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Per un radicato paradigma della tragedia e del tragico, che risale almeno agli inizi dell’ Ottocento tedesco, ed in particolare ai fratelli Schlegel, la tragedia in generale e quella greca in particolare hanno come tema l’ “ininterrotta necessaria lotta dell’essere umano con il destino”

(così ad esempio Friedrich Schlegel in Sullo studio della poesia greca, 1803/1804)[1]. Si tratta di un’idea che non pochi pregiudizi ha portato nell’interpretazione della tragedia antica. Scrive Ulrich von Wilamowitz-Moellendorff in Cos’è una tragedia attica? (1889) «Per la teoria del dramma antico, così come per la prassi, immediatamente derisa, dei suoi imitatori, è stato particolarmente fatale che Schiller, seguace della teoria kantiana della libertà, abbia individuato la stella polare della moralità tragica l’idea di un destino superiore e possente che nobilita l’individuo annientandolo»[2].

Tuttavia la stessa idea di ‘destino’ si rivela decisiva per esaminare la genesi delle visioni moderne e contemporanee sia del tragico che della tragedia, specialmente in Germania, la cui storia è stata spesso vista come un vero Teatro del Destino – purtroppo anche con un unico, assoluto, protagonista, un indiscusso 'uomo del destino', Adolf Hitler.

Nell’ambito delle molteplici riflessioni possibili su questi temi (quale è il rapporto tra tragedia e destino? il conflitto tra destino e libertà umana può definirsi tragico? E quali sono i riflessi nell’arte e in teatro di tale questione etica e politica?), ci sembra utile pubblicare le riflessioni che seguono di Gabriele Scaramuzza, suscitate dall’interpretazione di un libro che  racconta la 'tragedia' per antonomasia nella storia del Novecento, la Shoah, dal punto di vista di un adolescente. 

Si tratta di un libro che ha la parola ‘destino’ nel titolo. Alludiamo al ‘romanzo’ autobiografico Essere senza destino (prima edizione 1999), il romanzo più noto dello scrittore ungherese  Imre Kertész (1929-2016) premio Nobel 2002. Nel contributo che segue si cerca di spiegare questo titolo enigmatico e paradossale: chi è 'senza destino' non si trova in una posizione esistenzialmente tragica, ma in una condizione indefinibile e peggiore di ogni situazione tragica immaginabile o rappresentabile.  Il conflitto con il destino, infatti, dà origine alla tragedia: ma questa non significa catastrofe e annullamento della libertà individuale, come nelle teorie ricordate e come anche nel linguaggio comune. Anzi: la tragedia resta una possibilità dell'individuo di realizzarsi, di dimostrare la forza della propria libertà. Anche per Kertész, dunque, il tragico consiste nella lotta, nel conflitto, nella strenua opposizione del singolo 'eroe' a una necessità che non può controllare e di cui non è responsabile: paradigma di questa idea del tragico è il Prometeo di Eschilo, come sappiamo. Ma nell'universo concetrazionario descritto da Kertész non c'è possibilità di trovare un protagonista come Prometeo. Perciò il protagonista del romanzo dello scrittore ungherese è piuttosto un 'senza destino', a cui non è concessa scelta e nemmeno la consapevolezza dell'opposizione. L'essere senza destino finisce con l'essere inghiottito dal Nulla che è il suo destino, dal compenetrarsi in esso. Auschwitz non ha nulla, pertanto, di tragico. 

Anche dal punto di vista estetico, poi, 'tragico' non è mai qualcosa di vuoto o di indifferente: al contrario, sin da Aristotele, la tragedia è qualcosa che guardiamo provando piacere, e dunque una delle possibili manifestazioni del bello, anche quando il suo oggetto (un cadavere o un omicidio) non è affatto bello. 

Il memoriale di Kertész  vuole testimoniare cosa accade quando si scambia il destino con il vuoto più assoluto: questo accade nei periodi storici in cui si impongono i totalitarismi, la cui retorica consiste nel presentare e propagandare come inevitabile ‘destino’ l’assenza di esso. L'ora del destino annunciata da Hitler come inevitabile era invece evitabilissima, anzi, doveva essere evitata. Nel momento in cui si afferma la necessità del destino, si priva di ogni libertà chi questo destino subisce, e soprattutto della prima libertà: quella di opporre ad una necessità inevitabile una scelta individuale che va in direzione opposta.

Durante il nazismo e il fascismo, durante ogni tipo di governo autoritario e tirannico, la parola e il concetto di 'destino' sono svuotati di senso, sono sinonimi del Nulla, sono strumento di assoggettamento.  Perciò i totalitarismi negano anche la tragedia: chi è ‘senza destino’, come il protagonista del romanzo di Kertész, catapultato quasi bambino nell'insensatezza apparente del campo di sterminio,  si trova in una situazione di non-essere, di negazione della realtà, di assenza di ogni prospettiva. Questo vale sia per il singolo individuo che per un intero popolo. (Riflettiamo allora sulla disinvoltura con cui, negli scorsi giorni, si è presentata come 'svolta del destino' la redazione di un documento economico di ripresa dalla 'tragedia' epidemica. Ma queste sono altre questioni.)

Per Kertész, la tragedia va intesa come un processo doloroso ma tutto sommato positivo, sia perché appartiene alle categoria estetica del sublime, sia perché prevede una catarsi e forse anche un insegnamento che nasce dalla sofferenza, come già per Eschilo. Al contrario, essere senza destino significa trovarsi in una situazione non tragica, talora grottesca, certamente ‘brutta’ e disgustosa, ma soprattutto senza via d’uscita, senza possibile purificazione, senza insegnamenti da trarre, senza soluzione o liberazione.  

Ringraziamo Gabriele Scaramuzza per averci messo a disposizione le sue riflessioni.  (Sotera Fornaro)

In Essere senza destino Imre Kertész [3], narra con tono sorprendente, davvero originale, le atroci traversie da lui vissute nei lager nazisti; fino alle incertezze della liberazione, i difficili reincontri, le prime non-testimonianze, le difficoltà, non lievi, del reinserimento a Budapest, col “socialismo reale” all’orizzonte. Tutto questo è di difficile interpretazione, contradditorio, talvolta sconcertante, prende in contropiede.  

Con occhio svagato, da Alice nel paese degli orrori, in Essere senza destino l’autore prende tutto come “ovvio”, “naturale”; opera un evidente understatement dell’orrore attraversato; ne scorge tratti positivi, persino umoristici. In Dossier K. precisa: “L’estraneità del linguaggio di Essere senza destino si può spiegare unicamente con l’estraneità della materia e del narratore”.[4]

Effetti amaramente ironici, stravaganti, d’un umorismo cupo, sono presenti allorché ricorda il monito che gli era rimasto impresso dai giorni di scuola: Non scholae, sed vitae discimus: la vita che ne seguì fu quella dei Lager, e la scuola non lo preparò certo ad affrontarla, né a prevederla. Così in un primo tempo scambia le torri di guardia di Auschwitz per “palchetti da caccia”. Ad Auschwitz, in riferimento ai ragazzi che si vedono nel loro nuovo abbigliamento, scrive: “non ci restava altro da fare che guardarci in faccia, senza sapere se dovevamo ridere o piuttosto esser sorpresi”[5]. Macabro-grottesca, surreale, è la descrizione dello spettacolo “ameno” allestito davanti alle camere a gas: “avevo l’impressione che fosse un specie di burla, uno scherzo goliardico o qualcosa del genere”[6].

Leggiamo ancora:

A un tratto non sapevo più dove avevo la testa e ricordo soltanto che per tutto quel tempo mi veniva quasi da ridere, da un lato per lo stupore, l’imbarazzo e per l’impressione di trovarmi improvvisamente in una commedia dell’assurdo senza conoscere la parte che dovevo recitare, dall’altro per un’immagine che mi balenò alla mente: la faccia della mia matrigna, quando stasera si fosse accorta che mi stava aspettando invano per la cena[7].

Kertész sottolinea costantemente i limiti soggettivi della propria narrazione: “almeno ai miei occhi”, “ritenevo io”, “così sentii dire”, “almeno questa fu la mia impressione”, “almeno così sembrava. Ma di questo non sono sicuro…”.

    La realtà potrebbe esser diversa da come lui la vede e la racconta; e d’altronde l’indecifrabilità, l’incertezza, la mutevolezza sono tratti costitutivi dell’esperienza angosciosa dei lager. Ciononostante restano vivi nei detenuti, in Kertész quanto meno, la domanda circa il senso della loro esperienza, un desiderio di riconoscimento, di comprensione, di gentilezza, e la voglia di vivere. Soprattutto resta l’impossibilità di abituarsi a quel tipo di vita imposto.

Dei toni del talvolta sconcertante modo di essere di Kertész testimoniano le pagine finali di Essere senza destino:

persino là, accanto ai camini, nell’intervallo tra i tormenti c’era qualcosa che assomigliava alla felicità. Tutti mi chiedono sempre dei mali, degli ‘orrori’: sebbene per me, forse, proprio questa sia l’esperienza più memorabile. Sì, è di questo, della felicità dei campi di concentramento che dovrei parlare loro, la prossima volta che me lo chiederanno.

Poco sopra tuttavia parla della propria impossibilità di dimenticare gli orrori (cosa che qualcuno gli consiglia); e per converso dichiara, tra i presenti “piuttosto sbalorditi”: “io non mi sono accorto degli orrori”. Ma uscendo, dopo l’incontro-scontro coi conoscenti appena rientrato a Budapest, nell’animazione delle vie al tramonto - la sua “ora preferita” anche al lager, dove “in un certo senso la vita era più pura, più frugale” – Kertész evoca atmosfere poetiche, colori struggenti, ricorre perfino a termini quali “infinito”, “nostalgia”, “sguardi più miti”; e scrive: “per la prima volta, adesso pensai [ai miei compagni di prigionia] con un piccolo rimprovero, con una specie di affettuoso rancore”.  

Essere senza destino è dunque interamente dedicato alla diretta esperienza della Shoah del suo autore; nel successivo Diario dalla galera (e anni di galera sono quelli dei lager, ma anche quelli del cosiddetto “socialismo reale”) troviamo la cronaca del periodo in cui, in Ungheria, Essere senza destino fu scritto, tra il 1961 e il 1973.

Vi troviamo anche una spiegazione illuminante del titolo enigmatico:

Cosa intendo per destino? In ogni caso la possibilità della tragedia”; è la vita nel totalitarismo che decreta la fine della tragedia: se “noi viviamo come realtà la determinatezza che ci viene imposta, invece che la necessità derivante dalla nostra libertà relativa, questo io lo chiamo assenza di destino”.

Cade ciò che al destino è coessenziale, e cioè “che l’elemento di determinazione sia sempre in opposizione alle nostre idee e predisposizioni naturali”; manca il tragico, che è tra le principali “modificazioni del bello”. La realtà che ha potuto produrre i campi di sterminio è una realtà in cui non ha luogo il conflitto necessario tra libertà individuale e destino, è una realtà svuotata del bello e di ogni dimensione tragica. Ed è proprio questa realtà ad aver reso “possibile Auschwitz”, da una parte, e impossibile, dall’altra, “realizzare l’unica risposta adeguata a questo crimine unico al mondo: la catarsi”[8].

E ancora:

Hitler cercava di far apparire come ‘un inevitabile destino’ ciò che inevitabile non era per niente e che anzi […] non sarebbe dovuto proprio succedere. Questa è l’esperienza dell’essere senza destino, su un altro piano. Nel totalitarismo tutto accade sotto il segno del destino e della fatalità. Queste espressioni sono tenute a coprire il nulla, il completo Nulla che tuttavia produce montagne di cadaveri, devastazione e infamia.

È nota la frase pronunciata dal nostro “uomo della provvidenza” nel discorso dal balcone di Palazzo Venezia il 10 giugno 1940: “Un’ora, segnata dal destino, batte nel cielo della nostra patria”. In altri termini, il totalitarismo induce a introiettare quasi fosse un dato di natura, inscalfibile, una realtà storica frutto di una decisione scellerata, e imposta.

Con ciò viene meno ogni possibilità di risposta, non resta che un’accettazione passiva o una ribellione sterile; la tragedia è negata alla propria radice. Sintomatico è che “evento senza destino” [9] per Kertész sia anche il crollo sovietico e la conseguente cosiddetta “liberazione”.

Già in Fiasco, pubblicato nel 1988, erano state descritte “le circostanze della nascita” di Essere senza destino; e sono riportate le ragioni, sintomatiche, con cui questo romanzo viene in un primo tempo rifiutato in Ungheria. Ragioni che chiamano in causa “la composizione artistica della materia”, la “non riuscita artistica” del romanzo: l’assenza di “bellezza”, dunque.

Proprio questa presunta assenza di “bellezza” sembra condivisa da Kertész; ed è di estremo interesse per noi, dato che può essere letta in parallelo con l’altra affermazione di Kertész: “Non posseggo la parola che salva e redime; non mi ha mai interessato la perfezione, né la bellezza, che non so neanche cosa sia”.

Si può avanzare l’ipotesi che la bellezza qui contestata sia da intendere come una peculiare categoria storico-estetica (classica)[10], invalidata dalla violenza delle cose; e che il suo rifiuto avvenga in nome di una diversa riuscita artistica; il che spiegherebbe l’alta considerazione in cui Kertész è tenuto, e il fatto che lo leggiamo.

A proposito di Essere senza destino parla di “composizione atonale”; circa la struttura di Fiasco scrive: “Si tratta, in sostanza, di una struttura musicale”[11]; questo può spiegare la “diversa riuscita artistica” cui si accennava. Le opere di Kertész (accanto a quelle di Beckett, di Celan e, perché no, di Primo Levi) restano tra le modalità di sopravvivenza dell’arte (e di una grande arte) “dopo Auschwitz”. Dove “arte” vale come simbolo di una “ragione estetica” che si misura con il rischio di naufragio che abbiamo corso, rischio che non è scomparso dai nostri orizzonti. Col “non-bello” dunque. In notazione leggiamo: “la questione che mi occupava durante la stesura di Essere senza destino era proprio se l’emozionalità del disgusto possa sostituire la simpatia come forza creatrice[12]. Il negativo attraversato non rende impossibile, intensifica anzi, dà una patina peculiare (come per Primo Levi e Liliana Segre), alla determinazione di scrivere, di parlarne. Che resta una forma di ripresa di un senso della propria vita.

La “prima domanda che ci si deve porre”, troviamo non a caso scritto, è “se il mondo attribuisce ancora un valore alla vita”[13]. La scrittura è una risposta positiva a questo. Positiva, giacché “se la mia fede ingenua nei valori autentici – potrei dire originali – non fosse rimasta intatta, non avrei mai potuto creare nulla”[14]. E ancora: la “passione” della “scrittura mi è sempre servita a liberarmi dall’oppressione dell’ambiente e delle circostanze”[15].

La lettura delle pagine di Kertész lascia malgrado tutto un sapore di positività nell’animo, di religiosità non confessionale. “L’Olocausto è valore, perché a costo di immense sofferenze ci ha portato a una conoscenza immensa e di conseguenza esso serba un immenso valore etico”. E non riguarda solo i sopravvissuti, che sono “soltanto portatori delle più estreme condizioni dell’uomo dei nostri giorni”; “la sopravvivenza non è solo un problema dei sopravvissuti”, riguarda noi tutti, col nostro passato e il nostro futuro dentro[16].   

Un passato, il suo angosciante passato, sopravvive negli scritti di Kertész in una presenza insolita, eppure densa di significatività e di valori. Ed egli dichiara di essere interessato, più che semplicemente a “come vivere” il proprio mondo, a “come rappresentarlo”[17]; dunque a come testimoniarne scrivendo. Anche per lui l’oblio, la paura e l’angoscia di esso, è il sentimento dominante tra le vittime (e in senso opposto tra i carnefici, che volevano cancellare ogni traccia degli orrori commessi): “Quest’angoscia andava oltre l’orrore, oltre la vita e la morte dei singoli, oltre l’intenso desiderio di giustizia”[18]. Questo riguarda tutti noi, che poniamo la memoria a fondamento dell’idea di Europa che perseguiamo (e della nostra stessa vita) – utopicamente forse, ma non utopisticamente.

La cultura è il supporto imprescindibile della guerra contro l’oblio, ad essa è affidata la salvezza della memoria. E scrivere per lui è un incremento di vita, un modo di reagire all’indifferenza che annichilisce:

 “ho conquistato abbastanza presto la mia libertà di spirito, e dal momento in cui ho deciso di dedicarmi alla scrittura, i miei problemi ho potuto considerarli, a un tratto, come materia prima della mia arte. E sebbene tale materia prima abbia un aspetto abbastanza tenebroso, la forma la redime e la trasforma in gioia. Infatti è possibile scrivere soltanto attingendo a un’abbondanza di energie, dunque alla gioia; la scrittura – questo non l’ho inventato io – è vita potenziata”[19].

Alla scrittura va aggiunta quanto meno la musica, da Kertész intensamente seguita ed amata. Tutto questo rende la sua testimonianza, proprio nella sua viva contraddittorietà, un documento raro e prezioso. Dice di una vita che nel testimoniare si continua, sempre di nuovo ripropone attese, speranze, rimette malgrado tutto in gioco delle fiducie (conoscitive, etiche, educative), delle ragioni di vita, che nella scrittura trovano espressione. [20]

Le immagini sono tratte dal film: Senza destino, di Lajos Koltai  e si trovano sul sito: https://www.kinoweb.it/cinema/senza_destino/photogallery.html

 

[1] Su questo vedi il saggio di Glenn W. Most,Schlegel, Schlegel und die Geburt eines Tragödienparadigmas, in: «Poetica», Vol. 25, No. 1/2 (1993), pp. 155-175 Poetica , 1993, Vol. 25, No. 1/2 (1993), pp. 155-175

[2] Introduzione, traduzione e note di Gherardo Ugolini, La Scuola editrice, Brescia, 2013, qui p. 41, ma vedi soprattutto  pp. 134-135.

[3] I. Kertész, Essere senza destino, trad. di B. Griffini, Feltrinelli, Milano 2004.

[4] I. Kertész, Dossier K., trad. di M. D’Alessandro, Milano, Feltrinelli, 2009; pp. 157-158.

[5] Idem, p. 85.

[6] Idem, p. 96. 

[7] Essere senza destino, cit., p. 51; in riferimento al giorno dell’arresto a Budapest.

[8] Dossier K., pp. 168, 170.

[9]Lo spettatore. Annotazioni 1999-2001, trad. di A. D. Sciacovelli, Bompiani, Milano, 2017, p. 154.

[10] Dossier K., cit., p. 191. A p. 199 di Diario dalla galera (a cura di Alessandro Melazzini, trad. di Krisztina Sándor, Milano, RCS Libri, 2009) leggiamo: “Oggi l’arte classica, ovvero un’arte fondata su una base sociale comune, su una cultura, è impossibile”.

[11]  A proposito di Fiasco scrive: “Non è un caso che durante la redazione del romanzo io abbia ascoltato così volentieri Il mandarino meraviglioso di Bartók” (Lo spettatore. cit., p. 72).

[12] Diario dalla galera, cit., p. 205.

[13] I. Kertész, Il secolo infelice, trad. di Krisztina Sándor con una consulenza di Alessandro Melazzini, Milano, Bompiani, 2007, p. 121; a p. 129 leggiamo: “una civiltà che non dichiara i propri valori oppure li abbandona imbocca la strada della decadenza”. 

[14] Idem, pp. 140-141. 

[15] Idem, p. 163.

[16] Il secolo infelice, cit., pp. 84 e 82.

[17] Idem, p. 93.  

[18] Idem, p. 72; e si vedano le pp. successive, in cui è chiamato a testimone Améry.   

[19] I. Kertész, Dossier K., cit., p. 56. A p. 155 di Lo spettatore, cit., “C’è gioia dentro di me, c’è una grave e fruttuosa sofferenza…”; a p. 215, cosciente della precaria sopravvivenza dei suoi libri, e di sé (“Tra non molto arriverà per me il tempo di morire”), Kertész annota: “Io però mi sono divertito a scriverli, mi hanno donato l’illusione di aver vissuto una vita piena”. A p. 155 di L’ultimo rifugio: coloro che lo vedono come “trascurato”, “ignorato”, “non si accorgono che faccio il mio lavoro non per costrizione, ma per diletto”; e a p. 244: “La vecchia gioia di scrivere”, “scrivere un romanzo è l’unico rifugio per me…”. In Liquidazione, trad. di A. Sciacovelli, Milano, Feltrinelli, 2005, mette in bocca a un protagonista: “Ma io credo nella scrittura. In nient’altro se non nella scrittura. L’uomo vive come un verme, ma scrive come gli dèi” (p. 88, e v. p. 87).

[20] Riprendo qui il mio intervento nell’ambito della “Giornata di studi dedicata alle categorie negative dell'estetica: brutto, kitsch e disgusto”, curata da Maddalena Mazzocut-Mis, Dipartimento di Beni Culturali, 9 maggio 2019. Per ogni precisazione rinvio alle pp. 59-81del mio Smarrimento e scrittura, Mimesis, Milano-Udine 2019.