Quando fu pubblicata in Italia la traduzione di Cassandra di Christa Wolf ero matricola di Lettere classiche all’ Università di Bari.
Naturalmente un romanzo su un mito greco attirò la mia attenzione di lettrice onnivora, ma non fu solo il tema ad attrarmi. La scrittrice viveva a Berlino, in un altro mondo, al di là di un muro all’ombra del quale molti ragazzi della mia generazione sognavano di andare a vivere in comunità aperte, libere da legami familiari e sessuali, dove si praticava l’arte e il sogno.
Di quel mondo non sapevo nulla: e quando, pochi anni dopo, mi fu data una borsa di studio per attraversare quel muro, mi ci recai del tutto ignara di quel che mi aspettava. Arrivai in una città spettrale ancora piena di macerie della guerra, dalle mura annerite, con macchine tutte uguali, che sembravano vecchi giocattoli dai colori squillanti. Una città senza cartelloni pubblicitari e dove le ore erano marcate da un megafono che ricordava come bisognava essere riconoscenti agli amici sovietici che avevano salvato i tedeschi dal nazismo. A Berlino Alexanderplatz, piansi cantando la canzone di Milva e Battiato.
Io venivo da un altro mondo, solare, mediterraneo, contadino. Un mondo più in comune, almeno nelle luci, nei suoni, negli odori, con il mondo della mitica Cassandra che non di Christa Wolf. Dal porto di Bari partivano e partono i traghetti diretti verso la Grecia, una Grecia che i distratti anni del liceo non avevano certo contribuito a farmi amare, né a conoscere. Il libro fu un successo. La Cassandra di Christa Wolf parlava a tutte le ragazze della mia generazione, a tutte le donne che volevano far sentire la loro voce; a tutte le donne che volevano fare politica nonostante fossero a priori escluse da ogni decisione e ruolo importante in un sistema retto dai maschi. Quella Cassandra parlava per chiunque di noi, dove noi eravamo le ragazze che avevano letto Speculum, che si definivano femministe, anche senza reale consapevolezza. Noi parlavamo anche di separatismo, ma poi facevamo di tutto per piacere ai ragazzi; noi ci vergognavamo di andare in discoteca, però ci andavamo di nascosto, sperando di non essere scoperte dai ‘compagni’; noi eravamo dilaniate tra il bisogno di imporci per le nostre capacità intellettuali e le seduzioni di un capitalismo che prometteva felicità per tutti, una felicità che si poteva costruire come si poteva costruire un fisico tonico con l’aerobica.
Ma la Cassandra di Christa Wolf ci parlava anche di un potere che stringe d’assedio ogni individuo, che cambia la maniera di comprendere il mondo diffondendo notizie false. Un potere che soffoca l’espressione di chiunque non intende uniformarsi alle sue regole; un potere che non ammette di essere messo in discussione: e che usa lo spauracchio della guerra per incutere una paura paralizzante.
Noi non sapevamo nulla di quel potere e lo sentivamo lontano, come un problema altrui. Avevamo vissuto l’adolescenza in anni difficili, anni di stragi e di bombe, del rapimento e dell’uccisione di Aldo Moro, anni pesanti come il piombo. Avevamo conosciuto qualcuno più grande di noi che si era perso, credendo di inseguire un sogno, stritolato da un’ideologia sbagliata. La Cassandra di Christa Wolf per noi diventava un simbolo: lei, la resistente, nei pensieri, nelle parole, nelle azioni. Ma anche una donna piena di rabbia, rancore, odio. Quel suo pensiero ricorrente ‘Achille la bestia’ diventava nostro, ci pungeva la mente, ogni volta che per strada o nelle aule universitarie dovevamo difenderci non solo da sguardi, ma anche da gesti e concreti pericoli.
Come Cassandra, eravamo fragili: volevamo essere libere di amare. E l’amore stava al centro della nostra vita, al punto da farci dimenticare il monito terribile e più importante che veniva da quel piccolo romanzo. Quel monito era: attenzione, ci controllano, attenzione, ci spiano, attenzione, ci fanno pensare ciò che vogliono. In quell’inizio degli anni ’80 il mondo era sul filo del rasoio di una guerra nucleare. Questo voleva denunciare la Cassandra di Christa Wolf, lasciando udire la sua voce da un presente diventato mito e da un mito usato come travestimento del presente. Voleva avvisarci del pericolo. Elena non esisteva, era stata solo un pretesto. E «una guerra condotta per un fantasma, può solo essere perduta», dice la Cassandra di Wolf.
Eppure a noi che leggevamo quel romanzo, forse per la nostra diversa condizione geografica e sentimentale, rimase impresso più il bisogno di un amore puro e struggente, libero, la rabbia contro il patriarcato, la rivolta contro la famiglia e contro chi ancora ci considerava un oggetto da vendere in un buon matrimonio borghese. Christa Wolf, con una prosa nervosa, frammentata, in un monologo serrato in cui era facile perdersi, una prosa a cui in Italia non eravamo abituati, aveva reso gigantesca una figura minore degli infiniti racconti dei Greci. Aveva parlato, con quella figura, di sé e contemporaneamente di tutte le donne che volevano finalmente acquistare una voce letteraria dopo secoli di censura. Wolf ci aveva fatto capire, come la poetessa da lei più amata, Ingeborg Bachmann, che non è l’Io a vivere nella Storia, ma la storia a vivere nell’ Io.
Cassandra, la sua Cassandra, fuori dall’immaginazione mitologica, si poneva come un sismografo della storia e avvertiva di pericoli imminenti e sottovalutati.
La lettura di Cassandra fu un momento importante della mia formazione. Decisi di studiare più profondamente la lingua e la cultura tedesca, anche per capire perché per i tedeschi era così importante riferirsi ai miti greci per parlare di loro stessi e del loro presente. Imparai il tedesco, che nella mia famiglia, per qualche ricordo di guerra dei nonni, era sentita come una lingua nemica, dura, echeggiante di ricordi dolorosi e indicibili. La storia correva veloce. Ero in Germania l’estate del 1989, in Germania dell’est, e raccolsi tutte le insoddisfazioni e l’angoscia dei miei coetanei. A novembre cadeva il muro.
Christa Wolf era stata protagonista di un memorabile comizio ad Alexanderplatz, pochi giorni prima che si aprisse la breccia nel muro di Berlino per lasciar passare un fiume inarrestabile di persone. La storia correva veloce. Il muro, quello dietro al quale Cassandra parlava, era caduto, con tutta la nostra commozione mentre avevamo gli sguardi incollati alla televisione, ma anche con la delusione di pochi già nostalgici che credevano che quel muro avesse sino ad allora protetto la parte giusta del pianeta. Ma la caduta del Muro, di quel muro, aveva un significato epocale, più della caduta di Troia: sognavamo che tutti i muri sarebbero caduti.
Forse la sofferenza di Cassandra non era stata inutile; forse il regime oppressivo raccontato dalla Cassandra di Wolf nel romanzo poteva dirsi una pagina chiusa, definitivamente. Forse potevamo finalmente sognare un’Europa senza barriere e senza guerre. Non era proprio così.
Nel ’91 lo scrittore nigeriano Wole Soyinka, premio nobel per la letteratura nel 1996, fu invitato in una grande conferenza a Parigi sull’Europa dopo la caduta del muro, e lì disse che il fantasma di Cassandra si muoveva ancora nelle strade del mondo. Wole Soyinka era stato in prigione per aver espresso una opinione contro il regime dittatoriale del suo paese impegnato in una guerra contro il Biafra. Al secondino che prima di portarlo in una cella di isolamento gli aveva chiesto perché mai si fosse assunto il compito di fare quell’affermazione, avrebbe voluto rispondere: «Cassandra. Il mio nome è Cassandra». Perché Cassandra, come diremo, non lancia solo l’allarme, ma chiede anche che ognuno di noi si prenda le proprie responsabilità.
Passarono gli anni. Nel 1991 a Bari, dove continuavo a studiare per il dottorato, arrivò una nave arrugginita carica sino all’inverosimile di esseri umani, aggrappati persino sul palo della prua. Davanti a noi, per la prima volta, c’era una marea umana di disperati, che ci chiedevano aiuto, che avevano percorso uno stretto braccio di mare alla conquista di un mondo nuovo. Cominciavano a cadere così altri muri, invisibili non solo perché non erano muri di mattoni, ma perché noi non li avevamo voluti vedere. Cassandra, però, la Cassandra di Christa Wolf, l’aveva visto: non fugge da Troia, non segue Enea per fondare un’altra città, perché sa che i sopravvissuti sarebbero stati soggetti a nuovi padroni. Resta a Troia, come atto di testimonianza. Da lì sarà deportata. Si fa prova vivente dell’orrore e del dolore, perché altri ricordino. Gli ‘altri’ eravamo noi, noi che avevamo letto il romanzo, noi che avevamo pianto davanti alle immagini della caduta del muro di Berlino. Noi che vedendo Il cielo sopra Berlino di Wim Wenders avevamo creduto che l’angelo della storia ci avrebbe protetti dal rivedere città ridotte in briciole dai bombardamenti.
E invece eravamo rimasti in un silenzio attonito davanti a un’altra guerra, dal nome quasi romantico di Desert Storm, che aveva riportato sugli schermi esplosioni come lucciole nel cielo infinito della notte, e ancora distruzioni e macerie. E ora eravamo impotenti di fronte a quella marea umana che sembrava un’invasione. E saremmo restati impotenti, dietro gli schermi televisivi, durante i cinque terribili anni della vicinissima guerra nella ex Jugoslavia. Il fantasma di Cassandra evocato da Wole Soyinka aveva già visto tutto questo.
E dunque: le parole di Cassandra, come già nel racconto mitologico greco, non erano servite a niente? E ora: cosa farne di questi stranieri venuti dal mare? dovevamo averne paura? Avevamo dimenticato che anche Cassandra era una straniera, deportata, insieme alle altre donne, dalla sua patria, oltre il mare. Cosa accade all’essere umano quando perde la dignità, quando viene trattato come un animale da macello, quando viene privato dei suoi ricordi, e deve fuggire la guerra, la fame, la tortura? Una filosofa che lesse i classici greci alla luce dello spirito cristiano, Simone Weil, ha scritto che l’uomo in queste condizioni diventa una ‘cosa’. Anche Cassandra, nel mito, era una ‘cosa’ come altre, una parte del bottino di guerra. Le ‘cose’ non possono parlare, non possono nemmeno pensare, non sanno nemmeno più chi sono o hanno voluto dimenticare chi sono. Ecco: la nave che attraccò a Bari era colma di ‘cose’ in cui noi a stento riconoscevamo esseri umani. ‘Cose’ erano anche coloro che morivano sotto i bombardamenti in Iraq. Ma perché gli esseri umani sono ridotti a ‘cose’?
Simone Weil, commentando l’Iliade, vedeva questa come una conseguenza della Forza, una potenza inestirpabile che muove i destini del mondo. Ma Simone Weil non poteva, mentre scriveva, essere più esplicita: per Forza lei intendeva, nel 1941, il nazismo. Non poteva scriverlo perché sarebbe stata censurata. Ma la Forza non è solo il nazismo: la Forza è il potere, ogni potere che si pone come totalitario, ogni potere che riduce gli esseri umani a nullità per sete di dominio, un potere che vuole la guerra per espandere la propria sfera di influenza, che si impone sulla guerra, che giustifica la guerra anche con l’alibi, pallido e incomprensibile, della difesa o della sicurezza. Questo si ripete nella storia dell’uomo, ed allora, si chiede lo scrittore nigeriano Wole Soyinka, Cassandra non può morire, il suo fantasma si aggira per le nostre strade, perché la funzione di Cassandra è gridare, avvertire del pericolo o della catastrofe, testimoniare: e non importa se Cassandra non è creduta, gridare è nella natura di chi scrive, di chi pensa, dell’artista.
Il fantasma di Cassandra – dice Wole Soyinka – era lì, appena caduto il muro di Berlino, ad avvertire che già si stava scavando per erigere nuove mura, era lì con la sua «lingua gravida di verità». Cassandra grida nonostante il gelo di disprezzo che la circonda, si lancia alle porte della città come un’invasata nonostante la folla la insulti, viene fermata dalla polizia. Soyinka si chiede: perché Cassandra, unica tra tutti, sapeva? Come per la Cassandra di Christa Wolf, non c’è un dio che la ispira. Aveva forse scoperto i Greci che si nascondevano nel cavallo? No, dice Soyinka. «Cassandra non fece altro che ascoltare il linguaggio del cavallo silenzioso, le sue sospette emanazioni, le tempistiche di quello strano dono – e ascoltare il silenzio inquietante del campo di battaglia ormai deserto. Ascoltò questi segni, e li decifrò agevolmente. Nulla di più mistico.»
Tutti siamo in grado, se vogliamo, di ascoltare; e non c’è bisogno della vicinanza, perché possiamo vedere anche quel che accade lontanissimo da noi, ma per ascoltare altri esseri umani c’è bisogno solo di empatia. Tutti disponiamo di quel che Soyinka chiama «la sapienza di Cassandra» - perché sappiamo e conosciamo, se vogliamo. Eppure, dice ancora Soyinka, «la virtù dell’ascolto e la responsabilità di porre rimedio al male si sono dimostrate intermittenti, perfino ambigue».
La Cassandra di Christa Wolf e quella di Soyjnka, nate nel nostro mondo diviso da muri, nel mondo post-atomico minacciato da una guerra senza esito se non la distruzione, questa Cassandra nuova, così diversa dalle testimonianze antiche, una Cassandra che non è folle e non si ribella a un dio, ma agli uomini, questa Cassandra che ha già visto l’orrore delle guerre mondiali, questa Cassandra consapevole del suo genere ma già al di là del genere, ci richiama alle nostre responsabilità.
Non possiamo restare indifferenti, non possiamo chiudere gli occhi, non possiamo turarci le orecchie di cera. Certo, Christa Wolf aveva la consapevolezza di vivere in un regime totalitario; così anche chi è vissuto durante il nazismo, e ha cercato, come Cassandra, di avvisare gli altri: ‘mi chiamavano Cassandra’, dice il sonetto di un resistente tedesco, Albrecht Haushofer, che fu ritrovato in un foglio scritto di suo pugno tra le macerie della prigione di Berlino dove fu rinchiuso prima di essere giustiziato dai nazisti, mentre i sovietici erano già alle porte della città. Da una chiesa di Lubecca, insieme ad altre figure religiose, una Cassandra del 1947 giudica ancora e per sempre i crimini di guerra.
Ma noi? Siamo davvero in grado di capire chi ci controlla e perché ci controlla? Siamo davvero in grado di definire un regime come totalitario, di non cadere vittima di una visione distorta? La storia, credo, ci può aiutare.
Perché essere Cassandra significa non restare ciechi al presente, ma anche e soprattutto al passato. Ecco perché il romanziere cubano Marcia Gala ci racconta in Chiamatemi Cassandra una storia ambientata nella Cuba degli anni 80-90, dove un ragazzo poco più che adolescente, che si sente donna in un corpo di uomo, viene stritolato da una cultura machista e violenta e diventa vittima di una guerra ingiusta come tutte le guerre in Angola e trova libertà di essere sé stesso solo nella morte. Questa commovente Cassandra lancia il suo grido ferito contro ogni discriminazione, ma ancora contro ogni guerra. Anche questa Cassandra sa, semplicemente perché ha imparato dalla storia, e si rifugia nel mito e nel sogno di una Grecia inesistente e incontaminata per poter affermare sé stessa.
Cassandra ci avverte del futuro, ma raccontandoci del passato: come nel romanzo epistolare della scrittrice di origine somala Igiaba Scebo, che racconta la distruzione di Mogadiscio, i segni che precedevano la guerra e il suo orrore, il crollo del mondo di tutta la sua famiglia, ma con la prospettiva che non è di morte, ma di vita, di possibilità di perdono e di riconciliazione. Cassandra aveva ragione, ma quella ragione non le è servita e non ci serve se non si tramuta in memoria: «Ormai Mogadiscio è morta. Si trova nel paradiso (o forse dovrei dire inferno) delle città perdute. La vedo seduta accanto a una Troia sanguinante, mentre Cassandra, la figlia di Ecuba e Priamo, ne osserva le cicatrici. E le sue lacrime diventano polvere. E se quella Cassandra fossi io?» - si chiede la scrittrice. E allora racconta, e alla fine delle sue pagine, ringrazia l’antica profetessa, la figlia di Priamo, che conosceva la verità:
«perché la storia può toglierci la casa, ma non la voce; può accecare i nostri occhi, ma mai, mai la nostra memoria.»
I libri citati sono: Wole Soyinka, Il fantasma di Cassandra. Del potere e della libertà, 2020; Marcial Gala, Chiamatemi Cassandra, 2022; Igiaba Scebo, Cassandra a Mogadiscio, 2023 e naturalmente Christa Wolf, Cassandra.