La scala-«monolite» e la città-orchestra di Radu Boruzescu.
La scena dell’Edipo re diretto da Robert Carsen è segnata da una scala dal corpo compatto che allude a un «monolite», ispirato a stilemi dell’architettura brutalista. Tra gli elementi architettonici più arcaici e diffusi, la scala permette di far compiere all’uomo una doppia azione in lui innata e istintiva, salire e scendere, rappresenta valenze simboliche di questi movimenti e, a seconda dei contesti, può assumere svariati significati e funzioni. Con queste consapevolezze e forte dell’idea che la scala sia una struttura polisemica, Radu Boruzescu ha ideato per Edipo re la sua scala-«monolite», collocandola nell’area del teatro di Siracusa che nel V secolo a.C. avrebbe dovuto essere occupata in parte da skene e orchestra. Nella forma della scala lo scenografo invita a vedere «una grande scultura, carica di simboli che sono legati a tutta l’azione di questa tragedia», anche, o in alternativa, «il riflesso della cavea», «il dualismo dei personaggi», «l’elevazione spirituale che essi raggiungono andando verso la conoscenza, verso qualcosa che supera il cielo, la trasfigurazione». Suggerisce poi che la scala di Edipo re possa essere «una geografia […], l’ascesa sociale, simbolo del potere» e, «in senso discendente, la perdita del potere». Questa geografia evocherebbe «il cammino interiore verso il mondo invisibile dell’inconscio, simbolo del percorso della vita» e con questa allusione l’immagine della scala si avvicina a quella definita dalla psicanalisi, freudiana e non solo.
La scala della scena di Edipo come «ascesa e decadenza del potere» entra «in rapporto con la pubblica piazza», che coincide con lo spazio dell’orchestra «dove il coro-popolo», conclude Boruzescu, « diventa la nostra coscienza».
Questi percorsi di lettura sono i principali che la scena dell’Edipo re suscita in uno spettatore. Ognuno li può esplorare con gli occhi del proprio immaginario e della propria cultura, li può attraversare mettendo in gioco il proprio personale mondo delle emozioni. Grazie al lavoro compiuto da Boruzescu e da Carsen, la costruzione di questi percorsi non apre il varco a derive di significati pretestuosi, insensati, fuorvianti – come purtroppo è accaduto e accade nella messa in scena di non poche tragedie greche –, ma crea le condizioni per far comprendere al meglio la reperformance siracusana di Edipo re e per emozionarsi; dà allo spettatore strumenti che gli permettono di trovare altre associazioni e significati all’interno di una strada sensata.
In uno spettatore che è anche archeologo classico, vedere la particolare scala di Boruzescu nel teatro di Siracusa fa nascere anzitutto una associazione con il theatron (qui nell’accezione di luogo dove siede il pubblico per guardare lo spettacolo). Questo collegamento, che è uno di quelli pensati da Boruzescu (scala come cavea), si precisa nella mente del medesimo spettatore per la forte analogia tra la scala in scena e la parte centrale del theatron rettangolare/trapezoidale dei teatri dell’Attica di VI-V secolo a.C. (a Thorikos, Trachones, Ikaria, ad esempio) e della sua capitale Atene, ma anche di teatri in Sicilia, a Siracusa e non solo. Dunque la scena di Edipo re prende forma (anche) dal ‘vedere’, e da un ‘vedere’ greco, arcaico e classico.
La scala, con i suoi gradini, è il grado zero dell’architettura teatrale, o meglio di quella sua parte destinata alla visione dello spettacolo. In una tragedia come Edipo re, in cui vedere e non vedere sono azioni centrali, la scelta di Carsen e Boruzescu significa dichiarare anche attraverso il lessico dello spazio la centralità della visione e della sua tragica parabola, narrata e vissuta attraverso moti ascendenti e discendenti.
La scala poggia su una creazione scenica altrettanto parlante: lo spazio a semicerchio oltrepassato dell’orchestra, nel quale la scala ha la sua origine e la sua fine e con il quale vive un rapporto di corrispondenze e antinomie. Il liscio e bianco piano semicircolare è disseminato di piccoli quadrati che hanno funzioni pratiche. La loro superficie è una grata. Non appena il Coro fa il suo primo ingresso in scena, seguito poco dopo da Edipo (Giuseppe Sartori), dalle grate esce fumo di incenso dolciastro. Carsen prepara l’entrata del re di Tebe attraverso la creazione di uno spazio plurimo, che è insieme olfattivo, visivo, sonoro, performando così proletticamente quello che Edipo rappresenterà con le sue prime parole: «Figli, stirpe nuova dell’antico Cadmo, perché sedete qui, incoronati coi rami dei supplici? La città è piena di incensi, di peani e di lamenti» (Soph. Oed. T. 1-5).
I piccoli quadrati possono avere un altro ruolo pratico, di guida per movimenti e posizionamenti degli ottanta elementi del Coro, e un significato simbolico: essi sembrano infatti comporre, anche per la disposizione, le case di una scacchiera. La partita che il destino gioca con il re Edipo ricalca schopenhauerianamente il gioco degli scacchi: il noto finale è lo scacco matto al re, che non può sottrarsi al suo destino.
Come un deus ex machina Edipo fa la sua prima apparizione dall’alto della scala-‘skene’, e in effetti è da laico deus ex machina, da risolutore del nodo tragico che stringe mortalmente la città di Tebe, che Edipo viene invocato dal Sacerdote di Zeus nel prologo («siamo qui a supplicarti, non perché ti crediamo pari a un dio, ma perché tu, per noi, sei il primo fra gli uomini, nei casi della vita e nei rapporti con gli dèi […] Edipo, tu che sei per tutti il signore più potente, noi tutti ti preghiamo, ti supplichiamo: trova un aiuto per noi, che venga dalla voce di un dio o da un mortale […] tu che sei il migliore fra i mortali, risolleva la città!», Soph. Oed. T. 31-34, 40-43, 46).
Edipo entra ed esce di scena scendendo e salendo i gradini della scala, compiendo movimenti che, da un lato, sono di premuroso avvicinamento al suo popolo ma anche di inabissamento nella rete del destino, dall’altro, traducono l’ascesa di chi detiene il potere ma anche l’avvicinamento drammatico a quel cielo abitato da dei che lo odiano più di ogni uomo (Soph. Oed. T. 1345-1346). Lo stesso percorso è compiuto da Giocasta (Maddalena Crippa) e da Creonte (Paolo Mazzarelli), ma con altri significati. Nel caso di Giocasta, lo scendere e il salire si legano agli sviluppi del suo ‘mostruoso’ legame con il marito-figlio e sono funzionali a dare forma ai momenti di tensione erotica, alla consapevolezza di essere una donna di fascino e autorevole, in grado di tener testa a uomini di potere (Edipo e Creonte), allo strazio del disvelamento. I percorsi ascensionali e discensionali di Creonte sono invece scanditi soprattutto dalla sua filosofia del potere, resa molto bene da Mazzarelli (II episodio, specie Soph. Oed. T. 583-615): l’andatura sulle scale e poi nell’orchestra, similmente a quella di Edipo-re, è mimetica dell’incedere sicuro che è proprio dell’uomo che ha davvero il Potere, compreso quello dai molti vantaggi di chi non ha alcuna intenzione di «essere re, ma piuttosto fare cose da re» (Soph. Oed. T. 587-588). Creonte lo dice chiaramente pensando alla sua condizione di cognato del re e fratello della regina: «Come potrebbe l’esercizio del governo essere più piacevole di un potere e di un’autorità che vengono senza fatica?» (Soph. Oed. T. 592-593).
Il Coro e altri personaggi come Tiresia (uno splendido Graziano Piazza) o il primo messaggero (Massimo Cimaglia) entrano ed escono di scena dagli accessi laterali alla città-orchestra, che ricalcano l’idea delle parodoi, e vivono soprattutto nell’orchestra ri-performata.
In alcuni momenti della tragedia, gli uomini e le donne del Coro sconfinano sulla scala e i loro corpi, quelli di Edipo, Giocasta, Creonte, proiettano ombre spezzate e incerte per il susseguirsi dei gradini, metafora di una condizione umana che le salite e le discese della vita non permettono di dire felice se non quando tutto è concluso («Perciò, guardando alla fine di Edipo, nessun mortale ritieni felice, prima che varchi il confine della vita senza aver sofferto alcun male», Soph. Oed. T. 1528-1530).
Spazio e corpi.
Tra i numerosi pregi dell’Edipo re di Carsen c’è senza dubbio l’acribia del Coro, guidato in modo magistrale da Marco Berriel che ha saputo tener fede all’intento di «cercare l’essenziale […] concentrarsi sul movimento del coro come se fosse una unità, un ente che si muove, respira e parla come se fosse un sola persona». Parole simili si leggono in molte dichiarazioni di intenti di registi e/o coreografi a proposito dei cori delle tragedie greche, ma non sempre queste promesse vengono mantenute. Berriel, anche grazie a Carsen e alla capacità degli attori del Coro, ha saputo fare di questo ‘corpo’ un organismo vivo, pulsante, necessario per i personaggi in scena e per gli spettatori. L’essenzialità ricercata e realizzata ha la nettezza dei tagli chirurgici, che non possono permettersi cedimenti, ma ha pure l’energia per dare voce e corpo credibili alle irreversibili cesure della tragedia e ai suoi momenti più ‘dionisiaci’.
Il Coro ha piena padronanza del suo spazio elettivo, l’orchestra. In assoluta coerenza con gli sviluppi drammaturgici e in consonanza con l’estetica e i significati della performance, gioca con un’ampia varietà di movimenti, fra cui: lo stare in ginocchio ad ascoltare le prime parole di Edipo; in piedi ad assistere allo scambio di battute fra il re e Creonte; l’alternare l’uno e l’altro movimento, con i corpi rivolti verso il pubblico in doppio semicerchio.
Dello spazio sono sfruttate le infinite potenzialità e questo genera geometrie inattese. Penso in particolare alle file rettilinee dei coreuti posizionate tra la rassicurante linea retta dei gradini della scala e le inquiete dinamiche dei corpi di Tiresia e di Edipo (I episodio) o alla disposizione a croce che si sviluppa su parte della scala e dell’orchestra e che si trasforma poi in due rette parallele. Gli uomini e le donne del Coro, tutti in nero, con il capo velato, quasi immobili nel corpo, affidano a mani e braccia il contrappunto alle parole (II stasimo): una cheironomia eseguita in modo esemplare e in accordo con la ritmica e la musicalità della recitazione, che deve molto anche alla ritmica e musicalità della traduzione.
Terminato lo stasimo, appare di nuovo Giocasta. Forte del suo ruolo e della funzione specifica nell’episodio (III), quella di supplice di Apollo, implorato di liberare Edipo dal tormento, Giocasta fende il Coro, che a sua volta solennizza l’entrata in scena e la preghiera della donna (Soph. Oed. T. 911-923) disponendosi in ginocchio ai suoi lati.
Il subitaneo arrivo da Corinto del primo messaggero è una prima risposta all’invocazione al dio, risposta che darà a Edipo altro tormento, al quale si aggiungerà quello dato dalle parole del servo (Antonello Cossia; IV episodio) che scateneranno il suicidio di Giocasta e l’accecamento di Edipo. Come vogliono leggi non scritte della tragedia greca, spetta al messaggero il racconto della morte, che non avviene in scena ma fuori, in spazi nascosti agli occhi degli spettatori.
Sotto il cielo notturno di Siracusa e con una doppia quinta alle spalle, naturale – degli alberi – e architettonica, il secondo messaggero (Dario Battaglia) inizia a narrare i tragici eventi ai Tebani dall’alto della scala. Nella discesa, lenta per il peso gravoso del racconto, spicca la distanza che separa messaggero e Coro, posizionato ad ascoltare nell’orchestra e poi lungo il semicerchio inferiore delle gradinate, molto vicino al pubblico. In uno dei momenti più bui il Coro si stringe al pubblico quasi per cercare e offrire conforto, per dare e avere la forza di affrontare il dolore.
E per l’ultima volta dall’alto della scala appare Edipo, con gli occhi trafitti e rigati di sangue, nudo, un incedere che non ha più nulla del passo regale ma che è solo caduta e inciampo. La discesa è simbolicamente inabissarsi in un male che è irreparabile, nelle tenebre della disperazione e di una radicale solitudine. La monolitica solidità della scala non dà appigli a questo epilogo del destino.
Edipo esce di scena varcando il confine di Tebe: si spinge fuori dal semicerchio della città-orchestra e il bastone, come quello del cieco Tiresia che aveva visto ogni cosa, è il solo sostegno ai giorni di un uomo «che conosceva gli enigmi», dell’«uomo più potente», ma che «ora è travolto dall’onda imponente della sventura» (Soph. Oed. T. 1524-1525, 1527). Il corpo di Edipo è la mappa di questa catastrofe.
Percorre con passi incerti e piegati dal destino un’altra scala, una delle klimakes del teatro di Siracusa che lo porta simbolicamente in un’altra città, abitata dal ‘popolo del teatro’.
Spazio, oggetti, costumi.
Il contagio marca i volti dei cittadini di Tebe, che fanno la prima entrata in scena indossando un oggetto tristemente familiare per i cittadini di quasi tutto il mondo da due anni a questa parte, uno dei principali strumenti-schermo al propagarsi del Covid. L’adozione della mascherina per comunicare visivamente lo stato di ‘contagio’ prima che le parole di Sofocle lo raccontino contribuisce a mettere in moto negli spettatori quel meccanismo proprio delle dinamiche della compassione e consolazione che si riassumono nel motivo del non tibi hoc soli.
Abiti neri vengono portati in processione da braccia tese e mani imploranti di uomini e donne che entrano al seguito del Sacerdote di Zeus in una Tebe sulla quale «il dio che porta il fuoco è piombato […] e infuria come peste orrenda» (Soph. Oed. T. 27-28). Gli abiti vuoti dei corpi e con i lembi che cadono giù dalle braccia dei supplici sembrano disegnare i contorni dei corpi alati di neri corvi e avvoltoi pronti a nutrirsi dei corpi dei Tebani senza vita.
Abbandonati sulla terra della città-orchestra, questi abiti materializzano la morte inarrestabile perché nata da contagio: altre donne e altri uomini luttuosi portano altri abiti neri e li adagiano su quelli già deposti, creando accumuli che ricordano, anche per l’assenza di colori, l’ammasso di morti in Enterrar y callar (Seppellire e tacere) di Goya.
Presi poi dal Coro, gli abiti vengono riuniti al centro della città-orchestra formando un centro nel centro, un ombelico funereo che fa pensare all’omphalos di Delfi (evocato anche in Soph. Oed. T. 480-481; 897-898), centro del mondo simbolo dell’oracolo di Apollo che ha segnato di nero il destino di Edipo.
Questo spazio nello spazio viene occupato da Tiresia (I episodio), da colui che è in contatto diretto con Apollo e che marca anche con la voce e il modo di parlare la sua diversità dagli altri uomini: ha una voce cavernosa e che sembra arrivare da lontano; parla con andamento solenne e lento, poi con sdegno e alla fine, quando rivela cripticamente la verità a Edipo, la voce e il parlare mutano radicalmente sotto la spinta del furore divinatorio (Soph. Oed. T. 447-462).
Tiresia entra nel nero mucchio stabilendo una relazione diretta con la ragione prima per cui è in scena, la realtà di morte che affligge Tebe e la richiesta, da parte del re e del popolo, della sua visione («Sappiamo che quello che vede Apollo signore anche Tiresia lo vede: interrogandolo su questi fatti, si potrebbe sapere con chiarezza», Soph. Oed. T. 284-286). Il suo stare al centro di quel punto dello spazio, che – si è detto – è leggibile anche come l’omphalos delfico, dà evidenza al legame privilegiato di Tiresia con Apollo ma anche al tremendo oracolo su Edipo. Con il lungo bastone Tiresia ridisegna il cerchio nero e lo scompagina. La sua gestualità rituale è per alcuni aspetti vicina, anche per i significati, a quella della protagonista della performance di rito, mistero, predizione in Domani di Romeo Castellucci. Quando Tiresia si scontra con Edipo il suo bastone diventa anche altro: da «oggetto sacro» che «indica la via, […] la direzione per un possibile domani», che «dà vaticini» (Fornaro, Domani), il bastone si fa anche strumento d’accusa, un’arma puntata contro Edipo («Io dico che sei tu l’assassino che cerchi», Soph. Oed. T. 362).
Simili a neri uccelli rapaci, uomini e donne del Coro si avventano sugli abiti del cerchio e li sbattono contro terra, li agitano con movimenti vorticosi mentre scandiscono con energia le parole del primo stasimo, fin dall’attacco: «Chi è l’uomo che la voce del dio, la pietra di Delfi, ha accusato di aver commesso con le mani sporche di sangue fra gli atti indicibili l’atto più indicibile?» (Soph. Oed. T. 463-465). Una scena dall’estetica dionisiaca. Come presi da una forza centrifuga si allontanano poi dal centro dell’orchestra e si dispongono in semicerchio al di là del suo bordo, più vicini agli spettatori delle gradinate inferiori mentre concludono lo stasimo.
Abbiamo ricordato l’arrivo del servo di Laio, portatore di rivelazioni deflagranti (IV episodio). Nella scena che lo vede protagonista, viene rovesciato a terra, da una coppa, del vino rosso. In questo contesto e secondo un certo linguaggio delle immagini, la macchia rossa e il vaso rovesciato sono segni di sinistro capovolgimento. Il rosso sul piano dell’orchestra-città può essere inteso come segno dell’originario inverarsi della profezia di Apollo – il sanguinoso assassinio di Laio da parte del figlio – e come prefigurazione del sangue dell’imminente accecamento di Edipo (Soph. Oed. T. 1182-1185; 1268-1279).
Di questo racconterà il secondo messaggero (Esodo), dopo aver narrato la morte di Giocasta.
Il messaggero entra in scena riprendendo il gesto con cui era entrato il Coro nel Prologo, tenere fra le braccia abiti senza corpi: l’abito, nell’Esodo, è bianco; è un cenotafio di Giocasta. Il costume acquista un significato ancora più tragico quando viene indossato da Edipo, accecato e insanguinato. Tornare simbolicamente nel corpo senza corpo della madre, nel punto dove tutto è iniziato, e dove il destino aveva già scritto strade di morte e sangue e un domani senza luce per una prole mostruosa, «seminat[a] nello stesso solco da cui nacque» il padre (Soph. Oed. T. 1485).
Note
Le citazioni di Radu Boruzescu sono tratte dal suo contributo, Un monolite carico di simboli, quelle di Marco Berriel da La magia delle pietre, in AAVV, Sofocle. Edipo re. Regia Robert Carsen, INDA, Siracusa 2022, rispettivamente p. 25, p. 36.
Sulla scena di Edipo re si veda anche la parte relativa in Visioni. Teatro greco di Siracusa 2022, Rai 5 https://www.raiplay.it/video/2022/06/Visioni---Festival-Teatro-Greco-Siracusa-2022-8f308ede-6354-44b0-8bee-c616cee8c70d.html. Su rayplai è possibile anche rivedere la tragedia.
La traduzione dei versi citati di Edipo re è di Francesco Morosi, Edipo re di Sofocle. Traduzione, in AAVV, Sofocle. Edipo re. Regia Robert Carsen, INDA, Siracusa 2022, pp. 74-115.
Per dare maggiore evidenza alla semantica del ‘vedere’ e della ‘visione’, ho preferito la parola theatron (dal greco theaomai, guardo), che solo in un secondo momento viene a indicare l’intero edificio teatrale. Solitamente per indicare la parte del teatro dove siede il pubblico e segue lo spettacolo il termine usato è koilon (insieme di gradinate, scalette – klimakes – e, quando presente, diazoma – corridoio che divide orizzontalmente il koilon –).
Non è questa la sede per entrare nel merito della complessa questione delle architetture teatrali di VI-V secolo a.C.. Segnalo comunque il volume R. Frederiksen, E. R. Gebhard, A. Sokolicek (eds.), The Architecture of the Ancient Greek Theatre, Aarhus University Press, Aarhus 2015 e i tre volumi di H. P. Isler, Antike Theaterbauten. Ein Handbuch, Verlag der Österreichischen Akademie der Wissenschaften, Wien 2017, da consultare per le parti relative al tema qui accennato.
Sullo spazio sonoro dell’Edipo re di Robert Carsen rinvio a quanto detto da Giuseppe Sartori in Edipo a Siracusa: conversazione con Giuseppe Sartori : https://www.visionideltragico.it/blog/protagonisti/edipo-a-siracusa-conversazione-con-giuseppe-sartori.
Sul motivo del non tibi hoc soli vorrei segnalare il bell’articolo di Maria Pia Pattoni, L’exemplum mitico consolatorio: variazioni di un “topos” nella tragedia greca, «Studi Classici e Orientali» XXXVIII, 1989, pp. 229-262.
I costumi di Edipo re sono di Louis F. Carvalho, che ne ha parlato in Un suggestivo mondo senza tempo, in AAVV, Sofocle. Edipo re. Regia Robert Carsen, INDA, Siracusa 2022, p. 29.
Immagini
Il disegno del Teatro di Dioniso I ad Atene (ipotesi ricostruttiva) è tratto dall’articolo di Christina Papastamati-von Mook, The Wooden Theatre of Dionysos Eleuthereus in Athens, in R. Frederiksen, E. R. Gebhard, A. Sokolicek (eds.), The Architecture of the Ancient Greek Theatre, Aarhus University Press, Aarhus 2015, pp. 39-79: p. 71, fig. 18.
L’acquaforte Enterrar y callar (Seppellire e tacere) di Francisco Goya, tavola XVIII de Los desastres de la guerra, è qui riprodotta in un esemplare del 1903, tratto da https://www.gonnelli.it/it/asta-0023-1/goya-y-lucientes-francisco-enterrar-y-callar-.asp.
Crediti fotografici: Maria Pia Ballarino, Tommaso Le Pera, Michele Pantano (https://www.indafondazione.org/edipo-re-sofocle-2022/).