default_mobilelogo

Newsletter

Vuoi ricevere una notifica quando sono disponibili nuovi contenuti sul nostro blog? clicca qui

Il rapporto tra scienza e società e degli scienziati con il potere non ha mai riscosso, almeno fino al momento della crisi da epidemia virale, particolare interesse. È la stessa scienza, in generale, che è stata relegata ai margini degli spazi culturali e ristretta nell’ambito delle materie da specialisti. Le motivazioni sono diverse e nonostante l’Italia sia il paese dove la scienza è nata probabilmente una vera cultura scientifica non si è mai diffusa.

La stessa parola scienziato, viene comunemente utilizzata non tanto per definire chi ha fatto della scienza il proprio lavoro, ma piuttosto una persona eccentrica e dedita a studi poco comprensibili. Se uno vale uno, lo scienziato non ha alcuna possibilità di far ascoltare la sua voce, poiché l’opinione di chiunque, ancorché non suffragata dall’evidenza dei fatti vale allo stesso modo. C’è un’espressione che recentemente è diventata piuttosto popolare, ossia che “la scienza non è democratica”. Non è infatti la maggioranza che decide ma l’evidenza sperimentale. Tuttavia, la scienza non è neanche una clava che può essere usata a piacimento per tacitare il cittadino che non se ne occupa in modo professionale e ha però il diritto di comprendere ed essere informato. 

Come conseguenza gli scienziati tendono a parlare solo con i propri pari, cercando sporadicamente di comunicare alla società i risultati dei propri studi. La diffusione dei social media ha amplificato queste difficoltà, la diffusione di false informazioni ha facilmente la meglio sulla flebile voce dello scienziato, sempre in minoranza e poco in grado di competere con il linguaggio spesso partigiano ed esacerbato dei social. Cercare di spiegare che curarsi con l’omeopatia o la medicina tradizionale cinese, non è solo inutile ma anche pericoloso rischia di esporre il malcapitato di turno a probabili invettive da parte dei fedeli delle nuove superstizioni che non ammettono di poter essere contraddetti. Meglio rinunciare, anche se questo può lasciare libero spazio alle teorie più strampalate.

La ricerca scientifica si basa sugli esperimenti, la loro interpretazione, la valutazione degli errori sperimentali e la costruzione di una teoria coerente conseguente. Che resterà valida almeno fino a che non sarà falsificata da altri esperimenti o altre interpretazioni consistenti con i dati. È un processo faticoso e complesso.

È comprensibile che di fronte al tedio di progettare con grande cura gli esperimenti cercando di evitare le trappole degli errori sistematici, l’analisi e interpretazione dei dati, si possa essere presi dallo sconforto e forse cercare scorciatoie. Nei momenti di crisi la società richiede alla scienza risposte precise e immediate. Purtroppo, il metodo scientifico che si basa sull’acquisizione di dati e sulla loro validazione richiede tempi lunghi.

Tra gli scienziati si fa spesso la battuta, sai quali sono i tempi della ricerca? Sono tre, lento molto, lento e lentissimo. Ogni scorciatoia, ogni mancata scrupolosa verifica degli esperimenti e la loro ripetizione può portare al disastro. Abbiamo avuto vari esempi. Nel 2011 veniva annunciata da un gruppo di ricercatori italiani una scoperta sensazionale destinata a ribaltare profondamente la nostra conoscenza scientifica, ossia che i neutrini viaggiano ad una velocità superiore a quella della luce. La teoria della relatività poteva andare in pensione. Peccato che il banale malfunzionamento di una presa di corrente avesse inficiato la raccolta dei dati sperimentali. Al danno si è aggiunta poi la beffa quando il ministero della ricerca e università ha pensato di cavalcare il successo dell’esperimento comunicando che tale fantastica scoperta era stata possibile grazie al tunnel scavato da Ginevra al Gran Sasso.

La fretta di pubblicare i dati che avrebbero portato a gloria imperitura ha giocato un bruttissimo scherzo proprio a chi avrebbe dovuto fare del dubbio e dell’analisi critica uno strumento imprescindibile.

Gli scienziati tuttavia sono ovviamente persone normali, anzi per certi versi più deboli e indifese perché abituate a vivere in un ambiente protetto, all’interno dei laboratori di ricerca, a volte con una visione segmentale e autoreferenziale del mondo. Improvvisamente però il mondo esterno presenta il conto e chiede agli scienziati le risposte certe e immediate che non sono in grado di dare. Dovrebbero infatti essere capaci di comunicare la complessità e il dubbio, ma il tempo non c’è e servirebbe l’umiltà di saper dire in pubblico, non sappiamo.

Sapere di non sapere è un principio, come Socrate ci ha insegnato, sul quale costruire il fondamento della conoscenza.

La conseguenza è il balbettio dello scienziato, che non usa più il linguaggio della scienza ma opinioni personali non suffragate dagli esperimenti.

Quella cosa lunga, tediosa, ripetitiva che è alla base della ricerca. Più facile dare suggerimenti e pareri da “esperto” e utilizzare la “non democraticità” della scienza per far passare punti di vista personali per verità scientifiche.

A questo punto entra in gioco un altro aspetto molto delicato, il rapporto tra scienza e potere.

È un abbraccio mortale dal quale non molti scienziati hanno la capacità di svincolarsi. Serve indipendenza e coscienza etica. La ricerca tuttavia dipende dai finanziamenti che vengono garantiti dalla politica e non può fare a meno di questi. La politica però in tempo di crisi ha bisogno dell’apporto degli scienziati i quali trovano una ribalta altrimenti riservata alle star dello spettacolo e dello sport. È una situazione in cui gli scienziati meno scienziati degli altri, ma che sanno comunicare meglio e meglio dialogare con il potere, occupano il centro della scena.

Lo spettacolo degli scienziati, o sedicenti tali, che pubblicamente si contraddicono e bisticciano, confonde e disturba. La discussione, l’analisi dei dati e delle soluzioni non dovrebbe divenire parte del rumore di fondo dei mass media che onnipresenti ci bombardano di informazioni. Non dovrebbe essere una traiettoria segnata, un destino già scritto che relega lo scienziato all’irrilevanza o a meteora da talk show.

Il nostro paese ha una risorsa straordinaria, una cultura profondamente radicata sull’umanesimo.

La nostra impotenza di fronte alle grandi sfide globali ha mostrato come la conoscenza settoriale non ci permette di affrontare la complessità del mondo. L’università dovrà essere al centro di una piccola rivoluzione in cui gli scienziati delle generazioni future dovranno avere la capacità di dialogare con i saperi e le discipline più diverse. Umanisti scienziati e scienziati umanisti, con molta umiltà e il grande desiderio di spostare sempre più avanti la frontiera della conoscenza.

Plinio Innocenzi è professore ordinario di Scienza e Tecnologia dei Materiali presso l’Università di Sassari dove è responsabile del laboratorio di scienza dei materiali e nanotecnologie. Si è laureato in Fisica presso l’Università di Padova ed è stato ricercatore associato presso l’Università di Kyoto in Giappone dal 1992 al 1996. Dal 2010 al 2018 è stato addetto scientifico presso l’Ambasciata d’Italia di Pechino. Il suo interesse di ricerca è focalizzato nell’ambito delle nanoscienze e nanomateriali. Si occupa di divulgazione scientifica, in particolare della scienza e tecnologia del Rinascimento.

Le immagini sono tratte dalle performances teatrali Uncanney Valley e Société en chantier / Society under Construction dei Rimini Protokoll: https://www.rimini-protokoll.de/website/en/  L'immagine centrale, invece, è una vignetta pubblicata sulla Pravda nell'ottobre del 1988: per la propaganda sovietica e per il regime della Repubblica Democratica Tedesca il virus dell'AIDS era un'arma biologica diffusa dagli Stati Uniti.