«Una donna che si chiama Antigone ha coperto con i suoi vestiti la testa mozzata del fratello, che era stata esposta come monito. La donna è stata sorpresa da un detentore della legge, che si fa chiamare Jehuda, il Grande Inquisitore.
Costui le si avvicina, Antigone è prostrata a terra. Jehuda, il Grande Inquisitore, estrae dal suo cappello il mazzo di fiori che adorna il coltello con il quale ha già ucciso altri personaggi dello spettacolo, e lo sospende sulla nuca di Antigone. Ma non la uccide, le gira intorno, e a quel punto, l’oscurità che fino a quel momento ha regnato nella sala si dissipa, e una luce dorata, il sole, appare. Jehuda cerca per terra con il suo coltello: trova l’ombra di Antigone, comincia a raschiarne i contorni. Delimita l’ombra e nello stesso tempo sembra volerla cancellare.
Così continua la scena, mettendo l’uno di fronte all’altra il pugnale che cerca di raschiare l’ombra e l’ombra che inesorabilmente avanza.»
Questo è l’esordio fulminante di un discorso, dal titolo L’ombra di Antigone, che Eugenio Barba pronunciò alla Biennale di Venezia nell’ottobre del 1985 (si può leggere per intero in questo libro edito da Edizioni di Pagina, che è in Italia, per il tramite di Franco Perrelli, l’editore principale degli scritti di e su Barba).
Perché la scena con il Grande Inquisitore che cerca inutilmente di cancellare l’ombra di Antigone è così essenziale per Eugenio Barba? Cosa rappresenta quell’ombra?
Nel prosieguo del discorso, il regista si interroga sull’origine dell’idea di dare ad Antigone un’ombra indelebile: la ritrova in una fotografia acquistata nel Museo Atomico di Hiroshima, che ritrae un’ombra su tre gradini all’ingresso di una banca. Quell’ombra rappresenta l’unica traccia residua dell’esistenza di un essere umano che stava salendo per quella scala quando ci fu l’esplosione. Un corpo che si è sciolto, una macchia: in apparenza, un niente.
Ma solo in apparenza. Quell’ombra rappresenta un messaggio di resistenza strenua e invincibile; non è solo una macchia incancellabile, ma acquista una sua vita propria, si stacca dal suolo per trasformarsi in un mostro spaventoso, capace di divorarci la mente, capace di tormentarci e perseguitarci. Capace però anche di continuare a trasmettere amore (vi ricordate il verso dell’Antigone di Sofocle, ‘sono nata per condividere amore e non odio’?).
Vi sono alcuni esseri umani che con le loro azioni, con la loro energia, con la loro testimonianza, lasciano agli altri un’ombra inafferrabile e così continuano a farci compagnia oppure ad oscurare i nostri giorni.
Inutilmente, nella pièce di Barba, il Grande Inquisitore vuole raschiar via l’ombra di Antigone: essa è destinata anzi a diventare gigantesca.
Ognuno agisce e deve agire per quel che si trova a fare, ognuno deve assumersi le proprie responsabilità. Nessun essere umano, solo perché più vulnerabile, conta meno di un altro, e nessuna ombra è meno importante di un’altra. L’ombra di un bambino palestinese che sta morendo di fame emergerà un giorno minacciosa nelle fantasie scintillanti di chi oggi tira le fila nei palazzi di vetro; l’ombra di chi muore per quelle armi che noi produciamo ci stringerà la gola e ci soffocherà mentre dormiremo nei nostri letti di piume.
Altre ombre, di chi per tutta la vita ha pensato, ha detto, ha agito per gli altri, ci sono accanto, ci sono amiche, ci ispirano e ci spronano. Sono le ombre degli intellettuali (così li chiama Barba), di coloro che come Antigone dovrebbero avere il coraggio di conservare la memoria e di onorare i lutti della storia, di coloro che ci richiamano alle nostre responsabilità morali, che ci impongono di agire, di compiere un gesto pur simbolico, disperato e tutto sommato inutile, come quello di Antigone, eppure un gesto di rivolta, un gesto di disprezzo per ogni palese ingiustizia: e non importa se finiremo polverizzati dalla cattiveria e dalla violenza altrui, se sporcheremo con le nostre ceneri i gradini su cui faticosamente stiamo salendo. Resterà la nostra ombra, risorgerà ogni volta, pronta a spronare le coscienze, pronta a espandersi e a fagocitare il male in tutte le sue forme.
Le parole di Eugenio Barba, come nella sua lezione tenuta il 16 marzo al Teatro Menotti di Milano, dove si sono celebrati i 60 anni dell’Odin Teatret da lui fondato, servono da monito per chi cerca di raschiare via le ombre. Sono parole che si alzano come un inno di speranza; sono parole lasciate in eredità a quello spettatore segreto, nascosto, che le considera polline nell’anima; sono parole che inducono a sognare, a sentirsi orgogliosi che esistano uomini come Barba e attività come il suo teatro.
Noi siamo coloro che proteggono l’ombra di Antigone, la curiamo, quell’ombra, ci riposiamo presso di essa come vicino ad una fonte. Questa è la nostra Antigone, non l’Antigone dell’egoismo sociale di un libro che adesso è in rilievo negli scaffali delle librerie.
Ed è un’Antigone che ci rammenta come potere, gloria, denaro, piaceri passano e non abbiano alcun valore; un'Antigone che riafferma quanto prezioso sia il ricordo, quanto l'amore; un'Antigone severa, che conosce l'angoscia del limite: ogni vita si conclude con un lamento per la paura di dover dar conto del male commesso, se non davanti al tribunale di Dio davanti a quello del nostro cuore. Niente resterà impunito.
Ed è su questo che si gioca il ‘capriccio’ teatrale La casa del sordo, dedicato alla vita del grande pittore Francisco Goya, diventato sordo a 46 anni. Una vita non redenta dall’arte, un'arte che è essa stessa capriccio ed esorcismo del dolore. Una vita raccontata non dall’artista, la cui grandezza non giustifica la sua meschinità, ma da Leucadia Zarrilla, che lo incontrò giovanissima, rovinò la sua reputazione per amor suo, ne sopportò gli infiniti tradimenti, gli dette un figlio e gli rimase accanto sino alla morte nella ‘casa del sordo’, e da lui non ricevette nemmeno una menzione nel testamento.
L’ombra di Leucadia e del suo amore, nelle scene del capriccio teatrale dell’Odin Teatret, diventa assai più imponente di quella del celebre pittore. Appartiene a quelle ombre che non si possono cancellare.
E così assistere al discorso di Eugenio Barba e di seguito alla rappresentazione della Casa del sordo diventa una di quelle esperienze che possono cambiarti la vita.
Che ti inducono non solo a riflettere, ma anche e soprattutto ad agire perché si realizzi quel che altri hanno sognato; per tramandare la memoria di quel che deve restare; perché chi verrà possa pensarci con orgoglio, con riconoscenza, con amore, per diffondere amore, giustizia, perché la nostra ombra non possa mai essere cancellata.
Nota bibliografica: fondamentale sino al 2004: Franco Perrelli, Gli spettacoli di Odino. La storia di Eugenio Barba e dell’Odin Teatret, fotografie di Tony D’Urso, Bari, edizioni di Pagina, terza ristampa 2020.