A Giulio
Quanto ci cambia il tempo? Siamo diversi da chi eravamo e come diventeremo nel futuro? Abbiamo la responsabilità dei mali del presente? E se conoscessimo il futuro, saremmo in grado di cambiarlo?
Queste e altre domande sono poste nel dramma Los años dell’argentino Mariano Pensotti andato in scena in prima nazionale nell’ambito del Festival Presente indicativo. Per Giorgio Strehler (al Piccolo Teatro di Milano fino al 31 maggio).
L’avvincente drammaturgia ruota sul ritorno a casa di Manuel, un maturo autore di documentari: siamo nel 2050 a Buenos Aires, Manuel ha trascorso gli ultimi trent’anni in Germania. Cosa è accaduto nel frattempo alle sue speranze e ai suoi progetti? Cosa alla sua vita e cosa, soprattutto, al mondo di allora? Cosa alla sua città, Buenos Aires, e all’Argentina?
Nella messa in scena, il palco è duplicato. Lo spettatore segue in parallelo la vita del protagonista da giovane, nel 2020, l'anno della pandemia in cui tutto sembrò cambiare, e nel presente narrativo, trent'anni dopo, quando l'Argentina è governata da un partito conservatore che vorrebbe ridurla di nuovo a colonia spagnola.
La vita di Manuel è ripercorsa dalla figlia trentenne, voce narrante dell'intera vicenda. Manuel è un professore di cinema, che torna in Argentina proprio per celebrare i trent’anni dall’uscita nelle sale dell’opera che lo aveva reso famoso, un documentario su un bambino senza famiglia. Dopo l’inaspettato e clamoroso successo, Manuel era andato via per insegnare in Germania: emigrando nell’allora sognata Europa, aveva reciso tutti i legami e il suo ritorno vuole essere un’occasione per riannodare fili emotivi interrotti.
Il confronto col passato riempie dapprima Manuel di nuova energia: tanto che, pur avendo in programma un soggiorno di pochi giorni, decide invece di rimanere a lungo a Buenos Aires, forse per sempre, come per ricominciare daccapo.
Manuel, dunque, torna a casa.
Ogni ritorno a casa implica sempre un bilancio, tanto più se avviene in una fase della vita in cui i bilanci diventano necessari e con urgenza ci chiediamo anche cosa accadrà di noi, se abbiamo ancora diritto alla felicità, a qualcosa di nuovo, ad altre occasioni, insomma: ci chiediamo se abbiamo ancora tempo.
All’alba della letteratura occidentale, del resto, c’è un ritorno, quello di Odisseo, un racconto di avventure in cui non viene mai messo in discussione il fatto che Odisseo riuscirà a tornare a casa, ma resta elusa la domanda: cosa accadrà, dopo che sarà tornato? Riuscirà a riprendersi davvero tutto di ciò che ha lasciato? E ripartirà, oppure resterà ad Itaca? E quanto durerà ancora la sua vita? Nel ritornare c’è sempre, cioè, qualcosa di ‘tragico’, nel senso filosofico più diffuso del termine, e non a caso nella nostra tradizione l’unica trilogia tragica greca superstite, l’Orestea, parla di un ritorno, quello di Agamennone in patria dopo la guerra di Troia, e delle sue conseguenze.
Los años, dunque, si rifà con levità agli archetipi della narrativa e della drammaturgia occidentale. In particolare vi trova applicazione la figura della peripeteia, ossia del ‘rovesciamento’ di una condizione nel suo contrario, come quando si passa dalla felicità all’infelicità o dall’infelicità alla felicità, di cui parla Aristotele a proposito della tragedia greca (Poetica 1452a).
Aristotele porta come esempio l’Edipo Re di Sofocle: a Edipo era stato predetto che avrebbe ucciso il padre e sposato la madre. Perciò, quando un messo gli porta la notizia che coloro che crede i suoi genitori sono morti, pensa di essere definitivamente sfuggito alla nera profezia. Proprio in quel momento, invece, Edipo comincia l’indagine sul suo passato e il doloroso cammino verso il riconoscimento della sua colpa. In generale, Edipo costituisce il paradigma di chi crede di potersi sottrarre al proprio destino, ma nel momento in cui si sente più al sicuro cade nella rete del fato.
Qual è allora la libertà di scelta concessa all’uomo nella gestione della sua esistenza? In una visione fatalista, e pertanto tragica, non siamo noi a determinare quando e dove la nostra storia cambierà: in Los años è l’incontro totalmente fortuito e casuale con un bambino a cambiare la vita del protagonista.
Manuel, che nel 2020 è un poco convinto architetto, viene infatti magneticamente attratto dalle vicende di un bambino povero e solitario, Raul, che vede per strada e comincia a seguire e a filmare nella sua quotidianità. Manuel non ha scelto di girare quel documentario, gli è capitato: una serie di coincidenze lo hanno spinto a farlo, ma la vita di quel bambino diventa per lui un’ossessione, al punto che per girare quel film commette una serie di gravi errori nei confronti delle persone che lo amano e che anche lui dovrebbe amare.
Innanzitutto viene meno alla promessa di aiutare l’amico che gli ha affidato la sua macchina da presa, e la vita dell’amico verrà sconvolta da questa promessa non mantenuta. Poi finisce con il trascurare completamente la moglie incinta e i progetti che avevano in comune: la moglie lo lascia, restando da sola con una bimba non ancora nata. Manuel diventa un padre totalmente assente e lontano, come era stato un figlio distratto e poco affettuoso di un padre attore.
Ma soprattutto Manuel usa in modo strumentale il bambino protagonista del documentario, ne ignora i sentimenti, non si chiede cosa prova, cosa pensa, se è felice di diventare il personaggio di un film.
‘Ciò che è imitato diventa sempre migliore di ciò che si imita’, dice una delle battute del dramma, ed è in fondo questo che Manuel pensa del bambino che crede di salvare dalla miseria attraverso un’effimera consacrazione artistica, rendendolo un puro oggetto estetico. Ma la battuta è tragicamente ironica, perché le cose non stanno affatto così, anche se Manuel lo scoprirà solo molto tempo dopo.
Manuel costruisce insomma il suo successo sul tradimento, dell’amicizia e dell’amore, e sull’indifferenza rispetto alle vite degli altri. Anche se, come Edipo, finisce col distruggere gli altri, non se ne rende conto o se ne rende contro troppo tardi, quando crede di essere al sicuro e torna in patria da vincitore, accompagnato da una certa fama. Ma forse anche questa sua felicità è solo apparente.
Manuel sembra infatti volere di più; vorrebbe riprovare l’ebbrezza del successo e della giovinezza, vorrebbe essere il padre che non è mai stato, vorrebbe insomma costruirsi una nuova vita. Eppure non ne è capace, perché il futuro diventa ripetizione, copia del passato: Manuel infatti progetta di girare un nuovo documentario sullo stesso bambino, ormai adulto, e solo allora si rende conto di non aver saputo più nulla di lui per trent’anni. Lo va persino a cercare nello stesso quartiere dove lo aveva incontrato, come se il bambino di un tempo potesse essere rimasto lì, immobile, pietrificato nella sua stessa sventura. Invece è accaduto altro.
Nel suo viaggio a ritroso negli anni, Manuel scopre le sue imperdonabili responsabilità, di padre, figlio, amico, amante, il suo egoismo letale per gli altri, il tormento che ha saputo causare: allora il passato gli si spalanca dinanzi alla coscienza come una voragine e non gli basta autogiustificarsi con l’essere stato solo inconsapevolmente colpevole. I danni commessi nei confronti degli altri esseri umani, compreso Raul, quel bambino a cui doveva il suo successo professionale, sono terribili. Scavando nel passato ritrova non soltanto le persone scomparse dal suo orizzonte che lo accusano dalle profondità della loro assenza; scavando nel passato finisce con il far vacillare il suo presente, quello che è diventato e che è una diretta conseguenza del suo egoismo e della sua incapacità di amare, della sua mancanza di attenzione.
Il tragico nell’esistenza umana consiste o può consistere nella presa di coscienza che non si è riusciti a dare una direzione al futuro, non si è riusciti a condizionarlo, che tra quello che eravamo e quello che siamo diventati non c’è una relazione di causa-effetto, che esiste anzi una forza, possiamo chiamarla destino, superiore alla nostra capacità di agire.
Ma soprattutto il tragico, almeno per alcune concezioni del tragico, consiste nel fatto che ad un certo punto siamo obbligati a guardarci indietro, a ripercorrere il nostro passato e proprio lì scopriamo, e solo retrospettivamente, cosa ha significato il nostro agire e in che misura siamo colpevoli. Il passato non è mai davvero passato; ce ne stacchiamo e agiamo come se ci fosse estraneo, sino a che non comincia quel confronto con noi stessi, spesso doloroso, che ci porta inevitabilmente a riconoscere le nostre responsabilità.
Il rovesciamento, la peripezia aristotelica, allora, non è solo un punto di svolta, è anche un punto di non ritorno: un passato irreversibile plasma il presente dell’eroe tragico, ma lo stesso presente si trasforma, istante dopo istante, in passato, e questo passato forgia di continuo il futuro, la cui concezione tragica diventa quella del futuro perfetto, in cui accade ciò che è previsto accada, senza che vi sia alcun contributo della nostra volontà.
Vi è un disperato senso di immobilità, nella storia di Manuel. L’uomo di sessant’anni che festeggia il suo compleanno, non è diverso dal ragazzo che ne aveva festeggiato trenta. Sono vestiti persino alla stessa maniera. Certo, c’è qualche ruga, la calvizie, un fisico più pesante. Ma non ci sono differenze sostanziali nell’anaffettività di Manuel, nella sua incapacità di venire incontro alle esigenze di comprensione e d’amore altrui. Manuel, insomma, non prova e non sa provare compassione, a trent’anni come a sessanta. E come un tempo, rimarrà ancora solo, senza decidere, senza coraggio, aspettando magari la ‘svolta’ del destino.
Il dramma, infatti, ci lascia nel dubbio: cosa accade quando comprendiamo di aver commesso errori imperdonabili, anche se inconsapevolmente? Dobbiamo ricordare per salvarci o il ricordo ci distrugge? Dobbiamo dimenticare, diventando estranei a noi stessi? E dato che ogni istante è già l’ultimo istante del passato, possiamo usare il tempo per correggerci? O bisogna piuttosto vivere in un eterno presente, ignorando non solo il passato ma anche il futuro?
Le risposte, se ci sono risposte, sono scritte nel tempo.
Le lancette intanto continuano a battere, le ore a passare, gli anni a correre.
Le immagini sono tratte dal sito del Piccolo Teatro di Milano @ Isabel Machado Rios e @Masiar Pasquali