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Della complessa e poliedrica figura di Diego Lanza (1937-2018), innovatore degli studi di letteratura greca, storia della tradizione classica, storia degli studi e del mito, ‘Visioni del tragico’ ricorderà qui solo alcuni degli aspetti più legati allo studio e all’interpretazione della tragedia greca, e lo farà attraverso le prefazioni, redatte da suoi allievi diretti, Anna Beltrametti e Gherardo Ugolini, alle recenti ristampe di due suoi libri, La disciplina dell’emozione. Un’introduzione allo studio della tragedia greca (prima edizione 1997)  e Il tiranno e il suo pubblico (prima edizione 1977), ora disponibili nel catalogo dell’editore Petite plaisance .
Su Diego Lanza in generale, oltre alla sua autobiografia Il gatto di piazza Wagner, edito da L’orma, si possono vedere gli atti open access del convegno a lui dedicato nel 2013, a cura di Rossella Saetta Cottone e Philippe Rousseau, Diego Lanza. Lecteur des oeuvres de l’antiquité e il profilo redatto da Gherardo Ugolini per la rivista dell’Associazione Italiana di Cultura Classica  «Atene e Roma», 2019, pp. 160-169.

La disciplina dell’emozione, un libro, pensato e articolato a supporto-approfondimento delle lezioni universitarie e destinato agli studenti e agli studiosi non solo di Filologia classica, si compone di due sezioni ben individuate.

La prima parte (L’istituzione teatrale in Atene, pp. 21-221), di quattro capitoli, richiama i dati istituzionali imponendo all’attenzione, senza rinunciare mai a rimetterli in gioco e in causa, tempi e luoghi, temi e strutture, autori e personaggi, strategie drammaturgiche e possibili effetti sul pubblico del teatro ateniese. La seconda parte (pp. 223-361), di otto saggi selezionati, riporta alcune delle letture condotte nel tempo da Lanza su singole opere o sul filo di questioni capitali: la forte frequenza di figure femminili nel teatro di una città e di una cultura politica che aveva drasticamente ridimensionato il ruolo delle donne rispetto alle culture antiche più tradizionali in cui le regine garantivano la legittimità dei legami di sangue e delle dinastie; la ridondanza del mito in testi tragici che drammatizzavano sulla scena un segmento preciso e circoscritto di una vicenda leggendaria, ma continuamente richiamando per analogia o per amplificazione altri miti evocati in varie forme, perlopiù nei canti dei cori o negli assolo dei personaggi; il rapporto, nel teatro senecano e non solo, tra parole e immagini che si generano dal linguaggio in assenza di scenografia; la relazione di continuità e discontinuità tra il teatro di Seneca e i suoi modelli greci, da riaffrontare non soltanto sulla base dei principi tecnici e retorici della composizione, ma a partire dai motivi tematici più ricorrenti nel teatro di Seneca – il delitto, la dimensione della morte e dei suoi rituali, la crudeltà spettacolarizzata. Segue una cronologia della tragedia di V secolo, essenziale e tuttavia fondata oltre che sulle date documentate e certe di alcune tragedie sulla disamina ragionata e non esibita delle più attendibili ipotesi di datazione delle altre. Conclude il volume un utile indice dei passi citati.

Il libro è didattico, ma non dogmatico. Come nelle lezioni ex cathedra e nei seminari, Lanza offre quadri di informazioni certe, ma utili a riaprire i problemi più che a chiuderli in via definitiva. Rileggerlo, anche a distanza di oltre vent’anni, sollecita a porsi e a porre domande. E questo accade non solo, come è più facile aspettarsi, con i percorsi personali di lettura della seconda parte, ma anche con i capitoli più descrittivi e neutrali della prima parte. Spesso i capitoli terminano invece che con un’affermazione con un interrogativo che è anche una messa in guardia da soluzioni troppo facili e da proiezioni non abbastanza fondate.

Qual era l’estensione di quella che per comodità chiameremo tragedia del VI secolo, quale il rapporto tra cantato e recitato, quale soprattutto il suo registro drammatico? Sarebbe infatti un grave errore proiettare analogicamente all’indietro le conoscenze che possediamo a partire dal terzo decennio del V secolo, dalla data di rappresentazione della più antica tragedia ancora posseduta, i Persiani di Eschilo. Non solo nulla ci garantisce della stabilità dello spettacolo tragico in questa prima fase, ma abbiamo ottime ragioni per supporre al contrario sostanziali mutamenti.

Così si conclude (p. 37) il primo paragrafo del capitolo Le regole del gioco scenico, dedicato ai cori della tragedia, alla definizione, attraverso le fonti antiche, del choròs inteso fin dall’origine come spazio comunitario e come complesso di danzatori-musici-cantori che vi agivano collettivamente nelle occasioni cerimoniali e più marcate dell’intera comunità. Spazi comuni, dal choròs, lo spiazzo al centro dell’agglomerato abitativo, al teatro di Dioniso terrazzato sulle pendici sud-orientali dell’Acropoli; feste che interrompevano la vita quotidiana in onore di Dioniso; testi di autori ben differenziati che perpetuavano le forme dei canti tradizionali innovando e inframmezzandoli di discorsi e di dialoghi parlati; una recitazione convenzionale, codificata e antinaturalistica, condizionata dalle maschere e dai costumi; non più di tre attori che si spartivano, a seconda delle loro capacità, un numero maggiore di ruoli: sono queste le componenti che definiscono la differenza e la specificità inconfondibile del teatro ateniese e che Lanza affronta, una dopo l’altra.

La parola teatro si dice in molti significati. Sul nucleo stabile che denota una forma di comunicazione giocata anche, se non principalmente, sull’agire e sul vedere si caricano varianti decisive. Il teatro, i suoi codici e le sue forme, il suo senso, cambiano nel tempo e nella geografia. E la drammaturgia attica si definisce – come Lanza mette bene in luce – tra due poli di una dimensione sempre collettiva: da una parte le più antiche e arcaiche forme rituali, specie sacrificali valorizzate da un lessico marcato e pertinente, di cui talvolta include e custodisce le tracce all’interno delle nuove strutture testuali più complesse; dall’altra il quadro politico di cui, già dalla fine del VI secolo, il teatro regolato dai concorsi pubblici e dai collegi giudicanti è un istituto intrinseco e organico come le assemblee e i tribunali, sebbene con diverse e proprie funzioni.

È un teatro musicale che sfugge alle nostre abitudini di fruizione e anche alle nostre usuali categorie interpretative, che può essere frainteso o radicalmente banalizzato dalle aspettative e dalle reazioni inerziali di chi vi si accosta e crede di comprenderlo per analogia con il teatro naturalistico del XIX e del XX secolo, attraverso l’estetica dell’illusione e gli psicologismi intimistici proiettati sui personaggi. È un teatro – come si evince dalle riflessioni e dalle letture di Lanza – che scopre tutta la sua potenza solo se ricondotto nella cultura comunitaria in cui si è originato e interpretato iuxta propria principia, quei principi che facevano interagire e armonizzavano in una riconoscibile stilizzazione le convenzioni rigorose e stabili con le esigenze di verosimiglianza in continua ridefinizione.

È un teatro, quello tragico posto al centro di La disciplina dell’emozione, che possiamo recuperare alla modernità e alla nostra attualità quanto più ne mettiamo in luce l’anacronismo rispetto a noi in cui si prolunga l’anacronismo originario, drammatico e strutturale della tragedia. La tragedia ateniese per convenzione parlava del suo presente senza parlare del presente. Investiva temi e problemi contemporanei, ben documentati da Tucidide e dall’oratoria, sulle vicende e sui personaggi della materia tebana, atridica o troiana, per dislocazioni di tempo e di spazio, continuamente rivisitando e rimodulando il patrimonio delle credenze trasmesse e note al pubblico cittadino che garantivano la costante e certa correlazione sapienziale ed emotiva tra la scena e la cavea.

Teatro degli dèi e teatro degli eroi, teatro che combinava la più antica sapienza con i saperi più nuovi e lavorava sui racconti tradizionali del “tempo senza tempo” per sollecitare o provocare gli spettatori sulle più scottanti questioni contemporanee del suo proprio tempo storico: i Greci e i barbari, la pace e la guerra, i rapporti di genere. Un teatro, la tragedia attica, che si fondava e di volta in volta ridisegnava un “ritmo tragico” basato principalmente sull’uso sapiente delle strutture drammatiche, della parola, della musica e del canto, un ritmo che sembra mutare radicalmente dalla tragedia greca a quella senecana, come emerge dall’ultimo percorso di lettura, Finis tragoediae.

 Il ritmo tragico è il titolo dell’ultimo capitolo della prima parte del libro e resta, a mio avviso, uno dei passaggi più innovativi e pregiati di questa summa sulla tragedia antica. Lanza lo fa emergere rileggendo da vicino tragedie in cui violenza e trasgressione, sapientemente evocate dalla parola e più spesso dal canto con il supporto imprescindibile della musica, generano emozioni potenti sulla scena e dalla scena si trasmettono al pubblico, come dire alla comunità cittadina che nel pubblico si condensa. Sono turbamenti che per Lanza non si esauriscono nella paura aristotelica e coprono l’area più vasta e meno definibile del disagio:

 Ma la violenza, realizzata o soltanto incombente, non richiama solo l’esperienza paurosa della morte, essa segna anche la rottura di un’armonia. È questo disagio, che può avere moltissimi aspetti, a stabilire quello che si potrebbe definire il tono di ascolto della tragedia (p. 188).

 Il disagio dunque, la percezione della rottura di un ordine condiviso, di una lacerazione avvertita o consumata come cifra della tragedia ateniese. Lo smarrimento collettivo che il coro può talvolta compensare e talvolta, come nell’Agamennone, innescare, che i canti e i dialoghi possono placare o esasperare con il lirismo struggente di alcuni assolo o di alcuni duetti o con la concitazione delle sticomitie e delle antilabai, le battute spezzate, via via sempre più serrate, alimentando le emozioni fino al culmine di curve che nei finali Lanza vede temperarsi o ricomporsi (pp. 207-208).

 Sul sollievo che dovrebbe necessariamente subentrare al disa­gio, secondo la lezione della Poetica di Aristotele e nell’espressione celebre di Paul Valéry, ebbi modo di discutere a più riprese con il mio maestro.

Lanza, con straordinaria finezza, aveva rilevato e valorizzato incorporate nelle tessiture drammaturgiche sia forme di razionalizzazione gnomica e discorsiva sia tracce di stordimento fonico proprio dei compianti funebri, dei “corrotti” e dei veri e propri kommoi accompagnati dalle percussioni e dai gesti dell’autolesionismo regolati da un’antica codificazione ed espressamente nominati nel canto. Come le lamentazioni delle prefiche praticate nel Sud dell’Italia e studiate da Ernesto De Martino nel secolo scorso, anche i compianti tragici antichi e le consolazioni dovevano contenere e disciplinare il dolore e il disagio sulla scena e negli spettatori. Eppure, la mente di Oreste che sfugge al controllo come un cavallo senza briglie nel finale delle Coefore, le orbite vuote e insanguinate con cui Edipo ricompare nell’ultima scena dell’Edipo re, l’addio della vecchia Ecuba al corpo del piccolo principe ricomposto sullo scudo di suo padre nelle Troiane, la testa di Penteo tra le mani di sua madre nelle Baccanti, continuano a sconvolgermi, la provocazione di queste immagini mi pare prevalere su ogni possibile sedazione e non lasciarsi assorbire.

Era così anche per gli spettatori di Atene? O aveva ragione Aristotele e con lui Lanza nel cogliere il sollievo e la normalizzazione nello scioglimento drammatico? Resta e resterà il dubbio, sebbene Lanza in una delle ultime conversazioni, pochi mesi prima della sua scomparsa, ricordando il contributo che avevo presentato per i suoi festeggiamenti a Lille nel marzo 2008 mi salutò con le parole che non dimentico: «Sulla non ricomposizione tragica, temo che tu forse abbia ragione». Serbo quelle parole come un’eredità preziosa, come uno spunto per continuare a interrogarmi e a riflettere, come un’ulteriore apertura da aggiungere alle tante che il suo libro continua a offrire.

Si ringraziano Anna Beltrametti e l'editore per aver permesso la ristampa della nota 'Diego Lanza, signore delle emozioni', leggermente variata per essere adatta al blog. Le immagini con il compianto funebre sono tratte dal documentario Stendalì. Suonano ancora (1960) di Pier Paolo Pasolini ispirato a Morte e pianto rituale di Ernesto De Martino e che andrebbe ristudiato alla luce del rapporto tra Pasolini e la tragedia greca (specialmente l’Antigone). Al centro un'immagine dai 'Persiani' di Eschilo, Deutsches Theater di Berlino, stagione 2006/2007, eletto allora il miglior spettacolo sulle scene tedesche (la traduzione di Heiner Müller)