Con Sette a Tebe di Eschilo Gabriele Vacis conclude una trilogia dedicata al teatro greco, un percorso iniziato con Prometeo (autunno 2022: ne abbiamo parlato qui) e proseguito con Antigone e i suoi fratelli (gennaio 2023), spettacolo a cui abbiamo dedicato due articoli (qui il contributo di Raffaella Viccei sullo ‘spazio tragico’ delle Fonderie Limone). Tutti e tre gli spettacoli sono in cartellone nella stagione 2023/2024 alle Fonderie Limone di Moncalieri.
Sette a Tebe ha intanto inaugurato lo scorso 21 settembre il 76esimo Ciclo di Spettacoli Classici, diretto da Giancarlo Marinelli. La rassegna teatrale vicentina quest’anno s’intitola «Stella meravigliosa» (titolo di un libro dello scrittore giapponese Yukio Mishima), ed è dedicata al tema del «dilemma tra conservazione e annientamento, creazione e distruzione del testo, e non solo».
Vacis mette in campo una compagnia di dodici attrici e attori giovanissimi, tutti tra i 23 e i 26 anni, diplomati alla Scuola del Teatro Stabile di Torino e componenti del gruppo PEM-Potenziali Evocati Multimediali (gli stessi del Prometeo e dell’Antigone), con i quali realizza uno spettacolo di intensa efficacia riscrivendo la vicenda dell’antico mito tebano che tratta l’assalto degli Argivi contro la città di Edipo e della sua stirpe, la serie di duelli tra i campioni dei due eserciti e lo scontro fratricida tra Eteocle e Polinice. La riscrittura è meditata e profonda: in certe parti salvaguarda e valorizza i versi eschilei con totale fedeltà, in altre non si fa scrupolo di inserire segmenti di testo completamente originali e ‘attualizzanti’, ma con uno stile di drammaturgia e di recitazione che rende il tutto omogeneo e credibile. È un modo incredibilmente incisivo per attualizzare un classico come i Sette a Tebe, senza tradire per nulla il senso della tragedia, anzi rivitalizzandola.
Varie sono le modalità sceniche con cui Vacis realizza il suo esperimento artistico. Ne segnaliamo alcune che ci hanno particolarmente colpito. Innanzi tutto, gli attori stanno sulla scena ancor prima che lo spettacolo abbia inizio, provano a luci accese mentre il pubblico entra e prende posto. Ad un certo punto inizia la messinscena vera e propria, ma senza che vi sia un qualche segnale convenuto: questo continuum tra prove e recita determina un effetto di spaesamento che induce a riflettere sul significato della finzione teatrale. Effetto straniante che si rafforza nel fatto che le prime battute non hanno nulla a che fare col testo eschileo, ma sono riflessioni di carattere universale sull’origine della guerra, sul perché la guerra affascini e sulla necessità che l’uomo ha sempre avuto e continua ad avere di crearsi un nemico.
Nella parte più propriamente eschilea non ci sono attori con una parte precisa. Eteocle, il battagliero e autoritario sovrano di Tebe, ad esempio, è interpretato da due diversi attori, uno accanto all’altro, a indicare una specie di sdoppiamento della personalità. Il popolo tebano – sei donne e sei uomini, tutti senza maschere e in vesti nere – rimane a lungo seduto fin quando il messaggero annuncia l’arrivo imminente dell’assalto nemico. Qui gli attori si scatenano in una danza rituale sfrenata per scacciare dai loro cuori la paura. L’azione scenica è ripetutamente interrotta da brevi monologhi che spingono lo spettatore a riflettere. Quando si presenta il catalogo dei sette eroi argivi e dei corrispondenti avversari tebani, i monologhi diventano excursus sull’origine di moderne armi micidiali, dal fucile Kalashnikov alla pistola Beretta «orgoglio del made in Italy».
Interessante anche la scelta di omettere del tutto il finale del dramma eschileo, sospettato dagli studiosi di essere un’interpolazione successiva e dunque non autentico. Ma la più emozionante delle inserzioni è il momento in cui i giovani attori smettono i panni del personaggio interpretato, si levano le vesti nere del lutto e indossano quelle colorate del loro tempo, impersonando sé stessi. Nessuno di loro ha conosciuto la guerra se non attraverso le narrazioni altrui (nonni, bisnonni, amici), ma ciascuno si sforza d’immaginare cosa significhi avere la famiglia e la casa massacrate dalle bombe. La recitazione di ciascuno, in questa parte, segue un copione per così dire formulare con un incipit che si ripete con variazioni e frasi che iniziano come la seguente: «Sono Pietro, ho 23 anni, e non ho mai tenuto in mano un’arma da fuoco in vita mia».
Il duello fratricida in cui Eteocle e Polinice trovano la morte reciproca viene esibito in scena con una paradossale contesa in cui i due nemici si colpiscono tirando e facendo scattare delle lunghissime corde elastiche. Ma soprattutto in questa versione del dramma di Eschilo diviene protagonista il popolo di Tebe, non solo le giovani donne della polis che nell’originale formano il coro, ma l’intera popolazione che, esterrefatta e spaventata, assiste e commenta quello che accade, determinando lo svolgersi degli eventi. È l’opinione pubblica, per così dire, che agisce e recepisce le fasi della guerra in modo completamente diverso a seconda dei ruoli: quasi un gioco per i maschi, un evento dilaniante e drammatico per le donne. Vacis segue (e cita) James Hillman, psicoanalista e filosofo americano, autore del libro Un terribile amore per la guerra, in cui pone la questione appunto se sia possibile amare la guerra e analizza i conflitti interiori che ogni evento bellico scatena. Inutile dire che l’attualità della guerra in Ucraina è una presenza costante, anche se l’adattamento di Vacis evita accuratamente riferimenti puntuali e diretti.
Per il regista torinese e per il suo lavoro sui classici è di primaria importanza l’interazione con le giovani generazioni, che dal suo punto di vista devono essere coinvolte per poter recepire al meglio quello che i drammi dell’antico teatro greco hanno da comunicare. In una recente intervista ha spiegato che «I giovani li si lusinga, ma non li si ascolta, eppure sono loro che indicano la direzione in cui sta andando il mondo. Il sentimento del tragico per loro non corrisponde con la fine di sé, ma con la fine del pianeta». Quanto a Eschilo e al suo teatro, Vacis ha efficacemente riassunto con queste parole la sua posizione sul senso di metterne in scena i drammi oggi: «Noi chiamiamo Eschilo il risultato di 2500 anni di tradizioni e riscritture che non hanno più niente a che vedere con lui. È il frutto pesante, anche entusiasmante, che coglie il significato profondo dei sentimenti. Ma tutto è in trasformazione e questo distillato deve essere aggiornato».