default_mobilelogo

Newsletter

Vuoi ricevere una notifica quando sono disponibili nuovi contenuti sul nostro blog? clicca qui

Tutti o quasi ricorderanno che Achille, nell’Iliade, è detto ‘dal piede veloce’. Non si tratta solo di un epiteto esornativo: per un guerriero come Achille correre il più velocemente possibile significa riuscire a salvarsi la vita, da una parte, e dall’altra poter attaccare il nemico.

L’eroe omerico, senza la forza e la velocità delle gambe, è nulla. La potenza dell’uomo si misura, in Omero, dalle sue ginocchia; l’essere umano stesso consiste nell’unione delle sue membra, in cui le ginocchia svolgono il ruolo principale, tanto che una metafora per dire ‘morire’, in Omero, è  ‘sentirsi sciogliere le ginocchia’. Quando Ettore ed Achille si trovano di fronte in duello, in una delle narrazioni più ricche di suspence dell’Iliade, il primo fugge, fugge sino a restare senza fiato, allontanandosi dalla città, in un’ultima disperata gara, che non è – dice il poeta – una gara sportiva per conquistare un premio (Il., XXII, 159-161) – ma una gara che ha in palio la vita. Achille insegue Ettore in una scena onirica, in cui inseguito e inseguitore potrebbero andare avanti all’infinito: ma uno dei due deve morire, è il suo fato, e perciò sono costretti a fermarsi e a combattere. Ettore muore, perché così è stabilito.

Con la corsa all’ultimo respiro di Ettore e Achille comincia anche nella letteratura occidentale la metafora dell’esistenza, o della sopravvivenza, come una gara di corsa; ed ancora con Omero comincia la descrizione del  dialogo che chi corre compie sempre con sé stesso, in cerca di incoraggiamento, aiuto, energia, in cerca anche dell’intervento di qualche forza superiore, di un dio, ad esempio, che conceda la vittoria.

Sin dall’inizio della letteratura occidentale, dunque, correre non è solo un’azione fisica, ma anche una metafora per l’esistenza, che significa sfida continua, messa in gioco di tutte le proprie energie, fuga dai pericoli, riconoscimento e controllo delle proprie emozioni. Vi sono tanti esempi che vengono in mente, da La solitudine del maratoneta di Allen Sillitoe a L’arte di correre di Haruki Murakami, ma a me viene in mente un giudizio, molto meno conosciuto, di Friedrich Hölderlin sulla tragedia greca: la tragedia, scrive Hölderlin,  è come « una gara di corridori, in cui colui che per primo stenta a prendere fiato e urta l’avversario ha perso»[1].

Perché correre non è solo un’azione di riconoscimento e miglioramento spirituale, ma anche – come insegna appunto l’Iliade – una lotta per sopravvivere. Hölderlin parla, in particolare, dell’Antigone, ossia di quella tragedia greca in cui viene messa in scena la rivolta di una figura femminile, giovane e in età da marito, contro un potere ottuso e crudele. Lo stesso tema di Blind runner, presentato alla Biennale Teatro 2024, del regista iraniano  Amir Reza Koohestani.

La metafora  della corsa come tragedia, nel senso che aveva colto Hölderlin, sta infatti alla base di Blind runner, una pièce che andrebbe fatta vedere in tutte le scuole e in tutti i teatri, per la sua capacità di raccontare una storia universale di resistenza, di rivolta, di sacrificio contro un regime ingiusto e disumanizzante, un regime che non è solo quello iraniano. Il titolo della pièce è assonante, forse intenzionalmente, con Blade runner, ma il film di Ridley Scott racconta una distopia in cui dominano replicanti degli esseri umani privi di emozioni mentre Blind runner racconta di esseri umani che contro le copie di regimi indifferenti e privi di compassione difendono disperatamente,  a costo della loro vita, la capacità di amare e di sentirsi solidali.

Perciò in Blind runner parola, gesto, corpo, ritmo, respiro diventano un unico atto performativo che non va ‘guardato’ a distanza, come un film, ma esperito, sentendo insieme agli attori il soffocamento della prigionia, l’impossibilità di toccarsi, l’inutilità delle parole vuote, la paura del controllo e soprattutto il movimento del correre, con tutta la sofferenza che porta: correre nel buio all’unisono con qualcuno che ci guida, qualcuno che diventa, grazie al suo amore, un’estensione di noi stessi, che con noi è pronto a gettarsi nell’oscurità della morte per cercare di dimostrare la luminosità della vita.

Blind runner è uno spettacolo poetico. I sottotitoli aiutano a ricostruire la storia, ma anche senza questi il suono della lingua persiana esprimerebbe ugualmente le ansie, le paure, l’intimità e il finale salto nel buio delle due figure in scena, un uomo e una donna, quasi isole corporee chiare in una scena nera, corpi che corrono lasciando scie luminose nella notte.

La storia è quella di una coppia  separata da mura di prigione: lei è in carcere a causa di un post politico sui social. Si erano conosciuti correndo maratone, e la corsa per loro era una promessa di libertà. Volevano infatti correre una maratona privata attraverso il tunnel sotto la Manica per chiedere asilo in Gran Bretagna. Ma la donna è stata messa in prigione, e così l’uomo va a Parigi per correre la maratona come guida ad un’atleta divenuta cieca perché colpita al volto, agli occhi, da un’arma da fuoco durante una manifestazione.

A Parigi, i due decidono di attraversare il tunnel della Manica, per raggiungere la terra di coloro che hanno fornito e forniscono al regime iraniano le armi per poter ferire e uccidere i manifestanti. Le due figure sanno di non aver raggiunto nessuna terra promessa e che i carnefici sono ovunque, non solo in Iran. L’esilio, perciò, non è una soluzione. La sfida diventa allora contro quel treno che attraversa il tunnel, nel tentativo impossibile di essere più veloce della macchina mostro che non si può fermare, che avanza fagocitando tutto.  Se si tratta di un sogno, oppure se davvero i due affrontano il tunnel e muoiono resta incerto. La corsa è ‘cieca’ perché avviene nel buio della ragione, nel buio dei sentimenti, nel buio dell’incomprensione, nel buio della solitudine, ma anche nel buio notturno di un incubo, dal quale non ci si può però risvegliare.

E tuttavia, in questo commovente atto di testimonianza, Blind runner non è uno spettacolo completamente senza speranza, anche se permeato da amarezza, disillusione e forse anche dall’inevitabile senso di colpa di chi è fuggito e può solo testimoniare. La speranza sta appunto nella pallida possibilità di suscitare una rivolta contro tutto questo. E di cominciare e poi continuare a correre, unendosi alla corsa di altri, fuori dall’atmosfera magica dei teatri e dei festival, tra la gente che corre e vive e muore nel tentativo di raggiungere la libertà o anche solo il sogno di essa.    

 

[1] Note alle traduzioni di Sofocle, in: F. Hölderlin. Prose, teatro, lettere, a cura di Luigi Reitani, Milano 2019, p. 781.