e aveva avuto un effetto pragmatico immediato di rilevanza storica con l’elezione di Sofocle alla carica di stratego al fianco di Pericle. Come se Sofocle, drammatizzando il conflitto di Antigone e Creonte, avesse interpretato un tema molto scottante, come se avesse assunto e trasfigurato per la scena una tensione in atto nella polis, in una miracolosa ed efficace fusione di città, teatro e mito che mai più avrebbe avuto lo stesso senso né, tantomeno, la stessa pregnanza. Ma che avrebbe avuto tanta fortuna e tante occasioni, usi e abusi, in tutte le epoche.
Mi misi dunque al lavoro consapevole delle difficoltà e con la certezza che il buono o il cattivo esito della sfida non dipendeva soltanto da me, ma anche da come il regista, gli attori e gli addetti allo spettacolo avrebbero recepito la mia traduzione e le mie chiavi di lettura, da come l’avrebbero mediata e portata in scena. Incominciai a rileggermi, testo fronte, molte delle numerose traduzioni dell’Antigone, con speciale attenzione per le traduzioni più recenti e specialissima per quelle, soltanto sei, andate in scena a Siracusa nei cento anni dell’Istituto Nazionale del Dramma Antico e nei precedenti quarantotto cicli di spettacoli. Ero infatti e resto convinta che la regola aurea per chiunque si accinga a tradurre un classico, più volte tradotto e spesso da traduttori eccellenti, sia confrontarsi con il lavoro e le interpretazioni di chi lo ha preceduto. Se tradurre è trasferire – da una lingua a un’altra, da una cultura a un’altra –, tradurre i classici antichi è anche tramandare nel tempo e dunque prolungare una catena di cui ogni nuovo anello non può prescindere dai precedenti, dalle loro soluzioni condivise e non condivise, dalle impronte ermeneutiche che hanno lasciato sul testo e che il testo sembra aver assorbite. Chi può dire di tradurre una battuta o un’immagine senza essere condizionato, più o meno consapevolmente, da una traduzione precedente che, in alcuni passaggi, si sovrappone all’originale e lo pregiudica?
Le altre traduzioni.
Dalla traduzione di Ettore Romagnoli del 1924 alle più recenti di Giovanni Raboni del 2000 e di Maria Grazia Ciani del 2005, le stagioni dell’Inda hanno annoverato traduzioni dell’Antigone di notevole livello, fondate su sicura competenza linguistica e orientate da ipotesi interpretative più o meno forti, non sempre dichiarate, ma comunque trasparenti attraverso le scelte di resa sintattica e lessicale. Non ho trovato traduzioni neutre, né per l’Inda né per altre edizioni, come del resto non mi aspettavo di trovare e come non può essere neutra e neppure innocente nessuna traduzione, a meno che sia puro esercizio di riscaldamento linguistico. Ogni traduttore, nel rispetto sostanziale del testo, incideva sul senso complessivo della drammaturgia, con la tendenza più generalmente condivisa a valorizzare il tema drammatico di Antigone, cedendo alla tentazione di caricare emotivamente la sua philia, leggendola come amore assoluto e oblazione. Alcuni, pochi, traducendo cercavano di far corrispondere alla perfezione morale di Antigone la bestialità di Creonte, il tiranno, abbassando il registro delle sue battute e scadendo in un manicheismo del tutto anacronistico, semplificando il gioco sofocleo protratto dei pesi e dei contrappesi, dell’oscillazione che manteneva gli spettatori in bilico e ne alimentava le attese.
Con un orecchio molto più attento alla tessitura ritmica della poesia di Sofocle e per vie opposte, Romagnoli e Raboni hanno attirato l’attenzione sulla forma dell’espressione tragica, sulle differenze che la distinguono per densità dalla prosa del V secolo e per severità di registro dalle crudezze fintamente colloquiali della commedia antica. Negli anni Venti, Romagnoli traduce con gli effetti pompiers di un classicismo eroico sostanziato di retorica, ma anche sostenuto da un senso sicuro, matematico-musicale della lingua e dei ritmi del testo. Alla fine del secolo e del millennio, in tempi di euforia postmoderna, Raboni traduce con il vocabolario medio e le misure quasi insonorizzate della sua poesia, con una pensosità austera. Le loro traduzioni continuano a essere rivelatrici: ciascuna per sé e l’una in rapporto all’altra, contribuiscono più di altre ad alimentare la riflessione sul linguaggio drammatico di Sofocle che, indirettamente, parla anche del teatro e in particolare della tragedia, del suo posto e del suo ruolo tra le altre forme di comunicazione, del posto e del ruolo dell’autore tra gli altri drammaturghi, della sua poetica. Ma, rispetto alla dimensione metadiscorsiva, ben più sensibile nell’ Edipo Re, e a quella metateatrale perspicua dell’Edipo a Colono, a prevalere nell’Antigone è l’impatto referenziale e storico, molto potente e determinante dietro la trama mitica e le provocazioni emotive.
Ricominciando da Sofocle.
Non era facile da scoprire la radicale referenzialità, storica e politica, dell’Antigone, in una tragedia che si svolge attraverso una sequenza di scene a due, di scontri a catena tra due personaggi fortemente legati tra loro – le due sorelle, la giovane donna e il maturo sovrano che è anche il fratello di suo madre e padre sostituto, il padre e il figlio, il re e l’indovino che esprimono il potere politico e quello religioso – e sembra costruita per pungere le emozioni e suscitare commozione, per toccare le corde universali degli affetti umani più che i nervi politici in tensione.
Dopo il confronto delle traduzioni e delle loro variazioni, era necessario tornare a Sofocle, che resta uguale a sé stesso e sempre più insinuante e provocatorio di tutti i traduttori e gli interpreti, anche dei massimi. Quali erano le poste in gioco sottese a tanto pathos? Quali le intenzioni nascoste nel testo per altro mutilo, come tutti i testi del teatro attico che ci sono pervenuti, della parte musicale che ci avrebbe aiutato a capire? Come potevo descrivermi l’Antigone in contesto per decifrarne meglio il linguaggio e restituirne, nella traduzione, i livelli e i registri?
Ho incominciato concentrandomi sulla fruizione antica, più vicina cronologicamente e culturalmente alla data di composizione della tragedia, sugli effetti immediati che lo spettacolo aveva avuto sugli spettatori e sulla pubblica opinione, sulla continuità delle riflessioni nel tempo relativamente breve di alcune generazioni. Cercavo prospettive adeguate, in modo da evitare, per quanto possibile, sovrapposizioni anacronistiche e alcuni ostinati luoghi comuni della critica che tendono a perpetuarsi di generazione in generazione, da una lettura all’altra, qualunque sia il quadro teorico di riferimento. E, nel caso di Antigone come in quello dell’Edipo re, si è cristallizzato un vero e proprio blocco semiotico difficile da riaprire, una idealizzazione che garantisce la fortuna delle opere ma, al contempo, ne pre-determina l’interpretazione.
Il linguaggio dell’Antigone.
Da Aristotele ai nostri giorni Antigone è recepita come tragédie à débat. Nei secoli, nei millenni, la tragedia è stata tradotta o ripensata da Hölderlin, Hegel, Goethe, Kierkegaard, poi da Klossowski, Bultman, Heidegger, Yourcenar, Zambrano, Lacan, Irigaray, Ricoeur, Zumthor, e, per arrivare rapidamente con molte omissioni alle incertezze del terzo millennio, Nussbaum, Butler e Zagrebelsky. E non sono che alcuni nomi fuori scala di un interesse mai interrotto e coltivato con particolare attenzione nei momenti storici più travagliati dai conflitti intestini, in parallelo alle messe in scena del testo antico e delle sue riscritture, ai film più liberamente ispirati alla tragedia. La tragedia ha emozionato, ma ha fatto, da sempre, molto pensare.
L’Antigone porta inconfondibili impronte sofoclee nell’impianto, nella costruzione dell’intreccio implacabile che travolge i personaggi. Sofoclei, inequivocabilmente, sono anche la sintassi piana dei dialoghi e il vocabolario conciso e pregnante: nessun virtuosismo lessicale al modo di Eschilo, nessuna protratta argomentazione di stile euripideo, ma neppure troppe consonanze con le altre drammaturgie di Sofocle.
Si potrebbero passare in esame tutte le tragedie e i toni prevalenti in ciascuna, ma anche limitando il confronto ai drammi di materia tebana, Antigone è ben differenziata. Il registro e il tono anfibologico che, nell’ Edipo Re, risucchiano lo spettatore e il lettore in un’abissale ambiguità sono del tutto estranei all’Antigone. Così com’è estraneo a questa tragedia di affluente età periclea il tono elegiaco e senile o tardo del postumo Edipo a Colono.
Coerenti e conseguenti, anche se alterati dall’ira, sono gli interventi di Creonte, almeno fino allo scontro con Tiresia che scatena la paura. Ma la logica governa anche le battute dell’eroina, sebbene si confonda e si dissolva alla fine nel pathos struggente dei suoi lamenti che si impongono nella storia della critica come voce degli affetti o del ‘sentimento’ opposta alla parola della ragione. Fin dall’incontro con Ismene, nel prologo, il registro di Antigone è da raisonneuse, del tutto distinto da quello della sorella che non idealizza e non progetta, che avverte il pericolo di una lotta impari con il potere e la vergogna di un passato familiare che non sa e non vuole nascondersi. Poi, con sillogismi ben costruiti Antigone sostiene il valore delle leggi non scritte, gli agrapta nomima, contro quelle emanate da Creonte (vv. 450-470). E infine, sul punto di essere portata nella grotta, motiva il proprio gesto, il rischio che ha corso per suo fratello e che non avrebbe affrontato né per uno sposo né per un figlio, contraddicendo con orgoglio e tenace logica gentilizia l’amore assoluto e oblativo di cui resta il simbolo (vv. 904-914).
Ragione e passione irriducibile per le proprie ragioni da difendere in nome di differenti modelli di appartenenza, di philia e di philoi, sottendono dialoghi e discorsi nell’Antigone. A stemperare l’incalzante argomentare dei personaggi Sofocle provvede con i corali che non incidono sulla vicenda, ma la istoriano di figure. I cori proiettano sullo sfondo dell’azione drammatica e della progressiva messa in questione del potere di Creonte quadri leggendari o filosofici che dovrebbero riassorbire la vicenda nell’immaginario tradizionale del mito o proiettarla nell’immaginazione anticipatrice della ricerca intellettuale: il grande affresco onirico della parodos trasfigura la battaglia da poco conclusa, tra gli incubi dell’assalto e il trionfo per la ritirata dell’esercito argivo; l’inno all’uomo e alla sua potenza, nel primo stasimo, tra segni del progresso e segnali di pericolo, tra esultanza per il superamento del limite e la paura del limite e del rovescio, aggancia la filosofia.
Una traduzione non è un doppio dell’originale.
La razionalità esplicita dei discorsi mi dava sufficienti motivazioni per mantenermi scettica nei confronti delle traduzioni in versi della tragedia attica e per ritenere qualunque verso, anche l’endecasillabo, del tutto inappropriato a rendere i toni prosaici dei trimetri nell’Antigone. Sono così essenziali i versi al senso dei dialoghi e delle rheseis dell’Antigone? I trimetri sono sempre carichi di fono-simbolismi capitali? O sono, perlopiù, il supporto ritmico della recitazione e della trasmissione orale dei testi, un antico espediente della mnemotecnica, come l’esametro epico e il pentametro shakespeariano?
Ben più profondamente intrinseca all’espressione allusiva, costruita per associazioni di immagini, ellittica, evocativa, tanto più evocativa quanto più ellittica, risultava la figurazione fonico-ritmica delle parti liriche, scandite secondo partiture musicali che non conosciamo. Ma come rendere quei sistemi metrici complessi, quelle responsioni strofiche, se non per approssimazione, cercando di distinguerli dai dialoghi con una maggiore cura prosodica, ma sempre con la consapevolezza dei limiti insuperabili?
A differenza di altri traduttori forse più convinti dei loro mezzi, non credo che l’ostinazione a segnalare con figure di suono e di sintassi italiana tutte le occorrenze delle figure sofoclee conduca sempre a buon esito. Talvolta le avventurose ricerche di versificazione e di corrispondenze fittizie fa percepire meglio l’artificio del traduttore e meno il tenore, meno il senso, meno la posta in gioco della risoluzione sofoclea nel co-testo circoscritto di quella precisa struttura drammatica e nell’opera. Volevo tradurre Antigone per fare arrivare al pubblico il tema che mi sembra capitale nel dramma e per continuare a pensare. Mai avrei rischiato di sacrificare la lettera del testo con la pregnanza che ancora ci sollecita a una discutibile ambizione poetica. Ho lavorato per restituire quella pregnanza, senza forzare mai la coerenza del testo e rispettandone i margini di opacità e di ambiguità, sempre cercando di riconoscere e di far riconoscere i limiti dell’intraducibile, non spingendomi oltre.
Il tema e i suoi effetti sulla traduzione
La tragedia si apre annunciando e si compie drammatizzando il contrasto tra Creonte, il sovrano protagonista della vicenda, e Antigone, la sua antagonista, il piccolo granello di sabbia che ne incepperà la macchina del potere. In apertura, tra il prologo e il primo episodio, i due personaggi sembrano declinare ciascuno un tema distinto, Antigone il tema della philia, troppo spesso e troppo facilmente confusa con l’amore assoluto, Creonte, il tema del nomos, troppo spesso frainteso come legalismo feroce. La contrapposizione ha colpito nel segno ed è stata perpetuata dalla critica, ma la sapienza drammaturgica di Sofocle ha costruito un intreccio più complicato e sottile. I due personaggi che confliggono sono parenti stretti: Antigone è figlia di Giocasta, madre e sposa di Edipo, sorella di Creonte. Antigone, in altre parole, sta dentro Creonte, impersona quei legami di sangue e di famiglia che Creonte, con le sue nuove leggi, pretende di superare definitivamente. E’ il passato del genos che non passa e non libera il presente della polis, il rimosso che torna e insidia la politica. All’incastro dei personaggi corrisponde l’incastro dei temi, non uno contro l’altro, ma l’uno dentro l’altro, in stretta connessione, a dar vita al pesante tema tragico della philia, il principio di coappartenza che regola lo stare insieme, e dei nomoi o degli agrapta nomima, delle leggi storiche o consuetudinarie e dunque sacre, che lo sottendono, lo definiscono, modellando differenti ordini di vita collettiva, di comunità o di società.
Nel linguaggio di Antigone il tema della philia è ossessivo, non tanto in astratto quanto nei nomi e nei qualificativi di persona, philos, phile, philoi. Anche Creonte vi ricorre sebbene più discretamente. I philoi di Antigone lo sono per nascita, sono i consanguinei legati dal vincolo ereditario di una comune discendenza. I philoi di Creonte lo diventano per scelta, sono coloro che sanno vincolarsi in un patto condiviso e consapevole, viaggiando insieme sulla stessa barca, l’antica metaforica nave dello stato, e combattendo per la stessa causa nella direzione innovativa di una società più eterogenea, politica e non familiare, fondata sui diritti e non sui privilegi.
Per rendere nella nostra lingua il tema portante del conflitto, ho cercato di non tradurre philia con “amicizia” e philoi con “amici”. Le due parole, nell’italiano corrente, sono impoverite di senso per effetto della frequenza d’uso e anche dell’abuso. Ho evitato accuratamente, almeno nei contesti più marcati e decisivi, di cadere in questa trappola confusiva che avrebbe fatto perdere di vista l’oscillazione dei termini greci tra le battute di Antigone e quelle di Creonte. E ancora più attentamente ho cercato di evitare le parole “amare” e “amore” che avrebbero rinchiuso Antigone nella gabbia di un discorso sentimentale e fático inadeguato al personaggio sofocleo. Così, ho tradotto con pronomi personali e aggettivi possessivi – i miei, i nostri, mio fratello, sono sua sorella – la philia di Antigone che si sostanzia di sangue, di facce e di corpi che si somigliano, di usanze superstiti. Ho tradotto con “cerchia” i philoi di Creonte, affratellati dai patti fondati sulle affinità ideali ed elettive.
Il tema, che altre fonti lasciano intendere intrinseco a quegli anni di spinto sperimentalismo politico, nella versione di Sofocle si misura sulle umane sofferenze di personaggi infinitamente più fragili e ambigui dei ruoli e delle idee che interpretano: Creonte si scopre isolato dal suo rigore, assediato dal dissenso e infine colpito nei legami familiari che il suo raziocinio legalistico e radicale aveva cercato di negare; Antigone si immola per riportare il fratello in seno al genos e in nome di un ethos familiare in cui si perde senza discuterlo e senza saperne misurare la violenza già consumata e quella potenziale. Traducendo ho voluto restituire la tenacia argomentativa di entrambi, ma non ho voluto ignorare le increspature della loro tenuta eroica. Nei limiti del possibile, mi sono sforzata di mantenere in italiano i cambi di registro, di tempi e di tonalità.
Antigone e Creonte, in particolare, alternano toni austeri e colloquiali, gnomici e sferzanti, ritmi lenti e concitati fino a risultare fonicamente percussivi, concretezza e astrazione, che le scelte linguistiche di Sofocle lasciano avvertire nel greco del testo. Ismene mantiene un registro più uniforme, che fonde riserbo e voglia di vivere. Emone incomincia con una captatio benevolentiae, sollecitando con la persuasione l’ascolto di suo padre ed esce di scena in preda allo sconforto di averlo scoperto irriducibile, triviale nella sua durezza. Tiresia, provocato da Creonte, abbandona il registro profetico per l’invettiva politica contro i tiranni. La guardia, con il suo linguaggio quotidiano e circospetto, dà la misura della distanza che separa l’uomo comune dai soggetti eccezionali, tra il senso fisico della vita, quell’urgenza assoluta dell’autoconservazione, e il massimalismo rovinoso delle idee non rivedibili. Del Coro ho cercato di rendere la disperante doppiezza che Sofocle gli attribuisce giocandolo fino alla fine su due binari, quello lirico dei canti di suprema fattura e antica sapienza e quello dialogico, negli interventi del corifeo, di avvilente conformismo.
Non mi illudo di avere raggiunto tutti gli scopi che mi prefiggevo. Spero almeno di aver evitato le insidie dei luoghi comuni, di non essere ricaduta negli stereotipi fiorenti intorno a questa tragedia e ai suoi personaggi. Spero di avere riaperto il testo e riscoperto il suo grande tema, il principio della prossimità e della reciprocità che definisce e raggruppa gli uguali, “noi”, in rapporto agli altri, “loro”. Il fondamento della coappartenenza può modificarsi nella storia, spostando il baricentro dall’ethos comunitario alla polis, dalla famiglia alla tribù e alla società politica eterogenea. Ma fino a che punto la politica, nelle sue logiche e nelle sue dinamiche, può prescindere dall’ethos condiviso? E fino a che punto l’ethos può limitare l’autonomia della politica?
Il tema, con i problemi che gli sono intrinseci, continua a riguardarci nel procedere di questo terzo millennio da cui torniamo a leggere e a interrogare Antigone perché Antigone e Creonte attraverso Sofocle, a loro volta, ci interroghino.
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Anna Beltrametti, Le provocazioni di Antigone e quelle di Creonte. Come e perché tradurle oggi per il pubblico, «Ticontre. Teoria Testo Traduzione», 3, 2015, pp. 13-27.