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Aristotele scrive che la tragedia «è mimesi di un’azione seria e compiuta in se stessa, con una certa estensione; in un linguaggio abbellito di varie specie di abbellimenti, ma ciascuno a suo luogo nelle parti diverse; in forma drammatica e non narrativa; la quale, mediante una serie di casi che suscitano pietà e terrore, ha per effetto di sollevare e purificare l’animo da siffatte passioni» (Poetica, 6, 1449b 24-28, traduzione  di Manara Valgimigli).

In greco antico, lingua che purtroppo non ho studiato, ‘purificazione’ si dice ‘catarsi’. Mi chiedo oggi, nel pieno di questa pandemia, se questa definizione di tragedia sia adatta per descrivere quello che stiamo vivendo.

Aristotele pensava alla tragedia come spettacolo, perciò qui parla di linguaggio e di forma drammatica. Sta infatti cercando di definire un genere letterario. Perciò scrive che la tragedia è ‘mimesi’, cioè ‘imitazione’. La tragedia, mi sembra di capire, imita sulla scena persone che parlano e che agiscono tragicamente. In questi giorni, se penso e dico che sto vivendo una tragedia, non sto imitando nulla, ma sto vivendo qualcosa di particolarmente doloroso, che mi fa soffrire. Questo accade non solo a me, ma a tutti, seppure ciascuno vive questo dramma con diversa intensità e diverso coinvolgimento.

Però ciò che guardo ogni giorno in televisione o sullo schermo del mio smartphone  e che accade lontano da me, per me, a volte, è come uno spettacolo, perché c’è una distanza tra me e quel che vedo. La tragedia greca raccontava storie terribili, di personaggi che uccidevano il padre e sposavano la madre, come Edipo – tuttavia patricida involontario –, oppure di donne che uccidevano i figli, come Medea, o di fanciulle condannate a morte per aver voluto seppellire il fratello: Antigone. Quelle messe in scena non erano storie vere ma miti, qualcosa di simile alle favole. Eppure noi ci spaventiamo, ci indigniamo, abbiamo compassione quando le leggiamo o le vediamo in teatro, proprio come se fossero vere. Queste storie sono chiaramente simboliche di situazioni che riguardano l’uomo e il suo vivere. Certo, sono situazioni limite.

Ma anche noi in questi giorni siamo attori e spettatori di una situazione limite, immaginabile, fino a poco tempo fa, solo al cinema, in uno di quei film americani su catastrofi e pandemie, appunto. Quel che vediamo sugli schermi diventa simbolo della nostra stessa condizione. Nel vedere le sale di terapia intensiva degli ospedali della Lombardia oppure le immagini di città del mondo deserte, a noi, che siamo chiusi nel rifugio delle nostre case, sembra di assistere a un film: tutto ci sembra così irreale, eppure sappiamo che è tragicamente vero. E basta questa visione del tragico per farci provare quella ‘pietà’ e quel ‘terrore’ di cui parlava Aristotele.

Pietà, per i malati, per gli infermieri e i medici col volto segnato, per coloro che muoiono, per coloro che non possono ricevere il compianto funebre. Terrore, per noi, per i nostri cari, per un futuro che ora facciamo molta fatica a immaginare. E perciò la definizione di Aristotele può essere usata, credo, per descrivere quello che stiamo vivendo.

E la catarsi? In che senso l’animo è purificato dalla pietà e dal terrore suscitati dalla tragedia, da una tragedia? In Università ho imparato che ‘catarsi’ è un termine medico, derivato da un verbo che significa ‘purificare’. In italiano, ‘purificare’ è un verbo legato piuttosto a una condizione dell’animo, in greco significa più concretamente ‘guarire’. Se proviamo ‘pietà’ e ‘terrore’, possiamo guarire da questi sentimenti che ci sconvolgono, perché impariamo qualcosa dal provarli. Credo che i Greci, quando assistevano alle tragedie, imparassero come evitare il dover provare ‘pietà’ e ‘terrore’. Forse l’analogia con ciò che sta accadendo può servire a spiegarmi meglio: noi proviamo pietà e terrore nel vedere quel che sta accadendo, nell’assistere alla tragedia. Sebbene non sia piacevole restare chiusi in casa, dover rinunciare alle lezioni e in generale alla mia vita universitaria, io provo non tanto, o soltanto, ‘pietà’ e ‘terrore’ per quel che sto vivendo, quanto, soprattutto, ‘pietà’ e ‘terrore’ per quelle immagini che irrompono da ‘fuori’ e che, mediate da uno schermo, sono riproduzione di una realtà.

Nel vedere quelle immagini, il terrore e la pietà che provo è per alcuni aspetti simile alle stesse emozioni che dovevano provare i cittadini che, ad Atene, assistevano alle tragedie. Ad Atene, però, terminata la tragedia si tornava a casa; la nostra casa, invece, fa parte della tragedia, di una tragedia che, almeno ora, sembra non finire e che nulla a che vedere con il mito.  

 

Valentina Pisciottu studia Mediazione linguistica e culturale, curriculum Lingue e culture della contemporaneità all’ Università di Sassari.

http://www.senzaconfinidipelle.com/videodanze.html

Immaginare impensabili ritmi del tempo nonostante una serratura (das Schloss). Muoversi nello spazio di un castello (das Schloss), nella ostinata ricerca di pace.  Musica (Peace Piece).

 Nel 1935 Bertrand Russell, filosofo, matematico, attivista e premio Nobel per la letteratura, nel saggio che dà il titolo alla sua raccolta di scritti Elogio dell’ozio e altri saggi (In Praise of Idleness and Other Essays), teorizza un possibile giusto spazio temporale da attribuire alle attività dell’uomo, animale sociale e unità produttiva in un sistema capitalistico.

Gli interrogativi che assillano la mente di Russell sono diversi. È giusto che un uomo passi tanto tempo dedicandosi al proprio lavoro? È giusto produrre più di ciò che realmente serve a soddisfare le esigenze di uno Stato? È giusto che gli interessi della finanza abbiano più importanza degli interessi pubblici o del singolo lavoratore? Saprebbe l’uomo moderno impegnare diversamente il suo tempo senza renderlo vano?

Il ragionamento di Russell si concentra sui controsensi del sistema capitalistico ma soprattutto sulla necessità, per il bene comune, di investire sull’intelligenza e sull’istruzione. Senza queste colonne portanti, ogni società si trova debole e impreparata a gestire situazioni quotidiane complesse ma la debolezza ancor di più si palesa nelle situazioni di emergenza, di tragica emergenza. L’intelligenza è spesso innata ma è l’istruzione che ha il compito di guidarla. «Istruitevi perché avremo bisogno di tutta la vostra intelligenza», diceva Gramsci nel suo Ordine Nuovo (1919).

Avere industrie completamente automatizzate dovrebbe portare dei vantaggi ,come ad esempio il beneficio di avere più tempo per dedicarsi a sé stessi. In realtà, il processo di industrializzazione non ha fatto sì che l’uomo potesse godere di questo vantaggio ma, anzi, lo ha indotto a lavorare ancor di più, e a ritenere, persino a convincersi, che non fosse ‘nobile’ avere del tempo libero.

Il bisogno di produrre in larga scala spinge il sistema ad immettere sul mercato delle quantità di merci che vanno oltre le esigenze dei singoli stati, ad essere spiccatamente concorrenziale e cosi l’esternalizzazione della produzione diventa una strada obbligata da percorrere. Può succedere, per varie ragioni, alcune delle quali ci sono ben presenti proprio in questo tragico momento, che questo rincorrere si fermi e si rimanga all’improvviso soli con sé stessi.

L’elogio dell’ozio, superando il concetto di vizio e trasformando l’ozio in virtù, riesce a trasferire al lettore il senso del valore di quel tempo ‘in più’ da custodire come un dono prezioso e come una fonte di rinnovata, felice, vita.

In un saggio precedente, La conquista della felicità (1930), Russell suggerisce la sua ‘formula magica’ per raggiungere e mantenere questo ambito stato. La strada della felicità e della prosperità inizia diminuendo il tempo dedicato al lavoro. Russell fissa idealmente questo tempo in quattro ore a giornata. Poiché, però, la ‘conquista della felicità’ non è solo questione di tempo, un uomo per essere felice dovrebbe avere un lavoro che gli consenta di mantenere sé stesso e i suoi familiari, essere libero da pensieri negativi, stare in salute. L’uomo, per essere felice, deve avere il controllo del proprio tempo, deve coltivare i propri interessi e le proprie passioni, circondarsi di affetti più che di beni materiali. Solo una volta raggiunta questa condizione, la conquista sarà completa e appagante.

Russell parla probabilmente di una condizione utopica, che a molti di noi potrebbe non sembrare nemmeno ideale, ma tornare al suo pensiero in questa nostra tragedia contemporanea, in questo momento di paura, impotenza e sgomento, vuole essere uno stimolo a cercare nel nostro attuale tempo libero, non voluto ma necessario, un prezioso regalo, un’occasione per pensare ad altri possibili modi di vivere il tempo della vita, momento di ‘quasi’ felicità.

 

Viviana Garau è studentessa della Scuola di Specializzazione in Farmacia Ospedaliera dell'Università di Sassari. 

 

 

Il saggio citato si può leggere in italiano quest’edizione: https://books.google.it/books?id=uVOcoAEACAAJ&dq=bertrand+russell+Elogio+dell%27ozio&hl=de&sa=X&ved=0ahUKEwjV05Kthc3oAhVjl4sKHfCYDDsQ6AEIJzAA

 

 

Ovvero: elogio della complessità, perché l’eccessiva semplicità ci complica la vita.

Ma distinguiamo innanzitutto ciò che è ‘semplice’ da ciò che lo è solo apparentemente.

La natura molto spesso maschera la complessità con un’apparente semplicità.

Un esempio: il nostro codice genetico. Sembra semplicissimo. Le istruzioni per costruire un essere umano si possono dare usando semplicemente le quattro lettere del codice genetico: A, T, C, G.

Ogni sequenza di tre lettere (detta tripletta) ‘codifica’, cioè impartisce l’ordine, nella sequenza proteica per uno specifico amminoacido. (Non è così semplice:  differenti triplette possono codificare per lo stesso aminoacido e esistono ben 64 permutazioni di triplette, molte più di quante ne occorrono per differenziare i venti amminoacidi. Non è semplice, ma la facciamo semplice.) 

Venti amminoacidi costituiscono i mattoni necessari a costruire tutte le proteine del nostro corpo.

La semplicità si tramuta in crescente complessità: quattro basi nucleari differenziano venti amminoacidi. I venti amminoacidi possono disporsi in sequenze diverse, per dare vita alle decine di migliaia di differenti proteine conosciute. Queste ultime possono aggregarsi tra di loro o con altre molecole, zuccheri, lipidi, elementi inorganici, per fornire milioni di combinazioni note. Un numero elevato di queste combinazioni può aggregarsi per formare una cellula che, aggregandosi a sua volta, forma un organismo.

Noi ci limiteremo a parlare di cellule: un livello di complessità già elevatissimo.

Con la sola esclusione dei virus, tutti gli altri microrganismi patogeni sono formati da singole cellule.

I protozoi hanno un’organizzazione simile a quella delle nostre cellule, e un esempio di loro patogeno è il Plasmodium falciparum che provoca la malaria. I funghi sono solo leggermente meno complessi, tra i loro patogeni pensiamo alla Candida albicans; infine i batteri, ancora un po’ meno complessi, e qui i patogeni sono infiniti: ricordiamo solo, a titolo di esempio, la Yersina pestis.

Per la quasi totalità di questi patogeni esistono farmaci, per alcuni anche vaccini, che ci consentono di eradicare l’infezione, per i virus quasi mai. Perché?

Perché tutti i patogeni cellulari hanno, come d’altronde gli esseri superiori, un complesso sistema di interazioni cellulari il cui equilibrio deve essere perfettamente mantenuto perché possano sopravvivere. È sufficiente che noi, attraverso l’azione di un farmaco, sconvolgiamo uno dei tanti processi essenziali ai quali soggiacciono per decretarne la morte. Alcuni farmaci indeboliscono la loro parete cellulare, che corrisponde al loro esoscheletro, altri impediscono che duplichino il loro materiale genetico e quindi ne bloccano la riproduzione, altri ancora fanno sì che non riescano a sintetizzare le loro proteine vitali, e così via. Ma un virus? Non gli accade niente di tutto ciò.

Il virus è troppo semplice.

 

Un virus è formato semplicemente da una molecola che ne determina il codice genetico, ricoperta di altre proteine che hanno due funzioni: proteggerlo, e convincere la cellula ospite a duplicare la singola particella virale, chiamata virione.

Quindi un virus, a differenza di una cellula, non nasce, non si alimenta, non cresce, non si riproduce e non muore. Non fa niente di tutto ciò che noi definiamo vita, perché non ne è capace.

E perciò niente molecole che possano interferire con i processi vitali sopra descritti, perché il virus non li ha! Quando un virione entra in una cellula si limita a disgregarsi. In un certo senso è come se si suicidasse squartandosi completamente. Poi le sue proteine convincono gli apparati cellulari, preposti alla sintesi delle componenti necessarie alla cellula, a fabbricare copie di tutto il materiale virale, tante copie: migliaia per cellula. Terminata questa fase, queste molecole si aggregano spontaneamente e formano tantissimi nuovi virioni che escono dalla cellula, di solito uccidendola, per andare a infettare altre cellule. Il processo è troppo semplice.

Come facciamo a interromperlo?

Pensiamo all’AIDS e all’epatite C. Nel primo caso questa sindrome è comparsa, o almeno ne siamo venuti a conoscenza, poco meno di mezzo secolo fa. L’agente etiologico è l’HIV, ed è molto più pericoloso del Covid 19. Fortunatamente si trasmette solo attraverso il sangue e non, come per il Covid 19, attraverso le goccioline di espettorato. Nonostante ciò ha causato milioni di morti. Ci sono voluti decenni, decine di migliaia di ricercatori e fiumi di denaro per trovare una cura, che comunque non consente di eradicare la malattia ma solo di tenerla sotto controllo.

E l’epatite C? Stesso destino. Anche in questo caso la malattia è stata scoperta pochi decenni or sono, l’agente etiologico, chiamato HCV, si trasmette con il sangue e sono stati necessari decenni, decine di migliaia di ricercatori e fiumi di denaro per trovare una cura, che per fortuna in questo caso consente l’eradicazione del virus in oltre il 95% dei pazienti.

In entrambi i casi il problema era trovare una molecola che agisse sulle poche molecole del virione, senza interferire con i processi vitali delle nostre cellule.

Ecco un altro problema. Le molecole del virione oltre che essere poche sono formate dagli stessi venti amminoacidi che costituiscono le nostre cellule. Quindi dobbiamo inventare dei farmaci che agiscano specificamente su quei pochi bersagli virali ma che non interferiscano con l’infinita quantità di strutture simili delle nostre cellule.

Purtroppo, esiste anche un ulteriore problema: i virus mutano in continuazione.

Cosa significa? Semplicemente che nella loro folle corsa alla duplicazione, pochi entrano in un organismo, ma dopo alcuni giorni molti miliardi di copie circolano al suo interno, commettono molti errori. Tanti virus, a causa di questi errori, non sono funzionali, ma tanti altri continuano a funzionare bene. Purtroppo, alcuni errori compaiono proprio nei punti di attacco dei farmaci, rendendoli inefficaci.

Questo fenomeno, noi lo chiamiamo resistenza. Quindi: antivirale trovato, selezione della resistenza indotta, ricerca di nuovi farmaci necessaria.

Sarebbe bello se i virus avessero una complessità tale da consentirci di individuare bersagli specifici per il loro funzionamento!

I virus ci dimostrano che proprio ciò che è semplice ci impedisce di raggiungere gli obiettivi più elevati.

 

 

Antonio Carta è professore di Chimica Farmaceutica e Direttore della Scuola di Specializzazione in Farmacia ospedaliera dell’Università di Sassari, specialista, tra l’altro, di farmaci anti-virali. Oltre alla sua attività scientifica di riconosciuto livello internazionale è scrittore di thriller a fondo scientifico. Il suo ultimo romanzo Il riverbero della setta oscura parla di un complotto internazionale che coinvolge uno scienziato, il professor Piras, ed ha inquietanti tratti di attualità. http://www.aracneeditrice.it/index.php/pubblicazione.html?item=9788854897144