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 In questo anno di forzate chiusure per la pandemia è emersa a tratti l’opinione, purtroppo espressa da chi è al governo come da alcuni curatori e artisti, che l’arte sia una pausa, un diversivo, una distrazione dall’esperienza quotidiana.

Anche senza arrivare all’inopportuno ‘gli artisti ci fanno tanto divertire’, una delle frasi distratte dell’ex premier, vi è comunque il sentimento diffuso che l’arte non sia poi proprio necessaria, che sia un lusso, qualcosa di superfluo per chi non deve preoccuparsi di procurarsi da mangiare, e così superflui divengono anche i tanti lavoratori dello spettacolo.

L’arte, invece, è esattamente il contrario: e non tanto perché idealisticamente e retoricamente sia ‘cibo dell’anima’, qualunque cosa sia l’anima. Ma perché è attraverso l’arte, e solo attraverso l’arte, che si forma la coscienza critica, la consapevolezza non banale delle questioni contemporanee; perché è solo attraverso l’arte che si può prendere posizione, capire da che parte stare; solo attraverso l’arte si può sviluppare una forma di resistenza ai poteri ingiusti, di messa in discussione dell’esistente, di autoformazione del sé.  

Il teatro ha in questo processo una funzione essenziale, sin dalle origini in Grecia. Il teatro non è il luogo di acquisizione passiva di contenuti imposti da una voce autoriale, ma al contrario la messa in discussione dei fatti e della loro percezione. Il teatro è sollecitazione delle forze emotive e intellettuali dell’individuo, che vive un’esperienza che può essere a volte traumatizzante. Un’esperienza che è sempre un processo conoscitivo, che approda ad una catarsi fisica e psicologica delle passioni esperite. Il teatro non insegna, ma discute; e in questo il teatro post-moderno si fa diretto erede del teatro antico, contaminando forme primigenie dell’immaginario, come i miti, con i problemi del presente più urgenti e ‘tragici’: la crisi climatica, le migrazioni, le guerre, il non rispetto dei diritti umani, ad esempio.

Ecco perché l’arte in generale, e il teatro in particolare, sono necessari: ecco perché si deve continuare a fare arte nonostante la pandemia, ecco perché il suo consumo non è equiparabile a quello di altri generi.

Tra le varie espressioni di teatro, il teatro documentario è una forma che riesce a coinvolgere chi lo esperisce anche fornendo delle informazioni di cui ha bisogno. Per intendere il confine tra documento e arte, in ambito teatrale, credo che sia sempre valido l’esempio di Peter Weiss: i documentari che ritraggono e registrano Adolf Eichmann alla sbarra a Gerusalemme, per quanto fondamentali nella storia dei media, non sono arte; l’Istruttoria di Peter Weiss lo è, trascrivendo alcune delle testimonianze del processo in una cornice che riprende quella della Divina Commedia. Anche altri più controversi prodotti teatrali ci aiutano a comprendere lo scarto tra i puri documenti e la loro rappresentazione artistica: negli anni Sessanta del secolo scorso Il Vicario di Rolf Hochhuth provocò disordini di piazza, eppure la pièce consisteva in gran parte nella trascrizione di documenti allora disponibili che attestavano il silenzio della Chiesa di fronte alla deportazione degli ebrei dal ghetto di Roma.

Il teatro (tragico) è l’arte del conflitto, dell’agone, della messa in discussione, dell’esposizione dei problemi.

Dovrebbe essere noto ai lettori di questo blog che Milo Rau è il regista europeo attualmente più impegnato sul fronte di un teatro che non sia solo evento estetico, ma anche scuola di resistenza: un teatro che va sui luoghi di guerra, li documenta, sollecita all’azione i singoli partecipanti al progetto. Un progetto ambizioso, di cui il vulcanico ideatore e regista svolge un talora un ruolo messianico, anche con malcelato narcisismo. Eppure la forza politica del progetto permane in connessione al suo restare principalmente un progetto estetico e artistico, come pure resta il coraggio della denuncia di crimini gravissimi e la missione di sollecitare le coscienze.

Resta anche la carica utopica di alcune azioni e delle loro rappresentazioni multimediali, ad esempio l’assemblea generale democratica del governo mondiale convocata a Berlino, che è al centro del film General Assembly del 2017. A ragione dunque Milo Rau è il protagonista di quattro intense giornate all’Akademie der Künste di Berlino, dal 24 al 28 febbraio, che si possono seguire in streaming (con un involontaria democratica apertura dovuta purtroppo alla pandemia). Ne parleremo ancora, ma oggi ci sembra urgente richiamare l’attenzione su un film di Milo Rau, trasmesso in streaming ieri sera, dal titolo The Congo Tribunal (2015).

Si tratta di un film che documenta un processo che non è mai avvenuto: ossia quello delle nazioni ricche a loro stesse, per la campagna di sfruttamento, genocidio, impoverimento della popolazione che si verifica da più di vent’anni in Congo. L’esito del processo è una condanna senza appello del governo congolese e dei suoi complici occidentali: ma il processo, appunto, non c’è mai stato, è solo una pièce di teatro, incastonata poi in un film documentario.

Per più di vent’anni la guerra civile in Congo, e specialmente nella regione dei grandi laghi, ha già causato oltre sei milioni di morti. Resta una guerra civile inspiegata, perché non si basa sull’ostilità tra etnie, ma sulla spartizione di territori ricchissimi di minerali essenziali per le tecnologie dell’era digitale. Inestricabile resta perciò il ruolo e sconosciuto il numero degli eserciti dei ribelli, ma anche le responsabilità, in questa guerra perpetua, di trafficanti d’armi, il ruolo dei diplomatici dei paesi occidentali e anche dell’ONU e degli aiuti umanitari, le connivenze con le società americane ed europee che hanno impiantato nella regione industrie minerarie, cacciando dai loro territori le popolazioni che vi abitavano da sempre e paradossalmente immiserendole, invece che arricchendole.

Proprio per questo la guerra del Congo è stata anche definita  ‘Terza guerra mondiale’ e rappresenta una delle guerre di conquista più sanguinose per lo sfruttamento delle risorse nell’epoca della globalizzazione e del post-colonialismo.

The Congo Tribunal di Milo Rau è un progetto artistico, che nasce da una ricerca sul campo, dall’inchiesta condotta grazie a testimoni e a responsabili negli organismi congolesi e internazionali: dopo il processo fittizio che si è svolto nella berlinese Sophiensaele è diventato un film, proposto in alcuni Festival importanti, come quello di Locarno e Romaeuropa Festival. Chi voglia informarsi su tutta la questione può consultare la pagina web dedicata: http://www.the-congo-tribunal.com/ (in tedesco, inglese, francese), e acquistare il libro di oltre 300 pagine che accompagna il progetto (https://www.verbrecherverlag.de/book.php?action=detail&id=849).

Il discorso di apertura al 'processo' dello stesso Rau, e molte altre sue dichiarazioni di poetica e di intenzione, si possono leggere nel volume antologico Realismo globale uscito per CUE Press.

Alla proiezione di ieri è seguito in streaming un dibattito su temi che qui più ci interessano: può questo tipo di arte essere considerata una strategia di resistenza all’ingiustizia che continua ad essere perpetrata? A che serve questo tipo di ricerca documentaria finalizzata a un atto teatrale? A che serve mettere in scena un processo che non ha mai avuto luogo per esprimere una condanna che ha valore solo sul piano morale e non giuridico? Serve almeno a diffondere la vergogna per l’implicita partecipazione di tutti noi occidentali a queste guerre e massacri? E per chi è pericoloso, se lo è, questo tipo di teatro? Per le strutture di potere, che sono oggetto delle accuse, o per chi pratica il teatro, che ha il coraggio della denuncia e dell’azione? O per chi vi trova le ragioni per ribellarsi? E come davvero ribellarsi?

Queste domande attanagliano la nostra coscienza e la turbano. Queste domande sono un tarlo della mente, e non ci abbandonano  dopo aver visto le immagini dei funerali dell’ambasciatore Luca Attanasio e del carabiniere Vittorio Iacovacci, unica sua scorta armata, proprio in Congo. C’è chi sa e conosce la situazione di quei territori. C’è chi dovrebbe avere a cuore la fine di una spoliazione sistematica e sanguinosa di quella regione. C’è anche chi ha il dovere di proteggere i nostri diplomatici e i nostri militari che sono lì per missioni di pace.

Luca Attansio e Vittorio iacovacci, uccisi in Congo, febbraio 2021

Eppure l’ambasciatore italiano Luca Attanasio e il carabiniere Vittorio Iacovacci viaggiavano senza scorta, senza auto blindata, nei territori della ‘Terza guerra mondiale’, per una missione destinata ai bambini, lontano dalla capitale congolese.

Dopo aver visto The Congo Tribunal di Milo Rau tutti dobbiamo almeno vergognarci. Tutti dobbiamo sapere che nessuno di noi è innocente. E le parole vuote dei funerali di Stato non ci bastano, non ci bastano più.

L’arte, il teatro, serve alla nostra vergogna. Serve a chiederci cosa possiamo e dobbiamo fare.  

 

Le immagini sono tratte dal sito dell'International Institut for Political Murder:http://international-institute.de/das-kongo-tribunal/

Nella penultima immagine: Luca Attanasio e Vittorio Iacovacci.