Una versione più ampia di questo articolo, dal titolo Su Pasolini traduttore classico: rilievi sparsi tra fatti e leggende è apparsa su ‘Semicerchio’, Rivista di poesia comparata, XLVII/2, 2012, 8-17, si può leggere qui.
Ringraziamo l’autore per aver permesso sul nostro blog la ripubblicazione di parti di quel contributo. (S.F.)
L’Orestiade, ossia la celebrata versione da Eschilo che Pier Paolo Pasolini frettolosamente realizzò, su impulso di Vittorio Gassman e Luciano Lucignani, per la stagione teatrale siracusana del 1960[1]: tale versione – si assicura da più parti – «fece sdegnare i filologi più conservatori», «per i puristi della filologia classica […] risultò scandalosa»[2].
E addirittura: «nel 1960 il Teatro Greco di Siracusa verrà ‘profanato’ dall’Orestiade di Pasolini […] con grande scandalo dei critici e sollevazione di popolo, classicisti in testa»[3]. L’opinione, in proposito, è unanime. Ma è un’opinione fondata?
Difficilmente si dà artista senza leggenda. Ancor più difficilmente ‒ data la leggenda ‒l’artista può rinunciare a un ideale antagonista: Kris e Kurz, su questo punto, hanno detto tutto l’essenziale[4]. Artista contraddittorio e consapevole quant’altri mai, Pasolini ha sempre lucidamente prefigurato i propri antagonisti ideali: preti o polizia, censura o generico establishment. Gli apologeti postumi hanno fatto il resto: ovviamente banalizzando, e riducendo a forma alquanto triviale quel che fu invece, o fu almeno, una sorta di mauditisme riflesso, sofferto e talora vistosamente autoironico (per raggiungere una qualche «autenticità attraverso l’inautentico», sintetizzava lo stesso Franco Fortini[5]). Per quanto concerne le traduzioni dall’antico, l’antagonista obbligato è facilmente prevedibile: esso sarà ovviamente l’Accademia, sarà la Filologia, sarà il mondo ostico e ostile dei Professori, custodi superciliosi di un patrimonio letterario che Pasolini, improvvisato grecista ma poeta per «istinto»[6], ebbe l’ardire di rinnovare, rivitalizzare, restituire genialmente ‒ contro ogni protesta professorale ‒ alla lingua della poesia odierna.
Così, appunto, vuole la vulgata, nelle sue mille ma monotone versioni. E il lettore interessato a sorbirne un saggio istruttivo farà bene a vedere, da capo a fondo, il documentario Gassman, Pasolini e i filologi (Italia, 2005), a firma di Monica Centanni e Margherita Rubino[7], dove la semplificazione storica è pari solo all’enfasi polemica. Qui, fra le altre cose, si sentirà descrivere un Pasolini osteggiato a priori dagli stessi committenti ‒ l’Istituto Nazionale del Dramma Antico ‒ e strenuamente difeso dai registi; si sentirà rievocare il «clima teso […] intorno alla sfida eretica di Gassman», e ritrarre un intero mondo accademico còlto dallo scandalo e dall’indignazione; si sentirà soprattutto riassumere, per sparse ma generose citazioni, l’atto infame di un Professore terribile, Enzo Degani, che nella sua recensione all’Orestiade di Pasolini[8] avrebbe sintetizzato il malumore della propria categoria, cioè la «fisiologica irritazione del filologo che vedeva invaso il proprio campo disciplinare da una diversa luce d’intelligenza».
È un bello scampolo della leggenda, tale documentario, e come tale lo si cita e consiglia. I fatti sono stupidi, diceva Nietzsche, ma spesso, a sfatare le leggende, bastano e avanzano. E alcuni solidi fatti – il caso è buffo ‒ si desumono dallo stesso documentario, non parco di documenti d’epoca. Ecco quindi le lettere dell’INDA, che su Pasolini si esprimono con parole compassate ma complimentose, non nascondendo affatto interessi di cassetta[9]. Ecco la rivelazione franca: per le Coefore si pensò, in un primo tempo, alla versione di Quasimodo (1949); dunque, non certo l’opera di un filologo o professore professo: anzi l’opera di un poeta che contro i professori ingaggiò, retoricamente, una guerra preventiva e in fondo non necessaria[10]. Ecco ancora i lacerti di stampa coeva che testimoniano, nel complesso, di un’accoglienza decisamente favorevole da parte del pubblico, della critica e soprattutto dell’accademia.
Tali lacerti andrebbero letti uno per uno, a ricostruire un quadro ben più articolato di quello che la leggenda tratteggia[11]. Basti qui ricordare la testimonianza di uno spettatore-filologo contemporaneo, Italo Gallo: «in complesso […] i giudizi della critica teatrale, soprattutto sulla traduzione, furono positivi»[12]; e basti rimandare alla rassegna stampa in «Dioniso» XXIV (1960), pp. 189-195, il cui semplice spoglio conferma la sostanziale infondatezza, o quanto meno gli eccessi, di molte ricostruzioni postume[13]. Quanto al mondo degli odiosi Professori ‒ presunta humus di uno scandalo pressoché nazionale ‒ non è gran fatica ricorrere agli atti del Convegno INDA che precedette, come d’uso, la prima siracusana: niente di più ufficiale, dunque, e niente di più accademico. Purtroppo, qui non si trovano né grida sdegnate né segni di diffuso sbigottimento. Al più, nell’intervento che talora si indica come particolarmente critico quello di Ettore Paratore si leggono placidi e bonari riconoscimenti all’indirizzo di Pasolini («complessiva vivacità e modernità della resa espressiva, che permette agli attori di affrontare finalmente un testo classico senza quell’impaccio, quel timore reverenziale, quel disagio in cui quasi costantemente li gettavano le versioni precedentemente adottate per la recite siracusane»; «nella versione del Pasolini, pur nella vesta così spigliatamente agile, non si perde quasi nessuno dei rutilanti impasti linguistici e stilistici dell’immaginosa temperie espressiva eschilea»)[14].
Riconoscimenti che oggi potrebbero apparire addirittura generosi. Altre critiche, altri sfoghi indignati? Nessuno. Eppure, proprio gli Atti congressuali siracusani erano indicati da Gassman come prova dell’ostilità diffusa in ambiente universitario: si leggano, al proposito, le compiaciute rievocazioni dello «scandalo» nella sua Intervista sul teatro («fu una versione splendida […]. Splendida e coraggiosa […]. Suscitò perfino un certo scandalo, come chiunque può constatare consultando gli atti del convegno indetto per l’occasione dall’istituto stesso, e pubblicati sulla rivista “Dioniso”») [15]. Chiunque può constatarlo, appunto: e constaterà inevitabilmente come lo scandalo sia invenzione in gran parte postuma.
L’astuzia celebrativa ‒ e pubblicitaria ‒ sottesa a una simile leggenda è così banale da non richiedere commenti. Essa può richiedere, semmai, documenti; e ce n’è uno poco noto che merita d’essere ricordato. Si tratta del preventivo auspicio che Gassman e Lucignani hanno consegnato alle pagine di «Sipario», allora, ben più che oggi, rivista influente e militante; nel numero del novembre ’59, nel contesto della tavola rotonda Il circo è pronto: fuori i leoni! ‒ vi parteciparono, fra gli altri, De Chiara, Gassman, De Feo, Prosperi ‒ Lucignani si augura con disarmante onestà: «speriamo che gli spettacoli di Siracusa scandalizzino qualcuno»[16]. Pochi mesi dopo, recensendo l’Orestiade per lo stesso mensile, Arnaldo Fratelli concludeva: «lo spettacolo ha avuto un successo tale, da poter essere definito un trionfo per Gassman e per i suoi collaboratori»[17].
Molto trionfo, dunque, e ben poco scandalo, se non invocato ‒ e poi ad arte gonfiato ‒ per comprensibili e umanissime ragioni. Può dispiacere ammetterlo, ma i Professori non sono sempre perfidi, né stolidi, come le leggende li dipingono.
Quanto alla famigerata recensione di Enzo Degani, essa – al di là delle distorsioni postume ‒ fu voce sostanzialmente isolata entro il coro dell’accademia e della critica italiane: il ripristino di questa elementare verità storica è quanto mai raccomandabile.
E, di tale recensione, tre cose almeno andranno rimarcate.
Innanzitutto, le critiche puntuali dello studioso – anche gli apologeti lo ammettono – sono semplicemente indiscutibili: la versione di Pasolini è in parte consistente ‘traduzione di traduzione’[18], non senza sviste badiali a partire dalla traduzione francese di Paul Mazon; e che questo sia un dato testuale trascurabile ai fini dell’esegesi ‒ anche dell’esegesi più simpatetica ‒ può pensarlo solo chi, più o meno crocianamente, oppone ancora filologia e poesia (cf. infra, § 2).
In secondo luogo, le critiche di Degani non sono affatto esclusivamente – e nemmeno, direi, prioritariamente – centrate sul dato linguistico e filologico: basta rileggerle per intero, quelle pagine lucidissime, senza fidarsi di estrapolazioni tendenziose, per appurare come il grecista contestasse severamente l’aspetto ideologico dell’operazione, cioè «la ingenua interpretazione pseudo-marxistica»[19] adottata, via George Thomson, da Pasolini e da Gassman-Lucignani[20].
Chi conosce l’opera critica di Degani sa che un intento profondo l’ha a lungo e in profondità animata; un intento culturalmente cruciale, e tutt’altro che meramente accademico, specie fra anni ’60 e ’70: strappare gli autori antichi a interpretazioni politicamente ingenue ‒ o pseudo-marxistiche, appunto ‒ tese a scorgere semplicità popolaresca laddove l’analisi rivela dottrina ed elitismo. Sarà, per il Degani maturo, il caso di Ipponatte o di certi alessandrini[21]; ed è già il caso, appunto, dell’Eschilo «elementare» fantasticato da Pasolini[22]; elementare, ‘civile’, e dunque annesso senza scrupoli al campo di un discorso para-marxiano ‒ sentimentalmente e strumentalmente marxiano ‒ che di Pasolini fu tipico.
Su ciò non è il filologo Degani che, motivatamente, si oppone: è semmai lo storico (e marxista) Degani. Infine, un ultimo dettaglio – di ordine fattuale – merita d’essere evidenziato, perché le regole della leggenda sono inclini più che mai a occultarlo: colui che nel 1961 si scaglia, isolato, contro il poeta Pasolini, non è un arcigno accademico di vecchio corso, né un autorevole rappresentate di supposti baronati filologici; egli è in verità un giovane studioso di appena 28 anni, alla sua terza pubblicazione scientifica. Non certo la figura ideale, dunque, per prestarsi alla parte che la leggenda vorrebbe imporgli: quella del rappresentante di un’Accademia canuta e reazionaria, rabbrividente di indignazione e insorta a una voce contro le intemperanze del poeta ribelle.
Quest’ultimo, semmai, era allora quel che si sa, e che Fortini così descriveva, già nel 1959, cioè nell’anno in cui Gassman e Lucignani gli commissionano l’Orestiade: «[Pasolini] è l’unico ‒ con Moravia, e forse per questo sono così amici ‒ che affronti intrepidamente il mondo dell’industria culturale, della ipocrisia ufficiale, e lo abbia costretto a patteggiare con lui. È una istituzione nazionale, ormai. Odiato e invidiato quanto è necessario alle istituzioni»[23].
A parte i fatti, i testi: qualche rilievo sull’Agamennone
Se si è insistito, in limine, sulla sostanziale infondatezza di una vulgata ancora così florida, non è solo per amore dei fatti: la deleteria semplificazione dei fatti ha ricadute cospicue sull’interpretazione. Una in particolare: l’allarmante tendenza a invocare, contro la filologia, le ragioni di una astratta, astorica «poesia». Un solo esempio fra i molti, attinto ancora al documentario di Centanni e Rubino: «nessuna traduzione, tantomeno quella di Pier Paolo Pasolini, si può analizzare scindendola nelle componenti e atomizzando le parole. Si tratta di un discorso poetico, e come tale va preso, nella sua interezza»[24].
Curioso postulato, per la poesia di ogni epoca o luogo, e per la critica di ogni ispirazione o scuola. Allo stesso modo, se delle traduzioni pasoliniane si continua a predicare ‒ come già si predicò, per voce degli stessi Gassman, Lucignani e Pasolini – un generico ‘anticlassicismo’, ci si preclude la via alla comprensione autentica del problema, non solo sotto il profilo testuale, ma anche sotto il profilo culturale e ideologico: di che specie d’anticlassicismo si parla, concretamente e storicamente? Ovvero: come è fatta e cosa fa la traduzione pasoliniana di Eschilo?
Si è suggerito, altrove[25], che le versioni pasoliniane ‒ si tratti di Saffo o di Eschilo, di Virgilio o di Sofocle ‒ nascano dal compromesso fra due pulsioni solo in apparenza opposte: per semplicità, e con qualche schematismo, diremo qui una ‘pulsione oggettivante’ e una ‘pulsione soggettivante’. La prima orienta tutte quelle metamorfosi dell’ipotesto antico che vanno nella direzione, fortemente astrattiva, di un lessico chiuso e tendenzialmente intellettualizzato; un lessico che elimina varietà e problematicità dell’originale condensandone i valori in un novero ristretto di parole-chiave, quasi parole-slogan, riducibili a campi semantici elementari e, in ultima analisi, a una basilare opposizione fra termini ‘euforici’ e ‘disforici’.
L’Eschilo binario ‒ e banalizzato ‒ della Lettera del traduttore non è solo una trovata esegetica, di vaga origine bachofeniana prima ancora che thomsoniana[26]: esso è premessa e insieme esito di una coerente semplificazione traduttiva, che incide sulle singole componenti o sui singoli ‘atomi’ del testo. Di contro, o meglio a complemento di tale pulsione, agisce e opera ovunque una tendenza a incrementare i tratti egoici, soggettivi, sui-referenziali del testo antico: la disseminazione di deittici, di pronomi personali e, più in generale, di marche semantiche della soggettività, produce una netta torsione del testo in senso emotivo o apertamente passionale.
Detto altrimenti: se da una lato la tragedia ‒ a livello enunciativo ‒ assume le forme del testo didascalico o del dramma a tesi, dall’altro lato ‒ a livello enunciazionale ‒ la mise en relief della ‘voce’ o delle ‘voci’ narrative guida inequivocabilmente a una spregiudicata lirizzazione dell’originale. Robuste personificazioni simboliche o emblematiche, da una parte; e, dall’altra, personalizzazioni non meno robuste, a maggior risalto di un ‘io’ indebitamente rilevato.
Ovunque, tra addizioni, omissioni e manomissioni, il traduttore sentimentalizza e, contemporaneamente, semplifica e schematizza. Quel che ne risulta non è un generico Eschilo ‘anti-classico’, giacché la definizione puramente negativa non potrà accontentare nessuno; quel che ne risulta è, più precisamente, un Eschilo forzato a divenire, da una parte, lyrical drama, o dramma della psiche; e, dall’altra, didascalico sistema di parole-chiave ‒ quasi ‘reti ossessive’ à la Mauron ‒ non di rado strutturate secondo ferrei sistemi di polarità (la «gioia» e l’«angoscia», la «purezza» e l’«impurità», etc.).
Pulsione ‘oggettivante’ e pulsione ‘soggettivante’, qui, non si elidono: esse piuttosto convergono, poiché l’intero vocabolario psicologico pasoliniano ‒ così spesso sovrimposto al testo eschileo ‒ dà luogo a ricorrenze terminologiche regolarissime, in cui trovano espressione, e talora personificazione, gli elementari concetti che meglio rispondono all’interpretazione generale della trilogia fornita da Pasolini: è il binarismo psicologico, e politico insieme, già ampiamente riscontrato dalla critica[27], non a caso vistoso in luoghi chiave del testo, e specie nei pronunciamenti corali. Per estrarre un coniglio dal cappello ‒ amava ripetere Lacan ‒ occorre prima avercelo messo. Per scoprire un Eschilo schematicamente binario, sospeso fra ‘preistoria’ e ‘storia’, fra ‘matriarcato’ e ‘patriarcato’, fra «sentimenti primordiali» e «ragione»[28], occorre prima averlo mascherato, o sfigurato, per via traduttiva. Un Eschilo indubbiamente univoco, e ‘facile’, quello di Pasolini. Una resa, la sua, che rientra appieno nella tipologia interpretativa che Cambiano, di recente, ha definito «cosmetica dei classici»[29]. Non sarà questo l’ultimo motivo – al di là della celebrata efficacia teatrale – per cui l’Orestea è così spesso riproposta, sulle nostre scene, proprio nella traduzione pasoliniana[30].
Traduzione ‘scandalosa’? Può darsi. Certo, uno scandalo che solletica; e che piace.
Altri appunti, e minime conclusioni
Quel che vale per l’Orestiade vale, almeno tendenzialmente, per tutte le traduzioni pasoliniane.
Il Pasolini traduttore classico – traduttore di testi alquanto diversi per genere ed epoca, da Eschilo a Plauto, da Sofocle a Virgilio – pare obbedire a regole alquanto ferree. Regole che impongono, in generale, una drastica assimilazione e semplificazione culturale del testo di partenza, quale che esso sia: perché ogni testo, a quanto risulta dai fatti, è destinato a divenire parte integrante di un sistema, verifica di un presupposto, dimostrazione di una teoria. Ecco dunque – per tornare a Fortini ‒ «un Pasolini che ‘può far di tutto’ (un dramma in versi, una traduzione dell’Eneide, una collana di sonetti o un romanzo epistolare)», intendendo con ciò che «egli può darci una sola cosa, un solo sentimento fondamentale dell’esistenza, quello dell’ubiquità nella duplicità polare»[31]. La «duplicità polare», appunto: e ciò guida a una conclusione più di dettaglio. Pulsione ‘oggettivante’ e pulsione ‘soggettivante’, come si è visto, determinano le scelte traduttive fino ai più minuti dettagli: selezione del lessico, strutturazione sintattica e retorica, evidenza dell’enunciazione e degli enunciatori. Tutto, nel Pasolini traduttore, mira a un ideale equilibrio fra due diverse ma non divergenti esigenze: ricavare, dal testo di partenza, un’intensità emotiva che ne sottolinei l’autenticità o genuinità immediata; ricavarne, al contempo, un sistema di valori astratti e astorici, che ne garantiscano la permanente valenza esemplare. La presunta ‘primitività’ dei classici – specie greci – è un pregiudizio tardo-romantico che facilita, quantomeno per Eschilo, l’audace operazione: alla prova dell’Orestiade, Pasolini si rivela senz’altro – ha scritto Sanguineti – l’«eterno poeta all’eterna ricerca del Buon Selvaggio»[32]. Un Buon Selvaggio che parla per parole irrazionali e allo stesso tempo razionalissime, elementari e, allo stesso tempo, artatamente riflesse.
Sotto questa luce, le versioni classiche risultano una straordinaria verifica delle ambiguità sottese all’intero mondo ideologico pasoliniano, notoriamente indeciso fra nostalgia di una primitività edenica e progressismo (o razionalismo) di maniera. «La preistoria […] è stata la stessa dappertutto», ha affermato Pasolini[33]: il che ben si capisce, se «preistorico» è per lui tutto ciò che sfugge – per anteriorità o per marginalità – al movimento storico della borghesia industriale; di qui, ovviamente, l’irrazionalistica idealizzazione dei Greci e della loro ‘mitologia’; di qui la netta resistenza alla storicizzazione della cultura greca o antica in genere, che induce il traduttore ad assimilare – assimilare tra loro, e assimilare a noi – tutti i testi via via volgarizzati. Di qui, infine, il tentativo – mirabilmente contraddittorio – di trovare nei ‘classici’ un paradigma di razionalità assoluta e, insieme, di liberatoria irrazionalità. Non a caso Fortini – per chiudere come si è iniziato – ebbe a diagnosticare, per il sodale-rivale, una spiccata tendenza alla «regressione interminabile (come si parla di ‘analisi interminabile’)»[34]. Del resto, si dà contraddizione più tipica – in Pasolini – di quella che le versioni classiche documentano nel corpo stesso dei testi? La contraddizione, si intende, fra sistema e passione: fra vocazione universalistica e ineliminabile, esibito individualismo.
L’Orestiade di Pasolini è stata di recente ristampata da Garzanti, con una introduzione di Massimo Fusillo dal titolo: ‘Dio si è pacificato con la morte’. Un Eschilo espressionista. Per Pasolini come traduttore vedi ora la tesi di dottorato e i contributi di Paolo Lago; su Pasolini e i classici greci si attende la stampa della tesi di Andrea Cerica. Durante il primo lockdown è stato trasmesso in streaming sul sito dell'istituto italiano di cultura di Parigi lo spettacolo 'Coefore.Note per un'Orestiade italiana' di Elio De Capitani, messo in scena nel 1999 all' Elfo di Milano, da cui è tratta l'immagine 8 e di copertina. Vedi qui la presentazione dello spettacolo da parte di Elio De Capitani.
Su Enzo Degani e la tragedia greca seguirà un breve profilo a cura di Ornella Montanari; si veda anche questo contributo di Guido Avezzù, Tragedia, storia e storia della tragedia: Enzo Degani storico della tragedia attica.
Nelle immagini: Pier Paolo Pasolini; due ritratti di Enzo Degani; Coefore, Oreste ed Elettra sulla tomba di Agamennone, Orestiade: regia di Vittorio Gassman e Luciano Lucignani; traduzione di Pier Paolo Pasolini. 'Coefore.Appunti per un'Orestea italiana' - regia di Elio de Capitani, Milano 1999. Rappresentazione al Teatro Greco di Siracusa, 1960; Valentina Fortunato (1928-2019), la Cassandra dell’Orestiade 1960 a Siracusa.
[1] Il testo di riferimento è ora P.P. Pasolini, Teatro, a c. di W. Siti, S. De Laude, Milano 2001, pp. 865-1004. Per tutti i dati relativi al notissimo episodio ‒ che non vale la pena riepilogare qui ‒ si vedano per es. M.G. Bonanno, Pasolini e l’Orestea: dal ‘teatro di parola’ al ‘cinema di poesia’, in U. Todini (a c. di), Pasolini e l’antico. I doni della ragione, Napoli, ESI, 1995, pp. 47-66; M. Fusillo, La Grecia secondo Pasolini. Mito e cinema, Firenze, La Nuova Italia, 1996 (e ora Roma, Carocci, 2007), pp. 190-214; P. Zoboli, La rinascita della tragedia. Le versioni dei tragici greci da D’Annunzio a Pasolini, Lecce, Pensa MultiMedia, 2004, pp. 131-136; da ultimo L. Vitali, Fortuna dell’Orestea nel teatro della seconda metà del Novecento: Pasolini, Gassman, Lucignani, Ronconi, Stein, «Quaderni del Novecento» VIII (2008), pp. 13-62, in part. 13-33.
[2] Si cita rispettivamente da L. Vitali, Coscienza, irrazionalità e sogno nell’Orestea secondo Pasolini, «Appunti Romani di Filologia» II (2000), pp. 127-137, in part. p. 127, e da A. Bierl, L’Orestea di Eschilo sulla scena moderna. Concezioni teoriche e realizzazioni sceniche, trad. it. Roma, Bulzoni, 2004, p. 62 n. 2. Citazioni da intendersi exempli gratia.
[3] M. Treu, Antico-classico = anti-classico?, «Ítaca» XXI (2005), pp. 181-199, in part. p. 183.
[4] E. Kris-O. Kurz, La leggenda dell’artista. Un saggio storico, trad. it. Torino, Bollati Boringhieri, 1989, pp. 21-37, 96-111 e passim.
[5] Fortini, op. cit., p. 29 (la pagina è precoce: del ’59).
[6] Uno dei termini più ricorrenti nella stessa prefazione traduttiva pasoliniana; cf. Pasolini, op. cit., pp. 1007-1009.
[7] Il documento è disponibile presso il sito della rivista «Engramma», all’indirizzo <http://www.engramma.it/engramma_revolution/49/049_saggi_centanni_rubino.html> (ultimo accesso, 1 dicembre 2012).
[8] E. Degani, rec. Eschilo. Orestiade, trad. di P.P. Pasolini, Torino, Einaudi, 1960, «Rivista di Filologia e Istruzione Classica», XXXIX (1961) pp. 187-193, ora in Filologia e storia. Scritti di Enzo Degani, Hildesheim-Zürich-New York, Olms, 2004, pp. 177-183.
[9] Come osserva ‒ con franchezza e buon senso ‒ Stefano Casi, Gassman e Lucignani non si rivolsero certo a Pasolini perché informati del suo coevo lavoro sull’Eneide (questa la versione avvalorata a posteriori dal poeta nella Lettera del traduttore); «è in realtà molto più credibile pensare che Gassman e Lucignani vedano in Pasolini lo scrittore più stimolante di questi anni e l’intellettuale più appariscente e chiacchierato della sinistra italiana, perfettamente adatto alle scelte del Tpi» (S. Casi, I teatri di Pasolini, Milano, Ubulibri, 20052, p. 89; corsivi miei, come sempre d’ora in poi se non diversamente dichiarato).
[10] Cf. e.g. S. Quasimodo, Lirici greci, a c. di N. Lorenzini, Milano, Mondadori, 1985, p. 208. Si veda però, ibid., la panoramica di giudizi critici fornita da N. Lorenzini, Postfazione, pp. 219-275, che sfata il mito di una comunità accademica pregiudizialmente ostile.
[11] Lo si farà in altra sede: Eschilo, Pasolini, «i filologi» e lo scandalo, di prossima pubblicazione.
[12] I. Gallo, Pasolini traduttore di Eschilo, in U. Todini (a c. di), op. cit., pp. 33-43, in part. p. 34; ibid., pp. 280s. una rassegna delle recensioni coeve.
[13] Ciò che osserva, pur en passant, Fusillo, op. cit., p. 196 n. 47: «lo “scandalo” rievocato da Gassman […] fu quindi essenzialmente accademico». Nemmeno accademico, direi senza esitazioni.
[14] Si cita da E. Paratore, Considerazioni in anteprima, «Dioniso» XXIV (1960), pp. 78-91, in part. p. 79.
[15] V. Gassman, Intervista sul teatro, a c. di L. Lucignani, Palermo, Sellerio, 1992, pp. 113s.
[16] Il circo è pronto: fuori i leoni!, «Sipario» 163 (novembre 1959), pp. 4-9, in part. p. 8.
[17] A. Fratelli, Un classico moderno, «Sipario» 170 (giugno 1960), pp. 23s., 70, in part. p. 70.
[18] Com’erano già state, per esempio, le traduzioni friulane da Saffo. Le prove di dipendenza dai Lirici di Quasimodo sono palmari, ma minimizzate o trascurate volentieri; cf. F. Condello, Pasolini traduttore di Saffo: note di lettura, «Testo a Fronte» XVIII/37 (2007), pp. 23-40.
[19] Degani, op. cit., p. 188 (ora in Filologia e storia, cit., p. 178).
[20] Da questo punto di vista, la recensione del ’61 andrebbe sempre letta tenendo ben presente l’intervento di Degani in AA.VV., Marxismo, mondo antico e Terzo mondo. Inchiesta a c. di E. Flores, Napoli, Liguori, 1979, pp. 119-125 (ora in Filologia e storia, cit., pp. 958-964).
[21] Si ricordino almeno gli Studi su Ipponatte, Bari, Adriatica, 1984, rist. Hidelsheim-Zürich-New York, Olms, 2002, ormai un classico della filologia europea del secondo Novecento. Per un ritratto di Degani, cf. AA.VV., Da ΑΙΩΝ a Eikasmos. Atti della Giornata di studio sulla figura e l’opera di Enzo Degani, Bologna, Pàtron, 2002; per gli studi sull’epigrammistica alessandrina ‒ particolarmente soggetta a distorsioni ‘populistiche’ ‒ cf. ibid., pp. 89-99, l’intervento di L. Lehnus, ora anche in Id., Incontri con la filologia del passato, Bari, Dedalo, 2012, pp. 229-241.
[22] Si veda sempre la Lettera del traduttore, in Pasolini, op. cit., p. 1008.
[23] Fortini, op. cit., p. 18.
[24] Un intervento canonico, per quanto concerne la ‘reazione’ condotta in nome della poesia, è N. Fagioli, L’Orestiade di Pasolini, «Resine» III (1980) 9-18. Una visione equilibrata ‒ e non restia all’analisi puntuale del testo ‒ è quella ormai canonica di Fusillo, op. cit. Più di recente, le ragioni della poesia sono invocate da L. Vitali, Fortuna dell’Orestea, cit., p. 18.
[25] Oltre a Pasolini traduttore di Saffo, cit., sia permesso il rinvio a Quasimodo, Pasolini, Sanguineti: appunti per tre Coefore, «Dioniso» n.s. IV (2005), pp. 84-113.
[26] Che vi si possano scorgere elementi di deflagrante originalità è bizzarro, alla luce della ricca storia critica dell’Orestea; di questo avviso, invece, è per es. Vitali, opp. citt., cui si aggiunga Ead., La colpa, il sacrificio e il destino degli antieroi nel teatro tragico di Pasolini, in E. Fabbro (a c. di), Il mito greco nell’opera di Pasolini, Udine, Forum, 2004, pp. 55-67.
[27] Si veda in particolare, per la centralità dei termini afferenti al campo semantico del ‘contrasto’, Bonanno (1995, 53-55).
[28] Pasolini, op. cit., p. 1009.
[29] G. Cambiano, Perché leggere i classici. Interpretazione e scrittura, Bologna, il Mulino, 2010, pp. 43-63.
[30] In una delle ultime e più solenni occasioni, ancora a Siracusa, nel 2008, per la regia di Pietro Carriglio. Ma le riproposizioni non si contano.
[31] Fortini, op. cit., p. 24 (notazioni risalenti ancora al fatidico 1959).
[32] E. Sanguineti, Giornalino secondo, 1976-1977, Torino, Einaudi, 1979, p. 134.
[33] P.P. Pasolini, Per il cinema, a c. di W. Siti e F. Zabagli, Milano, Mondadori, 2001, p. 2928.
[34] Fortini, op. cit., p. 192 (l’annotazione è del 1979).