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Questo blog, come abbiamo già scritto, si attiene a un'idea antica del teatro come luogo fisico e metaforico di incontro, dibattito, conflitto, agone, senza limite alcuno alle posizioni degli antagonisti, ai temi, alle competenze che si mettono in gioco. Per questo oggi, in prima persona, affronto un problema che mi riguarda da vicino, ma che è molto più generale, e a cui perciò abbiamo posto il titolo: l’Università che vogliamo. Sottotitolo: lettera aperta ai candidati alla carica di Rettore nel mio Ateneo. 

Sono professore associato in una Università che si avvia ad eleggere il suo nuovo Rettore.

Necessariamente rallentata dall’emergenza sanitaria, le prime battute della campagna elettorale non promettono niente di buono: i giornali locali parlano già di ‘candidati del Rettore uscente’, di ‘candidati del sindaco’, 'fronte di oppositori' al Rettore uscente,  e si paventa la presenza di mondi a me, e alla maggior parte di chi mi legge, oscuri, come quello della massoneria (“Unione Sarda”, 19 maggio 2020).

In una città di provincia e isolana, come quella in cui mi trovo da più di vent’anni a lavorare e vivere, si tratta certo anche di movimentare un ambiente tranquillo e di distrarre dallo choc del Corona virus. Ma se si pensa che l’elezione del Rettore decide, in fin dei conti, del futuro, prossimo e non solo, dell’istituzione formativa più importante del territorio, argomenti del genere assumono una luce diversa.

A mio parere, anche in questa campagna elettorale, come nelle altre, si ripropone la questione universale di cosa sia il potere legato ad una importante carica al vertice di una comunità, di quali siano i suoi limiti e i suoi obblighi, di quali siano le sue deviazioni e i pericoli connessi alla hybris del potere: insomma, i temi nevralgici della tragedia greca.

L’Università non è un’istituzione politica, anche se in essa si può fare politica, e anche se in essa le istituzioni politiche (Comuni, Regioni, Stato) svolgono un ruolo economicamente decisivo.

Tuttavia, l’Università resta, in un paese libero e democratico, un’istituzione di studio, di ricerca, di esercizio al pensiero critico; resta l’istituzione dove si deve formare il futuro di generazioni, che devono essere pronte ad affrontare sfide globali, non essendo più possibile restare ancorati solo al proprio territorio; resta l’istituzione dove acquisire ‘merito’ significa ricevere  conoscenze e competenze che possano azzerare le sperequazioni sociali; resta l’istituzione dove non si deve creare consenso, ma al contrario si deve educare alla discussione critica di ogni aspetto della realtà e su ogni fenomeno; resta la sola istituzione dove si può e si deve esercitare la ricerca (ossia l’indagine libera e non finalizzata a obiettivi imposti) e la sperimentazione.

Non sto parlando dell’università del passato, né mi attengo a modelli storici con i quali, per mestiere, mi sono confrontata. Sto parlando, invece, di un’Università situata in una piccola città isolana nel XXI secolo, che non può e non deve restare nel guscio rassicurante del proprio territorio, per quanto abbia il dovere di tutelarlo nei suoi beni culturali materiali e immateriali, ma deve essere in grado di aprirsi al mondo.

Di tutto questo, sinora, nella pre-campagna elettorale della mia Università, non c’è traccia. Forse è troppo presto, ma spiace che alcuni candidati rettorali siano presentati dalla stampa, spero loro malgrado, come gli uomini di qualcuno o qualcosa. Della loro attività scientifica, che sostanzia il loro ruolo di professore universitario, non c’è una parola. Si acuiscono, invece, polemiche basate su errori e disastrose scelte di tipo amministrativo, gravissime, certo, e già all'attenzione delle Procure. Si dà per scontato che i candidati mostrino probità e rispetto delle norme e della legislazione; in caso contrario, con le prove che abbiano già agito male, speriamo che ci sia chi li induca a ritirare subito la candidatura. Ma una campagna per l'elezione del Rettore dovrebbe iniziare in altra maniera, altrimenti è un salto nel buio. 

La propaganda battente sull’Università come azienda, con tutte le sue contraddizioni, ci ha fatto perdere di vista che l’obiettivo unico, quello che, chi fa il mio mestiere, deve perseguire rispetto alla società e anche rispetto alla propria coscienza, è la formazione di saperi critici, fondati su solide conoscenze e non su approssimazioni, per la quale è necessaria un’interazione costante tra studenti e docenti, ma soprattutto tra i docenti. Perciò è doveroso che i docenti mostrino al mondo intero cosa sono capaci di fare e di ideare, per poterlo mettere a disposizione degli altri e anche in discussione.

L’asservimento al criterio di produttività, computata in cifre non sempre elaborate su attendibili basi statistiche, sembra aver obnubilato le nostre capacità progettuali e anche quel che dobbiamo chiedere ai nostri rappresentanti istituzionali, come i Rettori. Dobbiamo chiedere un ambiente di lavoro in cui la competitività non sia un disvalore, ma al contrario sia un incentivo alla scoperta di contenuti nuovi e originali in campo mondiale, non più territoriale e nazionale. Per creare questo ambiente di lavoro sono necessari certo finanziamenti, ma non solo.

Il presupposto fondamentale di una tale idea di Università è che essa resti fedele alle sue radici più feconde e ideali: ossia di comunità in cui si discute, anche animatamente, di scienza, ove ‘scienza’ non è un’etichetta solo per le scienze della natura e le cosiddette ‘scienze dure’, ma definisce ogni sapere che si sviluppi e che sia oggetto di ricerca. Tutti i docenti, tutti i ricercatori e tutti gli studenti, di ogni grado, fanno parte di questa comunità. Se la richiesta oggi appare più complessa, è perché complesso è il mondo in cui viviamo e sempre più complesse sono le sfide che dobbiamo affrontare: eppure proprio le tecnologie ci danno la possibilità di annullare le distanze e di avere informazioni che un tempo era difficilissimo reperire in tempo reale.

Qualsiasi altra idea di Università è vecchia e superata e ha già rivelato le sue crepe e i suoi abissali difetti, e la propensione a cadere troppo  facilmente nelle maglie della corruzione, del clientelismo, del provincialismo.

Un’Università che formi professionisti nel senso deteriore di tecnici, che non hanno gli strumenti linguistici, storici, filosofici per concepire nuove idee, non è un’Università.

Un’Università, come la mia, che cancella Letteratura greca dai suoi corsi di studio perché ‘improduttiva’, mentre da più parti ci si rivolge alla letteratura e alla cultura greca in cerca di punti di riferimento comparativi per affrontare e capire il presente, non è un’Università.

E i soldi pubblici che le sono destinati sono molto mal impiegati.

Ci chiedono, dopo questa emergenza, di cominciare tutto daccapo: bene, cominciamo da noi.