default_mobilelogo

Newsletter

Vuoi ricevere una notifica quando sono disponibili nuovi contenuti sul nostro blog? clicca qui

Traduciamo alcune pagine dal libro di Bryan Doerries, 'The Theater of War. What Ancient Greek Tragedies Can Teach Us Today', New York 2015.

Sulla compagnia Theater of War, fondata e diretta nel 2009 da Bryan Doerries, vedi qui.  Tra i progetti della compagnia, letture drammatiche del Filottete e dell’Aiace di Sofocle per supportare i veterani e i reduci di guerra segnati da ferite fisiche o psicologiche. Altre informazioni qui. Le immagini sono tratte dal film del 2017  ‘Thank You for Your Service’ scritto e diretto da Jason Hall.

Immaginate migliaia di cittadini-soldati seduti in un teatro sul versante sud dell'Acropoli di Atene. È l'inizio della primavera del 409 a.C., da più di vent'anni i Greci combattono una guerra su più fronti contro avversari instancabili, gli Spartani. Il teatro rimbomba di passi, mentre gli uomini salgono per le scalette, per trovar posto sui gradini. All'alba, un potente squillo di tromba risuona tra i vicoli della città, segnalando l'inizio della Dionisie cittadine, la festa degli spettacoli drammatici: tre giorni di opere teatrali scritte e messe in scena da veterani di guerra, per un vasto pubblico di veterani di guerra.

Le tragedie che verranno rappresentate oggi sono opera di un generale in pensione chiamato Sofocle, che adesso ha poco più di ottant'anni. Fu eletto generale due volte durante il suo lungo mandato nell'esercito ateniese e sopporta il peso di innumerevoli uomini condotti in battaglia e mai più tornati. In cuor suo, ha dedicato loro le sue tragedie.

La folla si zittisce improvvisamente, l'intero esercito balza in piedi in un unico movimento, dieci comandanti avanzano verso la parte anteriore del teatro per prendere posto nei troni designati. Dietro di loro, il pubblico sta fittamente assiepato.

I soldati stanno sull'attenti, spalla a spalla, divisi per tribù, che è la loro unità militare, e secondo il grado. Gli opliti stanno ammucchiati in fondo in fondo, dove non si respira: da lì i comandanti sembrano piccoli piccoli, figurine non più grandi di un quarto di pollice.

Difficile distinguere dal fondo del teatro la solenne cerimonia religiosa a cui si dà inizio, un rito funebre.

L'armatura dei caduti in guerra viene conferita ai loro figli in lutto, che camminano lentamente verso il centro dell'orchestra, con spalle curve, a capo chino. Nessuno trattiene le lacrime mentre gli orfani di guerra - ora adottati dalla polis - raccolgono gli scudi dei loro padri. Gli Ateniesi hanno già perso migliaia di uomini quest'anno a causa della guerra, ma non hanno avuto tempo di piangere i loro morti, nessuna occasione ufficiale per esprimere tutte le loro emozioni, nessun luogo in cui urlare... almeno sinora.

L'attore che interpreta Filottete - un guerriero abbandonato dalle sue stesse truppe su un'isola desolata a causa di una misteriosa malattia - entra subito in scena, striscia fuori da una caverna, spalanca la bocca e inizia a piangere. Si lamenta per sé stesso. Si lamenta per i suoi amici. Si lamenta per i caduti in guerra e per i loro figli, e soprattutto si lamenta per i soldati che lo stanno guardando mentre geme.

Sta piangendo per loro.

Quando ho detto ai miei amici che volevo presentare le mie traduzioni di alcune tragedie greche ai soldati e ai Marines nelle basi militari degli Stati Uniti, mi guardarono con sconcerto e preoccupazione. Suppongo che risuonasse almeno irrealistico, se non folle. Anche se molti studiosi avevano connesso la tragedia greca antica alla cultura militare ateniese, nessuno aveva tentato di mettere in scena queste tragedie per i soldati in servizio attivo, pensando che queste tragedie potessero rivelare qualcosa di universale e di profondo sull’esperienza della guerra.

Da bambino ignoravo tutto ciò che avesse a che fare con il mondo militare. A parte i film che avevo visto, i videogiochi a cui avevo giocato e le storie che avevo letto sui giornali e sui libri, non avevo nessun rapporto con la cultura militare. Mio nonno aveva prestato servizio in marina durante la Seconda guerra mondiale, addestrato come aviatore navale nel 1945, ma non andò mai in battaglia. Tornò a casa senza un graffio e senza racconti di guerra memorabili per i suoi nipoti. Mio padre fu esentato dalla guerra in Vietnam perché iscritto all’Università. In poche parole, da bambino non avevo idea di cosa fosse l’esercito né qualcuno o qualcosa poteva aiutarmi a capire di che cosa si trattasse.

La mia ignoranza era particolarmente sorprendente perché la mia casa d'infanzia, a Newport News, in Virginia, era circondata da basi militari: Fort Eustis, base dell'aeronautica militare, la base navale di Little Creek e quella di Yorktown, la base medica di Portsmouth e infine Camp Peary (il campo di addestramento della CIA). La città ospitava anche il secondo cantiere navale privato più grande del mondo, dove erano costruiti ogni anno molti sottomarini nucleari, portaerei e navi da guerra. L'intera economia della regione era guidata e sostenuta da quel complesso militare-industriale, senza il quale la città non avrebbe potuto vivere.

Da ragazzo, mi sono abituato così tanto a sentire i rimbombi sonori dei caccia F-16 sul tetto di casa nostra che finii per non sentirli più, così come adesso ho smesso di sentire le sirene della polizia e delle ambulanze fuori dalle mie finestre a Brooklyn. Sebbene vivessi tra soldati e veterani – che mi tagliavano i capelli dal barbiere, insegnavano agraria e spagnolo nella mia scuola media, allenavano la mia squadra di baseball – l’esercito mi era estraneo. Il mondo militare diventava per me una specie di rumore di sottofondo, a cui non fai caso. Come la maggior parte delle persone che conoscevo, pensavo a me stesso, in linea di principio, contrario alla guerra e in teoria stavo dalla parte dei veterani.

Poi, il 18 febbraio 2007, ho letto un articolo sul Washington Post sullo scandalo del ‘Walter Reed’, l’ospedale militare più importante del paese. L’inchiesta denunciava come i soldati feriti, reduci dall'Iraq e dall'Afghanistan, fossero sottoposti a cure scadenti nell’ospedale militare di punta della nostra nazione. Solo allora ho iniziato a prestare attenzione alle battaglie civili dei veterani e delle loro famiglie. L'articolo iniziava così:

Dietro la porta della stanza del soldato Jeremy Duncan, parte del muro è divelta, dà sul cielo aperto, coperta di muffa nera. Jeremy è un ingegnere ed è tornato ferito dalla guerra: quando sta nella sua doccia e guarda in su, può vedere la vasca da bagno al piano di sopra attraverso un buco marcio. L'intero edificio dell’ospedale ‘Walter Reed’, costruito tra le due guerre mondiali, spesso puzza di carne in putrefazione. I segni di abbandono sono ovunque: escrementi di topi, scarafaggi morti, tappeti macchiati, materassi da quattro soldi….

La percezione comune del ‘Walter Reed’ era quella di un ospedale-gioiello. Ma 5 anni e mezzo di guerre continue hanno trasformato i 113 acri della venerabile istituzione in qualcos'altro: un centro di detenzione per pazienti cronici con ferite fisiche e psicologiche. Quasi 700 di loro, la maggior parte soldati, con alcuni marines, sono stati dimessi da altri ospedali dove erano in degenza, ma necessitano ancora di cure o sono in attesa dell’iter burocratico per essere esonerati oppure tornare in servizio attivo. Soffrono di lesioni cerebrali, hanno braccia e gambe amputate, hanno ricevuto danni permanenti agli organi interni e alla schiena e soffrono di vari gradi di stress post-traumatico. Il loro numero è cresciuto in modo esponenziale, il rapporto con gli altri pazienti del ‘Walter Reed’ è di 17 a 1; occupano tutti i posti letto disponibili e si riversano a dozzine negli alberghi e negli appartamenti vicini presi in affitto dall'esercito.

Mentre continuavo a leggere l'articolo, presi d’improvviso coscienza di quanto fossi ignorante e di quanto volessi esserlo. Nel tentativo di prendere eticamente le distanze dalla guerra, avevo in gran parte consapevolmente ignorato le storie sul ritorno dei reduci e dei veterani. Adesso quell’atteggiamento mi era divenuto insostenibile. Scandalizzato dai maltrattamenti ai soldati e alle loro famiglie da parte della stessa amministrazione che li aveva inviati in Iraq e in Afghanistan, ho iniziato a pensare a cosa avrei potuto fare per sensibilizzare la gente sui bisogni dei veterani e delle loro famiglie e per attirare su di essi l’attenzione dell’opinione pubblica.

Ma non ero uno psicologo, un assistente sociale, un ministro o un giornalista. Ero solo un aspirante regista teatrale e un classicista dilettante, che amava i drammi greci antichi. Il mio desiderio di presentare letture dalle tragedie greche a veterani di guerra non fu una vera e propria idea ragionata, piuttosto quel che il grande regista Peter Brook ha chiamato ‘un’intuizione informe’.  L'articolo sul centro medico militare ‘Walter Reed’ mi riportò alle tragedie greche che avevo nella mia biblioteca, mi spinse a cercare storie che potessero collegare il mondo antico e quello contemporaneo e forse dare sollievo a coloro che soffrivano per ferite senza tempo.

Il Filottete di Sofocle è un dramma su un guerriero greco che, in viaggio verso la guerra di Troia, viene morso da un serpente velenoso e dopo aver contratto una malattia cronica, è abbandonato per nove lunghi anni in un'isola deserta dal proprio esercito. Volendo assolutamente sopravvivere, credendo che ci fosse una ragione per la propria sofferenza, dorme in una grotta, cerca cibo e cerca erbe per attutire il dolore della propria ferita, sperando sempre che un giorno sarà salvato.

Tuttavia, nessuno viene a portare Filottete via dall'isola, almeno non fino a quando i Greci non apprendono da un veggente troiano, nove anni più tardi, che hanno bisogno di lui e del suo invincibile arco per vincere la guerra di Troia. Ma ormai è troppo tardi. Anni di isolamento lo hanno ridotto allo stato di un animale e lo hanno spogliato della sua umanità, della sua capacità di socializzare con gli altri e di fidarsi degli unici uomini che, finalmente, sono venuti a salvarlo. Nonostante i travolgenti attacchi di dolore insopportabile, Filottete rifiuta di accettare cure mediche dall'esercito e dalla nazione che lo ha tradito.

FILOTTETE

Immagina la mia sorpresa

quando mi sono svegliato, le lacrime

che ho versato, il suono della mia

tristezza. Tutte le navi

della flotta erano scomparse.

 

Lasciato solo con la mia ferita infetta,

conoscevo solo il dolore. Col tempo

imparai a procurarmi

cibo con questo sacro

arco, che mi ha salvato la vita.

Strisciavo sulle ginocchia rigide

nel fango profondo, raschiavo

contro le rocce il mio piede marcio.

 

Quando l'acqua scarseggiava,

sopravvissi raccogliendo ghiaccio.

Passai le fredde notti d'inverno

senza fuoco, e sfregando tra loro

le pietre, per averne una scintilla,

mi sono salvato da una morte certa.

 

Quindi vedi. Ho tutto

quel di cui ho bisogno qui, in questa grotta,

tutto tranne una cura

per la mia inguaribile malattia.

Mentre leggevo dell’ospedale ‘Walter Reed’ e vedevo le foto sui giornali di soldati americani in attesa di cure in ospedali a corto di personale, ho pensato che attraverso la medicina moderna abbiamo sviluppato la capacità di salvare le vite di più soldati che mai. Circa il 95 per cento dei feriti in combattimento, che sono sopravvissuti il tempo sufficiente per ricevere le prime cure mediche, sarebbe stato in grado di tornare negli Stati Uniti per iniziare la lunga strada verso la guarigione. Per i progressi della medicina, più di trentamila veterani delle guerre in Iraq e Afghanistan sono sopravvissuti a lesioni cerebrali traumatiche, di minore o maggiore entità, talora accompagnate da amputazioni multiple e da altre complesse ferite che in qualsiasi conflitto precedente sarebbero risultate fatali.

Tuttavia, salvando così tante vite, abbiamo anche affinato la nostra capacità di prolungare l'agonia e l'isolamento dei soldati feriti, come Filottete, arenati su isole di malattie croniche. Stavamo creando una vasta classe di veterani feriti indelebilmente che sarebbero stati dipendenti dalla cura degli altri per i decenni a venire.

Durante l'anno precedente, avevo diretto diverse letture della mia traduzione di Filottete in vari luoghi a New York City.

Filottete è stata la prima tragedia che avevo tradotto dopo la morte di Laura [la compagna dell’autore, scomparsa a 23 anni per una fibrosi cistica di cui soffriva sin dalla nascita]. Ero stato attratto da quella tragedia proprio a causa della sua vivida rappresentazione di una malattia cronica e del suo impatto sui pazienti e su chi li cura. Durante quelle prime letture, avevo notato che lo spettacolo aveva un immediato effetto sul pubblico. Le performances, che erano sempre crude e potenti, sembravano lasciare le persone a rimuginare nelle loro poltrone, incerti su come reagire alla rappresentazione tagliente, senza inibizioni, della sofferenza umana, rappresentazione che sta al centro dell'opera, e tuttavia col desiderio di parlarne.

Dopo una lettura nel seminterrato del Culture Project, un teatro d’avanguardia di Broadway nell'East Village, un medico mi contattò, suggerendo che il Filottete poteva essere usato per introdurre dialoghi sul rapporto tra medico e paziente nei corsi didattici di un ospedale universitario o di una scuola di medicina. Mi incoraggiò a contattare i direttori dei programmi di "medicina umanistica" in città, per verificare se qualcuno avesse interesse a quel tipo di performance.

Telefonai per primo a un medico di nome Lyuba Konopasek, che dirigeva il corso di ‘medicina umanistica’ al Weill Cornell Medical College e, così volle il destino, aveva recentemente adottato il libro di Laura, Breathing for a Living, per i suoi studenti di medicina del primo anno [si tratta dell’autobiografia della compagna dell’autore, che racconta della sua sofferenza e della sua esperienza clinica].

Meno di tre mesi dopo, con l'aiuto di Lyuba, presentai il Filottete al Weill Cornell per un pubblico di studenti di medicina al primo e terzo anno e per alcuni docenti. Anche se pochi, tra il pubblico, conoscevano già la tragedia, molti reagirono vivacemente alla rappresentazione, sia eticamente che emotivamente. Nella discussione che seguì allo spettacolo, fui sorpreso di sentire studenti di medicina e medici che comparavano spontaneamente, in maniera assai perspicace, il dramma greco con la loro pratica quotidiana, citando dei passi del testo e mettendoli in relazione con la loro esperienza professionale.  Lo spettacolo, a quanto pareva, riusciva a suscitare una discussione cruciale su questioni fondamentali che riguardano la cura dei pazienti.  

Nella sezione ‘salute’ del New York Times fu pubblicato un articolo su quelle letture al Weill Cornell. La giornalista, Abigail Zuger, descriveva Filottete come “un caso venuto fuori da un reparto di pazienti cronici in un ospedale per veterani”. Fu allora che cominciai a mettere insieme le cose, e a vedere il potenziale del Filottete di parlare non solo a un pubblico di medici ma anche ai soldati che avevano militato nell’esercito. Filottete, dopo tutto, non era solo un malato cronico. Era stato un veterano, abbandonato dalla nazione che lo aveva spedito in guerra. Se avessi potuto presentare letture da quella tragedia a soldati e veterani, come quelli in difficoltà di cui parlava l’articolo del Post, forse avrebbe giovato anche al loro processo di guarigione.  

Telefonai e bussai alla porta degli alti gradi dell’esercito, sperando di convincerli che mettere in scena le tragedie greche per le truppe sarebbe stato utile per far loro riflettere e discutere sulle sfide che li aspettavano ritornando dalla guerra, e avrebbe aiutato a lenire il dolore che molti avevano provato tornando a casa. Cercai di trovare dei capi simpatetici a West Point e ad Annapolis, dove la lettura di Tucidide e di Erodoto è obbligatoria, ma trovai quasi tutte le porte chiuse in faccia, alcune educatamente, altre no.   

Tutto cambiò il 13 gennaio 2008. Quel giorno il New York Times pubblicò un articolo intitolato ‘In giro per l’America, echi mortali di battaglie straniere’, come prima puntata di una serie di articoli sulle difficoltà dei veterani che tornavano in patria, chiamati ‘i devastati dalla guerra’. Con quell'articolo, le reporter investigative Deborah Sontag e Lizette Alvarez svelarono come la violenza delle guerre in Iraq e Afghanistan arrivasse sul suolo americano. Cominciava con una serie di titoli:

Città per città, in tutto il paese, i titoli di giornale hanno raccontato storie simili. A Lakewood: ‘Una famiglia dà la colpa all’Iraq se il figlio ha ucciso la moglie’; a Pierre: ‘Un soldato accusato di omicidio dimostra di essere affetto da stress post bellico’; a Colorado Springs: ‘Veterano della guerra in Iraq sospettato di due omicidi’.

 

Sontag e Alvarez riferirono di aver trovato “121 casi in cui veterani dell'Iraq e dell'Afghanistan hanno commesso o sono stati accusati di aver commesso un omicidio, dopo il loro ritorno dalla guerra”. Di questi casi, tre quarti riguardavano soldati ancora in servizio quando erano avvenuti gli omicidi.

Più della metà degli omicidi era stato causato da armi da fuoco, per il resto si trattava di accoltellamenti, percosse letali, strangolamenti, annegamenti nella vasca da bagno. Venticinque erano i casi di omicidio colposo dovuto alle conseguenze fatali di incidenti d’auto causati da guida in stato d’ebbrezza, pericolosa o suicida. Circa un terzo delle vittime erano le mogli, le fidanzate, i figli o altri parenti.

In ogni pagina dell’articolo, in ogni paragrafo, leggevo a grandi linee la storia dell’Aiace di Sofocle, che racconta la storia di un fiero guerriero greco che scivola nella depressione verso la fine della guerra di Troia dopo aver perso il suo caro amico, Achille. In un attacco di rabbia, Aiace tenta di uccidere i suoi capi, fallisce e alla fine si toglie la vita.

AIACE

Cosa dovrei fare, adesso?

Gli Dei mi odiano,

i Greci mi detestano,

i Troiani mi disprezzano.

 

Forse dovrei

salpare verso casa, sul

mare aperto, lasciando

qui navi e uomini,

e i figli di Atreo?

 

Ma cosa dirò

a mio padre, Telamone,

quando mi guarderà in faccia?

 

Come potrà sopportare

di guardarmi quando gli spiegherò

come ho disonorato

il nome della nostra famiglia,

per il quale lui invece ha combattuto

così duramente?

 

Il suo cuore si spezzerà

proprio allora, in quel momento.

 

Dovrei scalare le mura

di Troia e affrontare l'esercito

da solo, mostrare loro di che tempra

sono fatto, e poi morire?

 

No, questo farebbe solo

piacere ai generali.

Devo fare qualcosa di

audace per cancellare ogni dubbio

nella mente di mio padre

che suo figlio 

fosse solo un codardo.

 

Quando un uomo soffre

senza poter vedere

la fine della sua sofferenza

e non prova piacere

nel vivere la sua vita, giorno

per giorno desiderando la

la morte, non dovrebbe

vivere tutti i suoi anni.

 

È pietoso quando gli uomini

si aggrappano a false speranze.

 

Un grande uomo deve vivere

con onore oppure

morire di morte onorevole.

Aiace, un soldato decorato che viene da una famiglia prestigiosa per i suoi meriti militari, era considerato da molti il guerriero più forte nell’armata greca, secondo solo ad Achille. I Greci lo chiamavano ‘lo scudo’, perché lui e le sue truppe combattevano sempre nelle battaglie più pericolose e sostenevano le perdite maggiori, proteggendo invece il resto dell’esercito dagli attacchi più violenti. Così, raccontando la storia di Aiace, compresa la sua sanguinosa furia e il successivo suicidio, per un pubblico prevalentemente militare durante un secolo in cui Atene vide quasi ottant'anni di guerra, Sofocle, generale e drammaturgo, inviava un chiaro messaggio a tutti coloro che avevano servito nell’esercito, o che si stavano addestrando per entrare nell’esercito: nessuno tra noi è invulnerabile rispetto alle ferite invisibili della guerra.

Sofocle non fu affatto l'unico tragediografo greco a scrivere sui costi della guerra. Eschilo descrive i pericoli del ritorno a casa nell'Agamennone, Euripide racconta il disagio psicologico della guerra nella Follia di Eracle, le condizioni morali e spirituali dell'andare in guerra nell'Ifigenia in Aulide, e l'orrore delle atrocità di guerra nelle Troiane. Però, anche se fu certamente colto dal pubblico contemporaneo, il messaggio dell’Aiace di Sofocle sembra particolarmente importante per il nostro tempo.

La tragedia vuole dire che anche il più forte dei guerrieri può essere abbattuto, molto tempo dopo che la battaglia è stata persa o vinta. La violenza della guerra si estende ben oltre il campo di battaglia. Non solo i danni psicologici erano, a quanto pare, un problema costante e comune per i guerrieri di venticinque secoli fa ma, come gli Americani di oggi, anche gli antichi greci devono aver lottato con la violenza della guerra, dentro e fuori il campo di battaglia.

Un po’ più oltre, nello stesso articolo, come per provvidenza divina o per destino, in un paragrafo intitolato ‘Un antico paragone’, Sontag e Alvarez misero insieme i pezzi mancanti e mi indicarono direttamente la persona che mi avrebbe aiutato ad allestire la mia prima performance in ambito militare:

In un corso online per medici e paramedici, il capitano William P. Nash, coordinatore del controllo dello stress da combattimento/operativo dei Marines, si rifà al racconto di Sofocle su Aiace, che cadde in depressione dopo la guerra di Troia, massacrò un gregge di pecore in uno stato di follia, e poi si trafisse sulla sua stessa spada.

(...)

 

.