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Dal 10 al 12 Agosto 2023 è tornato Il cielo di Tuscolo manifestazione giunta alla sua quinta edizione, con serate evento nel Teatro romano in cui la musica eseguita dal vivo si è fusa con dialoghi di approfondimento.

Si riportano qui alcuni stralci del dialogo tra Cristina Pace e Flavia Gallo[1] sulla riscrittura drammaturgica della tragedia classica e sulla attualità del ‘classico’. Il dialogo contiene stralci dall’ Autodifesa di Ismene, scritto da Flavia Gallo, andato in scena al Segesta Teatro Festival, ed è stato impreziosito dalla performance musicale di Kety Fusco con l’arpa (nelle foto).

 

Premesse all’ Autodifesa di Ismene

di Flavia Gallo

 

Sono qui per raccontarvi

cosa può essere l’antico

dal punto di vista della scrittura drammatica contemporanea.

Vi parlerò di un testo teatrale

Autodifesa di Ismene. Elogio della Sopravvivenza

in prima nazionale, qualche giorno fa, al Teatro Antico di Segesta.

e dei motivi che giacciono al fondo di questa scrittura.

 

Perché riscrivere un mito?

Perché mettere mano a una tragedia classica?

Addirittura a un’opera monumentale come l’Antigone di Sofocle? 

Quale è il rischio? La posta in gioco?

Ecco una risposta:

 

L’antico non è cosa intoccabile e statica

ma è risorsa aperta, ibrida, cangiante.

L’antico,

per definizione così lontano nel tempo e nello spazio

da sembrare immoto

in verità si muove

e ci chiede di essere riconosciuto come realtà metamorfica.

Si è sempre trattato, sin dall’inizio,

anche per gli antichi tragediografi greci

di andare contro la fissità delle versioni,

di toccare e spostare la materia visibile e invisibile di un’opera,

di dipanare l’antico non come originario

ma come momento,

come passaggio immaginale,

intercettandolo,

ri-giocandolo,

diminuendo, allargando e a volte anche

sostituendo elementi

per immetterne altri

sentiti come cosa viva,

come cosa più viva.

Deve aver agito e pensato proprio così

anche Sofocle

quando ha deciso di prendere un personaggio

minore

secondario del mito antico

antico per lui

e di scrivere l’ Antigone.

 

Risalendo il monte di Segesta

qualche giorno fa

osservando

le colline attorno al tempio

devastate dal fuoco di un immenso incendio

mi sono ritrovata

a ripensare

al mio amore per la Grecia antica

per quegli amanti troppo carnali

di una parola che troppo significa.

Un amore che per decenni

si è dato

come ammirazione

reverenziale.

Ma l’antico è un racconto spostato, riassorbito, mutevole:

sotto di noi c’è una pietra che batte

e batte per sollevarci

da ogni forma di venerazione spenta.

La rocca del teatro compare sempre

in una radura:

è fatto di pietra conficcata, sì

una pietra millenaria, sì

traccia dell’umano desiderio

di abitare poeticamente la terra.

Sì!

Ma a guardarla bene

questa traccia

a guardarla bene questa pietra

è segno molto libero, in verità:

soggetto al tempo come noi

e in un perenne stato di motilità:

un mistero che prende la sembianze di un emiciclo,

la forma di un’alleanza profonda

tra umano e non umano.

 

I nostri corpi sono vicini

in un’inedita compresenza fisica

che non si ripeterà mai più.

Si toccano questi corpi e

toccano

contemporaneamente

qualcosa

che custodisce in sé

non un’idea di antico imperituro

lontano e inalterabile

ma l’antico come

una proposta,

una proposta attiva

di coinvolgimento:

l’antico è un invito a farci ripensare il mondo.

 

A guardarlo, ascoltarlo,

ricostruirne le verità.

A rivelare gli dei e i demoni

che ancora si nascondono nel profondo.

A trasformarli,

in modo che la bellezza trasfigurante

ci aiuti a sopportare questa condizione umana.

Sopportare non significa soffrire o rassegnarsi…

Veniamo a teatro per guadagnare insieme

una rinnovata reciprocità,

capacità di ospitalità,

competenza al tocco sensibile.

A far rivivere il desiderio, il coraggio, lo spirito

a partecipare all’esistenza,

ad accogliere la metamorfosi necessaria

che rende la vita una morte

che ridiventa vita

e a cedere

all’altrui sentimento del mondo.

Cedere.

Sì.

Come Ismene, principessa tebana,

sorella di Antigone,

di Eteocle e Polinice,

figlia e sorella di Edipo,

ultima dei Labdacidi

e di un destino genealogico tremendo

che ha visto seppellire atrocemente

tutti i membri della sua famiglia.

 

Mi è sempre apparsa questa anti-eroina 

che si è guadagnata la fama di colei che NON ha compiuto

il grande gesto eroico

il gesto di pietà assieme alla sorella,

il gesto di seppellire il corpo del fratello

lasciato esposto per volontà dell’editto di Creonte

Mi è sempre sembrato un personaggio

che non ha avuto tempo e modo

di dispiegare la totalità del suo discorso

non solo perché nella tragedia greca

è sempre troppo tardi

Ma perché

più vulnerabile degli altri lei

meno incline a credere che le parole possano davvero

rappresentare la verità,

e più simile lei a tutti noi che in questa vita

siamo anche chiamati a

sopravvivere a dolori immensi

ai quali non siamo riusciti a porre rimedio.

 

E a cedere,

non vincere

non vincere a tutti i costi

ma sentire dentro

la somiglianza,

sentire la vita degli altri

come sentiamo la nostra stessa vita.

Questa disponibilità alla tenerezza

è o non è

la vera essenza dell’ingegno umano?

Che l’altro, chiunque egli sia, sia davvero me

è o non è in ultima istanza

l’essenza di Poesia? 

 

Autodifesa di Ismene,

elogio di chi ha il compito di continuare a scorrere

forse non più nel palazzo tebano

ma da dentro un edificio di una delle nostre città di periferia

continuare da lì a farsi anima e parola e nuova storia,

come si può, tra le macerie degli eventi.

 

AUTODIFESA DI ISMENE  (estratti)

 

Antigone, Eteocle, Polinice… Edipo.

Giocasta, Emone, Euridice… sì.

Tutti… i loro nomi.

Di nuovo.

Antigone, Eteocle, Polinice… Edipo.

Giocasta, Emone, Euridice… sì.

….

 

Il mio nome.

Per fortuna il mio nome

Non se lo ricorda nessuno.

 Soprattutto il mio nome

non vuol dire niente.

Per fortuna.

Proprio niente.

Non fa da esempio.

Non sta per nessuna virtù.

Non rivela nessun difetto umano.

È greco, sì.

Potrebbe voler dire

colei che ha visto.

Eh!

E che cosa ho visto?

Ho visto.

Ho visto.

 Ho visto tutte le disgrazie della mia famiglia.

Fino in fondo.

Fino all’ultimo movimento.

O forse vuol dire anche

colei che sa.

Eh!

E che cosa so?

Cosa so io.

So.

So.

Che i mie due fratelli maschi

si sono scannati per una questione di potere.

Che io e mia sorella femmina

ci siamo scannate per una questione d’amore.

Mia sorella.

Il suo nome?

Quante cose belle vuol dire il suo nome!

Ah quante!

Antigone.

Io

di questo ultimo nostro enorme disastro di famiglia

Non volevo essere parte.

Ho tentato.

E mi sono guadagnata per sempre

la fama di infame.

Chissà perché finisce così a quelle come me

che decidono di sottrarsi

alla furia degli uomini e delle loro cose...

“Ismene l’infame…”

Dunque:

è incerto cosa voglia dire il mio nome.

Andrebbe comunque scritto

Nell’albero genealogico:

Ismene, magari in piccolo,

accanto a quegli altri

più famosi, più fulgidi

più esemplari, più…

morti.

Ismene.

Lo scrivo.

Tanto poi lo cancello...

 

ISMENE

E quanto parlava mia sorella!

Oh quanto!

E come era sicura di ciò che diceva!

Oh quanto!

Le mie parole, invece,

quando mai sono state…

dritte!

Sono sempre state e sono

un poco oblique… instabili.

Un rischio, insomma!

Le parole sono un rischio.

Così all’inizio mi sono rifiutata…

Mi sono rifiutata

di parlare come parlava lei.

Di andare dicendo in giro

cosa c’era da fare.

Mi sono rifiutata… di aiutarla.

Lo so.

Lo sanno tutti.

Non l’ho aiutata.

Avrei voluto nasconderla mia sorella

sotto una coperta.

Nasconderla a tutto il mondo,

allo zio, ai fratelli.

Mia sorella.

Va scritta per prima.

(scrive il nome di Antigone)

Antigone:

Tanto poi lo cancello…

 

ISMENE

Io

sopravvivo

alla nostra immensa tragedia.

E come ci riesco io,

io…

la sorella inadeguata

alla disobbedienza esemplare?

Io che non costituisco

per nessuno

un modello da seguire?

Come sopravvivo all’orrore di un’intera stirpe

che è mia,

così scavata nell’intimo codice del mio fiato?

Come fare un modello di questa mia

sorte ordinaria,

da chincaglieria da arredo

di cui nessuno parlerà mai?

Su di me

non si specchia

nessun destino mirabile.

D’altronde

ridipingo i muri di questa enorme reggia vuota!

Ruolo senza ineluttabilità,

potrebbe farlo chiunque!

A che vale che sia proprio io

l’altra figlia/sorella di Edipo?

 

Come si passa tutto il tempo dopo?

Il tempo che rimane

dopo la fine violenta

di tutti gli altri?

 

ISMENE

Dite che dovrei affacciarmi?

Affacciarmi

dalla finestra della reggia?

Solo un’occhiata però

da dietro le tende…

Vedo

anime

anime sedute

sulla pietra

che vorrebbero avanzare e

raggiungere lentamente

questa casa,

che è casa mia

ed è anche

contemporaneamente

il palazzo di tutto il potere.

Dovrei affacciarmi e parlare al popolo e…

Ma io non voglio che mi vediate

Che sappiate di me,

del mio male

e di tutto il dolore dopo le sepolture.

Io ho provato a tenere stretta a me

almeno lei,

E sono diventata per sempre

la sorella senza risolutezza,

incapace alla ribellione,

alla lotta,

all’epica impresa!

Nessuno ricorda con quale disperazione

abbia tentano di fermare tutto questo,

di spezzare la maledizione

che da due rami congiunti

si abbatte su di noi

da sempre!

Perché dovrei uscire?

O farvi entrare?

O affacciarmi?

O demolire queste mura e queste porte

che mi tengono nella dimenticanza?

E che mondo sarebbe,

poi,

quello al di là di tutto questo?

Dalla televisione non si capisce…

Non è chiaro

come siano gli uomini e le donne oggi?

Siete più…

come mia sorella o più come me?

Non mi è chiaro

per  quale fratello,

quale ingiustizia terrena

in quale tribunale umano

la gente usi la propria parola?

Se ritornassi

finalmente

per agire anche io

con queste mani

ditemi:

cosa ci sarebbe davvero

da seppellire

o da dissotterrare

e dove esattamente dovrei andare?

Potrei prendere le parti, difendere, amare 

-almeno per questa volta-

qualcosa o qualcuno

che non abbia il mio stesso

sangue?

 

Orizzonti antichi

di Cristina Pace

 

Proviamo a parlare di Antico e contemporaneo: un binomio che sentiamo usare spesso, ma non sempre è chiaro né come né perché dovrebbero entrare in relazione due realtà almeno apparentemente opposte e lontane. Che cosa può avere a che fare il mondo antico con il mondo contemporaneo? A cosa possono servire gli antichi oggi?

Al di là di ogni retorica, proviamo a porci seriamente la domanda in questi termini: di fronte alle sfide terribili e inedite del nostro presente (l’umanità si trova di fronte alla concreta possibilità dell’autodistruzione), che cosa hanno mai da dirci, che cosa possono suggerirci gli antichi?

Non c’è il rischio che rivolgersi all’antico sia un modo per rifugiarsi in un mondo lontano, antitetico rispetto al presente, alternativo alla realtà?

Oppure: esiste un modo di pensare, indagare, studiare, ri-raccontare l’antico che invece ci possa aiutare ad affrontare le sfide del presente, che possa essere trasformativo rispetto al presente?

 Antico e contemporaneo: soffermiamoci su ciascuna parola.

Per definizione antico è semplicemente ciò che appartiene a un’età remota, ma questa lontananza, cronologica e anche geografica può variare, nella nostra considerazione. Noi europei (occidentali) per diverse ragioni quando diciamo ‘antichi’ pensiamo in genere ai Greci e ai Romani, quelli che non a caso chiamiamo ‘classici’, ma ovviamente potremmo ricordare altri popoli antichi, come gli Egizi, i Fenici, i Sumeri. E per un abitante dell’Africa subsahariana o un cinese gli antichi sono certamente altri. In un mondo globalizzato dunque chi sono gli antichi?

E “contemporaneo”? Per definizione, è ciò che appartiene all’età presente, all’oggi. Ma tutto ciò che è nell’oggi lo definiremmo contemporaneo? Io sono contemporanea? Mio figlio è più contemporaneo di me? E noi siamo contemporanei come un newyorkese o un abitante della foresta amazzonica?

 In realtà, ce ne accorgiamo, antico e contemporaneo sono termini relativi e più che altro si definiscono a vicenda: rappresentano i poli estremi di una sequenza temporale (più o meno lunga, più o meno storicamente definita), in cui – e questa è la cosa rilevante - siamo coinvolti noi.

I contemporanei siamo noi: e quando parliamo di antico e contemporaneo stiamo parlando della nostra relazione con il passato, o meglio quello che consideriamo il nostro passato. Ma qual è il nostro passato? in che senso il passato è nostro?

Dicevamo: quando noi diciamo antichi senza ulteriori specificazioni intendiamo automaticamente i greci e i romani, la cosiddetta civiltà classica, di cui ci sentiamo i continuatori o gli eredi.

Questo sentimento, questa sorta di identificazione, così radicata da sembrarci naturale, è in realtà, come tutte le tradizioni culturali, una costruzione.

Questo sentimento identitario però, non è privo di rischi, se più o meno consapevolmente diventa una ragione per distinguerci, per sentirci superiori, addirittura per difenderci.

Ovviamente l’importante presenza della cultura greca e romana nella storia della cultura europea non si fonda su nessuna ragione ‘biologica’ o territoriale, bensì su qualcosa che è più complesso, ma anche se volete ancora più ricco di implicazioni e più profondo. Cioè una lunga storia, costellata di momenti storicamente ben individuabili (il Rinascimento italiano, la Germania fra Settecento e Ottocento, ad esempio) che hanno determinato e via via ripreso e consolidato questo rapporto di predilezione, questa sorta di dialogo a distanza con l’antichità classica, che di fatto costituisce una delle cifre più caratteristiche della cultura europea.

Per esprimere tutto ciò, in ogni caso, anziché parole come “identità” o “patrimonio” (anche questa è una parola che usiamo molto ma che rischia di veicolare un’idea di possesso e di esclusività che non ha ragione di essere) dovremmo preferire il concetto di risorsa culturale, come suggerisce Francois Jullien, un antropologo francese, in un piccolo libro: L’identità culturale non esiste. Che vuol dire pensare in termini di risorse culturali? Che i risultati di qualunque cultura (dalla tragedia greca alla filosofia cinese) sono a disposizione di chiunque voglia avvicinarli, indipendentemente dalla sua cultura di origine: in un mondo globalizzato questa è l’unica prospettiva possibile, autentica (esistono straordinarie riscritture africane della tragedia greca, così come chiunque di noi può voler studiare e nutrirsi di una cultura ‘altra’). Non si tratta di abbandonare o ‘contaminare’ la propria tradizione culturale.

Del resto alla stessa parola “tradizione”, che suggerisce l’idea di una trasmissione verticale, di generazione in generazione, fino a noi, occorrerebbe preferire l’idea di memoria culturale. La memoria, anche quella personale, è un processo attivo, non passivo, di mera ricezione del passato: chiunque di noi del proprio stesso passato non ricorda tutto, ma seleziona ciò che consapevolmente o meno ha importanza per lui, e ne ricostruisce il racconto.

E il racconto non rappresenta mai del tutto la verità, non esaurisce, non contiene tutto, la realtà è sempre necessariamente più ampia e complessa e disordinata, ma il racconto che chiamiamo memoria è ciò che ci permette di individuare un senso nella nostra storia. Un filo rosso, che da esperienze significative del passato porta fino a noi. Che ci aiuta, dunque, a definire in fondo chi siamo o vorremmo essere.

 È questo tipo di relazione dinamica con il passato che, al di là e quasi a dispetto di ogni forma di classicismo, ha caratterizzato la nostra storia culturale e ha reso vitale il nostro rapporto con i classici. In questa prospettiva, tutt’altro che inedita, l’antico non è solo qualcosa da tutelare: si tratta invece di farlo entrare in relazione con noi, di reinterpretarlo. Ora: un teatro, e un teatro antico in particolare, è probabilmente il luogo migliore per decidere se l’antico significa effettivamente ancora qualcosa per noi, perché il teatro è necessariamente contemporaneo: qualunque parola pronunciamo qui, per quanto antica, è necessariamente presente.

Il teatro è per definizione il luogo dove è possibile misurare la effettiva contemporaneità dell’antico. Lo sapevano già del resto i Greci che nel teatro rendevano presenti le parole antiche del mito, permettendogli di veicolare sensi nuovi, di offrire spunti inediti alla riflessione collettiva della città.

 Ripensando qui, stasera, a Tuscolo, ai nostri ‘antenati’ Romani, è interessante sapere che, proprio in questo paesaggio, anche loro ripensavano e re-immaginavano coloro che avevano adottato come i propri antenati culturali, i Greci. Sapete che a Tuscolo e nei suoi dintorni si trovavano diverse importanti ville suburbane, vere e proprie residenze di lusso, destinate allo svago e alle attività intellettuali dell’élite romana. Ne abbiamo una straordinaria testimonianza nelle lettere di Cicerone, che parla moltissimo della sua villa di Tuscolo. Purtroppo il sito di tale villa non è stato identificato con certezza. Nelle intenzioni di Cicerone questa residenza, per la cui decorazione è disposto a spendere moltissimo, deve ricreare qui un vero e proprio ‘pezzo’ di Grecia: gli ambienti più importanti della villa, quelli destinati allo studio e alla lettura, nonché alle conversazioni erudite con gli amici, si chiamano Accademia e Liceo, come le scuole di Platone e Aristotele ad Atene, e anche i portici e i giardini su cui si aprono questi ambienti sono decorati con statue greche, importate appositamente dalla Grecia. Cicerone mostra di tenere moltissimo a che le statue siano ‘intonate’ alla funzione dei diversi ambienti. Inoltre, ovviamente, è disposto a spendere tantissimo per avere qui una adeguata biblioteca, anch’essa naturalmente greca. Quindi Tuscolo fornisce un esempio bellissimo di come concretamente gli antichi romani consolidassero quel processo di adozione della cultura greca come propria cultura di riferimento, che poi è a fondamento della cultura latina: ricostruendo, proprio qui, un paesaggio e un’idea di vita alla greca, dedita allo studio, alla filosofia, alla bellezza.  Una straordinaria testimonianza, che rappresenta una sintesi perfetta di questo sogno di Grecia qui a Tuscolo, si trova nel Museo dell’Abbazia di Grottaferrata: è una straordinaria stele funeraria attica di V secolo a.C., che rappresenta un ragazzo assorto nella lettura (straordinaria per la sua qualità artistica e anche per il soggetto tutt’altro che usuale). Cosa ci fa una stele attica in questa zona? Trovata non sappiamo esattamente dove, ma sicuramente nel circondario, era evidentemente una di quelle opere greche di cui parlavamo, importate per decorare le ville di questa zona.

Probabilmente nella villa tuscolana per cui questa stele (badate: almeno tre-quattro secoli dopo la sua realizzazione) fu acquistata e trasportata dalla Grecia, questo giovane ateniese, completamente assorbito da ciò che sta leggendo, decorava un luogo dedicato alla lettura (chissà forse la biblioteca di Cicerone? Non lo sapremo mai). Rappresentava dunque un invito ad attività intellettuali e spirituali e al tempo stesso era la rappresentazione perfetta di quell’ideale di vita ‘greco’ di cui parlavamo. Un ideale probabilmente sentito come radicalmente alternativo rispetto alla realtà tossica della Roma di cui ci racconta Cicerone.

L’antico in questo caso serve dunque per immaginare un mondo possibile, che poco o nulla ha ormai a che fare con l’Atene del V secolo in cui la stele era stata realizzata, e rispecchia piuttosto, per contrasto, la realtà travagliata della Roma del I secolo a.C.

 Vi ho raccontato questo perché mi sembra interessante pensare che oggi noi siamo qui a pensare ai ‘nostri’ antichi, i romani, in un luogo scelto dai romani per immaginare a loro volta i loro antichi, i greci. Come è interessante richiamare che sulle rovine di alcune di queste ville furono poi edificate le ville rinascimentali che ancora caratterizzano il nostro territorio, e che a loro volta rappresentano straordinariamente il desiderio di ricreare qui un’idea di antico.

 Stando seduti su queste pietre ci accorgiamo che il teatro è la parte viva di un sito archeologico. È inevitabile, stando qui, pensare a coloro che già nell’antichità come noi si trovavano in un luogo come questo, e partecipavano a un’esperienza, il rito del teatro, non troppo diversa da quella che viviamo noi: il fatto di trovarci tutti insieme a guardare, ad ascoltare, a fare qualcosa cioè che a tutti gli effetti sembra improduttivo, inutile, insensato se volete, ma che corrisponde a un bisogno profondamente umano. Il bisogno di racconto, di arte, di quelle costruzioni creative attraverso cui cerchiamo di individuare un senso nella realtà; e il bisogno di condivisione, di compresenza, ciò di cui abbiamo imparato a riconoscere il valore, per mancanza, durante la pandemia.

Anche noi stasera, più o meno consapevolmente, aspettando la musica di Kety Fusco, in fondo cerchiamo un’esperienza che ci riconnetta con noi stessi. E al tempo stesso sentiamo che la percezione degli altri accanto a noi è una parte essenziale, vitale, di questa esperienza.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

[1] Drammaturga, linguista e pedagoga teatrale. Fondatrice di Humanitas Mundi Teatro, ensemble di ricerca teatrale e cooperazione artistica (Roma). Selezionata al College Autori della Biennale Teatro di Venezia 2022, Premio Tragos Teatro Ragazzi 2022 e Premio Sipario 2022, si occupa di educazione poetica pubblica e di riscrittura drammatica del mito classico.