Nei giorni in cui l’Italia e l’Europa sono schiacciate nella morsa dell’epidemia di Covid-19 alcuni articoli di giornale e siti in rete hanno rievocato la peste di Atene del 430 a.C., quella descritta da Tucidide in memorabili paragrafi della Storia del Peloponneso, per la quale morirono migliaia di ateniesi tra cui anche Pericle[1]. Non poteva essere diversamente. Il resoconto tucidideo è il grande archetipo storico-letterario di tutte le pesti, vere e fittizie, che sono seguite nel corso dei secoli.
Quella descrizione magistrale ha influenzato storici, poeti e romanzieri fino ad oggi, anche se non è la prima “peste” che si conosca. In fondo, a pensarci bene, il primo testo della letteratura greca antica inizia con un flagello pestilenziale, con un λοιμός: quello che il dio Apollo scatena con le sue frecce contro l’esercito acheo nel primo libro dell’Iliade (vv. 43-52). È inevitabile che nelle desolanti giornate del marzo 2020 si torni a meditare le pagine di Tucidide e a rintracciare parallelismi con la situazione attuale.
Le analogie sono molteplici e inquietanti. La prima è l’origine remota del morbo che Tucidide individua nell’Etiopia (la Wuhan di 2500 anni fa), da dove si sarebbe diffuso attraverso la Libia e l’Egitto fino all’Attica. Le cause precise della malattia restarono oscure con l’accavallarsi di ipotesi più o meno plausibili: tra queste il sospetto che i nemici spartani si fossero adoperati volutamente per diffondere il contagio infettando i pozzi del Pireo (una notizia fasulla, una bufala, forse paragonabile a quella della produzione del Covid-19 in un laboratorio cinese).
Impressionanti le annotazioni di Tucidide sull’insipienza dei medici costretti a fronteggiare un morbo ignoto che si presentava per la prima volta. Anzi, a causa della loro prossimità con i contagiati – altra inquietante analogia con la situazione presente – i dottori erano tra i primi a contrarre l’infezione e morire («nulla potevano i medici, che si trovavano a curarlo per la prima volta» II 47, 4)[2]. Per la medicina ippocratica fu una disfatta clamorosa e umiliante che obbligò ad un ripensamento globale di metodi e terapie.
Tucidide descrive con precisione i sintomi più frequenti e il decorso del morbo con anche un’attenzione speciale per i risvolti psicologici e sociali dell’epidemia: scoramento, senso di abbandono, disperazione, incuria e disprezzo delle norme («nell’infuriare dell’epidemia gli uomini, non sapendo cosa ne sarebbe stato di loro, divennero indifferenti alle leggi sacre come pure a quelle profane», II 52, 3[3]; «La paura degli dei o le leggi umane non rappresentavano più un freno», II 53, 4)[4]. Ma c’è un punto della ricostruzione tucididea su cui mi preme insistere, un aspetto che mi ha sempre molto colpito perché coglie un nocciolo di assoluta verità e mette a nudo, più di altri, il senso d’impotenza che la crisi da pandemia può suscitare. Abbiamo visto in questo tristissimo marzo 2020 le immagini dei mezzi militari che di notte trasportano salme fuori dalla città di Bergamo. Fa molta impressione constatare come le pagine dei necrologi di quotidiani locali come «Il Giornale di Brescia» e «L’Eco di Bergamo» siano cresciute di 6-7 volte rispetto a prima. Molti anziani, ma anche non anziani, muoiono da soli in casa o in ospedale, abbandonati a sé stessi, senza il conforto di un parente o un amico che vegli tenendo la mano nell’agonia finale. I cimiteri della Lombardia sono saturi; i funerali si celebrano a ritmo continuo, uno dopo l’altro, come in un’infernale catena di montaggio che spersonalizza la cerimonia. Le imprese funebri in molti casi non hanno bare a sufficienza e fanno fatica a star dietro all’incalzare delle richieste. Le cronache raccontano che, date le circostanze d’emergenza, i corpi dei deceduti vengono avvolti così come si trovano in un lenzuolo imbevuto di disinfettante; si rinuncia al tradizionale rito della vestizione. Del resto ai familiari è per lo più preclusa la possibilità di assistere alla chiusura della bara e alla tumulazione.
Che l’epidemia tolga anche la dignità nella morte lo sapeva bene Tucidide che dedica alcune righe colme di pathos a questa terrificante conseguenza del morbo (II, 52, 4):
Tutte le consuetudini seguite in passato per le esequie furono sconvolte; ciascuno provvedeva alla sepoltura come poteva. Molti, mancando del necessario poiché avevano già avuto molti morti, compivano l’opera di sepoltura in modo vergognoso, utilizzando pire che già erano state innalzate per altri cadaveri: alcuni prevenivano chi aveva provveduto ad accatastare la legna e, deposto sulla pira il proprio morto, subito appiccava il fuoco, altri invece gettavano su una pira – mentre già vi ardeva un altro cadavere – il corpo che avevano portato e se ne andavano[5].
Il diritto violato di ricevere un taphos normale è l’ultimo oltraggio che la violenza del morbo può produrre su chi ha avuto la sfortuna di ammalarsi. L’epidemia è un Creonte che si arroga il diritto di cancellare quello che si dovrebbe perfino al nemico. L’immagine tucididea delle sepolture “vergognose”, compiute sulle pire rubate ad altri, ha trovato nei versi che chiudono il poema di Lucrezio una ripresa se possibile ancora più apocalittica e angosciosa, con scene di rissa cruenta tra opposte famiglie che si contendono la possibilità di utilizzare un rogo per deporvi il proprio caro[6].
Due considerazioni in conclusione. La prima: Tucidide, testimone autoptico della “peste” ateniese dalla quale era uscito indenne dopo aver contratto il contagio in forma lieve ed esserne diventato immune, inserisce la sua ricostruzione storica in una esplicita prospettiva teorico-didascalica. Fedele al principio programmatico per cui le leggi del comportamento umano sono naturali e immutabili e conseguentemente la ricostruzione storica si offre al lettore come acquisizione permanente (κτῆμά τε ἐς αἰεὶ, I 22, 4), lo storico è convinto che l’esperienza traumatica vissuta e in particolare la conoscenza dei caratteri dell’epidemia serviranno in futuro per prevenire o almeno riconoscere subito e contenere il male al momento del suo insorgere. Così si esprime Tucidide (II 48, 3):
Per conto mio, mi limiterò a descrivere il modo in cui il morbo si manifestava e i sintomi che vanno osservati, qualora scoppi una nuova epidemia, per poterlo riconoscere tempestivamente, avendone una qualche esperienza; questo riferirò, dopo essere stati colpito io stesso dal morbo, e aver visto io stesso altri soffrirne[7].
Parole di buon senso, perfino banali all’apparenza. Ma se pensiamo al modo superficiale in cui gli esecutivi dei paesi occidentali hanno gestito la questione coronavirus, a quanto abbiano cercato di sminuire la portata del pericolo e aspettato troppo a lungo prima di prendere misure rigorose per limitare il contatto sociale, alla sicumera con cui hanno immaginato che mai e poi mai il male avrebbe infierito in casa propria, salvo poi rimangiarsi tali avventate dichiarazioni, se pensiamo a questo, possiamo tranquillamente dire che la raccomandazione tucididea è rimasta disattesa. Completamente.
La seconda: i paragrafi di Tucidide sulla peste (47-54 del secondo libro) sono collocati immediatamente dopo la conclusione dell’epitaphios logos di Pericle, il discorso con cui furono celebrati i caduti ateniesi nel primo anno della guerra. Non è una collocazione casuale, né dettata dalla pura coincidenza della sequenza temporale. In quel discorso che lo storico ricostruisce rispettandone se non le parole precise certamente il senso generale, è contenuta una celebrazione ideologica del sistema politico ateniese. E nel momento in cui Atene esalta la propria forza morale e spirituale, la propria superiorità militare e culturale, subito precipita nell’inferno dell’epidemia che ne decima la popolazione e ne sconvolge le abitudini di vita. Tucidide suggerisce un tipico paradigma tragico: il compiersi della parabola per cui da una condizione di fortuna e felicità si precipita repentinamente in una di disgrazia. È la peste a segnare il rovesciamento della sorte e forse tra le righe si può scorgere il monito critico dello storico alla propria città e alla sua fragile prosperità. Anche su questo Tucidide ci dà molto da riflettere.
Gherardo Ugolini è professore di Filologia classica all'Università di Verona (https://it.wikipedia.org/wiki/Gherardo_Ugolini) e componente del nostro gruppo di ricerca "Visioni del tragico. La tragedia greca sulla scena italiana dal 2001 ad oggi".
[1] Si veda in particolare G. Ieranò, Il morbo della ragione, «IL - Il Maschile de Il Sole 24 ORE», 24.2.2020 (https://24ilmagazine.ilsole24ore.com/2020/02/il-morbo-della-ragione/); M. Ricucci, Il coronavirus ai tempi di Atene. La lezione di Tucidide, «Corriere della Sera», 12.3.2020 (https://www.corriere.it/scuola/secondaria/20_marzo_12/coronavirus-tempi-atene-lezione-tucidide-e5d2c41c-643e-11ea-90f7-c3419f46e6a5.shtml). Cfr. anche la recensione di M. Bonazzi al libro di Paolo Giordano, Noi nell’età dell’incertezza, Corriere della Sera», 26.3.2020.
[2] οὔτε γὰρ ἰατροὶ ἤρκουν τὸ πρῶτον θεραπεύοντες ἀγνοίᾳ, ἀλλ’ αὐτοὶ μάλιστα ἔθνῃσκον ὅσῳ καὶ μάλιστα προσῇσαν. Cito la traduzione di Mariella Cagnetta, in Tucidide, La guerra del Peloponneso, a cura di L. Canfora, Einaudi-Gallimard, Torino 1996.
[3] ὑπερβιαζομένου γὰρ τοῦ κακοῦ οἱ ἄνθρωποι, οὐκ ἔχοντες ὅτι γένωνται, ἐς ὀλιγωρίαν ἐτράποντο καὶ ἱερῶν καὶ ὁσίων ὁμοίως.
[4] θεῶν δὲ φόβος ἢ ἀνθρώπων νόμος οὐδεὶς ἀπεῖργε.
[5] Νόμοι τε πάντες ξυνεταράχθησαν οἷς ἐχρῶντο πρότερον περὶ τὰς ταφάς, ἔθαπτον δὲ ὡς ἕκαστος ἐδύνατο. καὶ πολλοὶ ἐς ἀναισχύντους θήκας ἐτράποντο σπάνει τῶν ἐπιτηδείων διὰ τὸ συχνοὺς ἤδη προτεθνάναι σφίσιν· ἐπὶ πυρὰς γὰρ ἀλλοτρίας φθάσαντες τοὺς νήσαντας οἱ μὲν ἐπιθέντες τὸν ἑαυτῶν νεκρὸν ὑφῆπτον, οἱ δὲ καιομένου ἄλλου ἐπιβαλόντες ἄνωθεν ὃν φέροιεν ἀπῇσαν.
[6] Cfr. Lucrezio, De rerum natura, VI 1282-1286: «Multaque <res> subita et paupertas horrida suasit. / Namque suos consanguineos aliena rogorum / insuper extructa ingenti clamore locabant / subdebantque faces, multo cum sanguine saepe / rixantes, potius quam corpora desererentur» («La miseria e l’evento improvviso indussero a orribili cose. / Con alto clamore ponevano i loro congiunti / sulle grandi cataste erette per il rogo di altri, / appicandovi il fuoco e spesso lottando fra loro / in zuffe cruente piuttosto che abbandonare i cadaveri». Trad. di Luca Canali).
[7] ἐγὼ δὲ οἷόν τε ἐγίγνετο λέξω, καὶ ἀφ’ ὧν ἄν τις σκοπῶν, εἴ ποτε καὶ αὖθις ἐπιπέσοι, μάλιστ’ ἂν ἔχοι τι προειδὼς μὴ ἀγνοεῖν, ταῦτα δηλώσω αὐτός τε νοσήσας καὶ αὐτὸς ἰδὼν ἄλλους πάσχοντας.