Il testo che segue è stato scritto in memoria di Zaira Coen Righi (1879-1944), deportata ad Auschwitz, insegnante di scienze al Liceo Azuni di Sassari, per la quale oggi si pone una ‘pietra d’inciampo’ in Piazza d’Italia nella città sarda.
Si ricorda anche, sempre in forma romanzata, un’altra deportata sarda, Vittoria Mariani di Porto Torres, che sopravvisse a Bergen-Belsen. Il testo che qui riportiamo è stato proposto in una lettura scenica da Daniele Monachella di Mab teatro a Budoni, nella Giornata della memoria del 2019.
‘Professoressa…’ – si sente chiamare.
È fredda la mattina di febbraio 1943. Fredda e silenziosa.
Il sole, dietro la soffice nebbia, sembra morire - non stare sorgendo. Stanno lì, impietriti, con gli occhi lucidi per la veglia, ognuno impugna una valigia, stringe strette le dita: in quelle valigie, tutto ciò che resta.
Gli ultimi scendono dai camion, di fretta, aiutando i più vecchi, i bambini alle mani dei grandi, come a cercare rassicurazione. Altri camion arrivano; tutto si svolge in un grande silenzio. I camion sembrano rivestiti di un panno nero. Si stropiccia gli occhi; li vede neri, ma devono esser del colore dei mezzi militari, quel grigio incerto ed uniforme che sembra stendersi sulle cose durante una guerra.
Negli ultimi giorni, aveva visto tanti di quei camion grigi passare per le strade di Firenze. Qualche giorno prima, un camion si era fermato in Piazza del Duomo. Ne era sceso un ufficiale, aveva guardato in alto la cupola e aveva esclamato wunderbar, come se nulla fosse; wunderbar, bellissimo, meraviglioso, wunderbar, come dice un turista commosso. Ricordava distintamente l’esclamazione di quell’ufficiale, e non le voci sommesse, come preghiere o gemiti, che pure venivano da sotto il telone del camion, fermo eccezionalmente proprio in mezzo alla piazza per consentire all’ufficiale di guardare tutto quello splendore. Lei aveva abbassato gli occhi, affrettato il passo, tornata di fretta a casa.
Ed ora si trovava nel freddo pungente di un’alba di campagna, messa in fila come un tempo lei faceva con i suoi alunni a scuola. Alcune ragazze davanti a lei sono persino vestite elegantemente, con scarpe dai tacchi alti, abiti costosi, truccate di tutto punto. Sarà stato consigliato alle ragazze giovani di farsi carine, così da evitare di essere destinate ai lavori più pesanti. I bambini più piccoli piangono. Lei sta lì, con la sua valigetta; insieme alla sorella, che non si regge bene in piedi. Si mette in fila.
Il filo spinato lacera l’orizzonte.
‘Professoressa…’, sente ancora, e si gira, per l’abitudine di essere chiamata così. Dietro di lei una ragazza bionda, pallida come la luna, in un cappotto troppo grande, ‘professoressa’, ripete. Lei la fissa, senza capire. Stringe il braccio alla sorella, che le sta affianco, per sostenerla. Poi un ricordo le traversa la mente, un lampo.
Una campanella scolastica, e il vociare degli alunni per le scale. La fine della mattinata. Lei ripone il registro nei cassetti di legno scuro, rallegrandosi già del mezzogiorno. E mentre infila il soprabito leggero sul tailleur impeccabile, attillato, una ragazza le si avvicinava, timorosa ‘Professoressa’, le aveva detto, ‘mi hanno mandato a chiamarla. Torni a casa, presto’.
Il ricordo è finito. Lei guarda la ragazza, sì, è proprio lei, la ragazza pallida come luna, nella nebbia e nel grigio della guerra, è proprio lei. Le fa un cenno, le fa segno d’averla riconosciuta. È Vittorina.
Quel ricordo, uno tra i più dolorosi della sua vita, sembra non contenere più alcun dolore. Sembra non essere nemmeno un ricordo. La ragazza le si avvicina, le sta dietro, può sentirla, può parlarle sottovoce.
‘Vittorina’, sussurra alla ragazza, ‘anche tu, qui…’. ‘E dove…?’, sta per chiederle ‘dov’è che t’hanno presa?’. ‘A Roma, ero andata a Roma per lavorare’, dice Vittorina intuendo. Poi china gli occhi a terra; con un passo pesante, si avvicina un tedesco, con un mantello nero sulle spalle, e aiutandosi con un frustrino serra le file.
La professoressa cerca di tenere su la sorella, ma quella, esausta, vuole lasciarsi cadere: ‘lasciami qui’, dice, stremata. La ragazza se ne accorge, fa un passo avanti, prende sottobraccio la donna dall’altro lato. Tenta persino di sorriderle. ‘Avanti’, grida qualcuno da dietro. Cominciano a camminare, cercando di tenersi al centro della fila, per non farsi notare. La donna del mezzo deve essere trascinata.
‘Ma perché – chiede Vittorina con un filo di voce – perché professoressa lei non è rimasta in Sardegna?’.
Quel nome, Sardegna, attraversa l’aria come una parola esotica, di una terra lontana, di sogno. La professoressa scuote la testa, si rivede più giovane, che corre sotto i portici di Bologna. Scherza con un suo amico, un distinto signore, dottore in medicina, con gli occhi e la pelle scura, che l’aveva portata a prendere un caffè a Piazza San Petronio. Lei l’aveva trovato buffo, con i suoi modi decisamente antiquati, timido e dall’accento strano, di una cortesia disarmante, un po’ sorpreso di poter parlare con lei, che era una donna, anche di virus e malattie infettive. Lui l’aveva esaminata, tempo prima, come giovane assistente all’Università, per l’esame di biologia, poi si erano persi di vista. C’era stata la guerra, lui era stato ufficiale medico; lei infermiera volontaria, aveva cominciato ad insegnare a Bologna, e lì si ritrovarono a casa di amici una sera, a guerra appena finita. Non erano più due ragazzi, la vita li aveva segnati: eppure insieme si divertivano.
Una sera d’estate del 1919, a Bologna si soffocava: io vorrei mostrarLe - lui disse - il mare della mia terra, le spiagge bianche, gli scogli che diventano rossi come il corallo, i colori indescrivibili che circondano l’Asinara… Se Lei volesse venire con me in Sardegna, beninteso – aggiunse dopo una pausa imbarazzata – se Lei volesse acconsentire a divenire mia moglie. Così la professoressa di scienze, in un’età in cui ormai non le sembrava più decoroso pensare al matrimonio, si trovò a dir di sì e ad affrontare, per la prima volta in vita sua, il mare.
‘La Sardegna…’, ripete, inseguendo un pensiero, e ricorda i parenti che festeggiarono gli sposi arrivati con il traghetto a Porto Torres, a centanni, gridavano, il vento impetuoso le fece volar via il cappello, i bambini, i nipotini, guardavano incuriositi la signora venuta dal continente. I nipotini che sarebbero stati i suoi bambini, ché ormai per lei era troppo tardi per pensare ad un figlio suo, ed in guerra, mentre curava da infermiera volontaria i soldati che venivano dal fronte, rimaneva straziata dal vedere ferite orrende su corpi così giovani e belli…
Belli come i suoi alunni del liceo Azuni di Sassari, dove ogni mattina si recava dopo aver preso un caffè sotto i portici della Piazza d’Italia, e il sole si stagliava quasi sempre nell’azzurro e si rifletteva nella nobile facciata del palazzo dalle ampie finestre in stile veneziano. Ogni volta che apriva le finestre del suo appartamento che dava proprio sulla piazza, si lasciava carezzare da quel sole e dall’azzurro, così diverso dalle nebbie dei luoghi della sua infanzia, dal cielo luminoso: persino il vento, anche il maestrale più violento, le piaceva, e vi si abbandonava, prima di andare a scuola, dove a quegli alunni curiosi e quasi tutti bravi le riusciva di suscitare la passione per provette ed alambicchi, per il microscopio, per gli animali conservati in formalina…
‘La Sardegna’, pensò – l’isola dove aveva vissuto la sua seconda giovinezza, e in primavera si andava a passeggiare sulla rotonda di Platamona e il sabato sera si ballava nei saloni illuminati a festa e si andava a sentire musica nelle case nobili, dai soffitti affrescati; durante il carnevale si mangiavano frittelle dolci e ci si mascherava e poi: l’estate, sì l’estate era davvero estate, e le sembra, in quella fredda mattinata di febbraio, mentre avanzano in fila verso il campo, sporcandosi le scarpe nel fango, tenendo la sorella per il braccio, e con la destra stringendo la sua valigia, allora le sembra di sentire il profumo del mare e le voci dei pescatori che al mattino presto vendevano pesci luccicanti sul porticciolo di Alghero…
‘Ho lasciato la Sardegna, Vittorina. Non era più posto per me’. La ragazza la guarda, quasi riconoscente che la signora professoressa si ricordi il suo nome.
Vittorina, la ragazza smunta che adesso le stava quasi affianco, lavorava a servizio nel negozio della famiglia di suo marito, teneva in ordine i pregevoli mobili d’antiquariato e le opere d’arte. Anche lei, quando poteva, passava ore tra tanta bellezza, e Vittorina, silenziosa ed alacre, era sempre lì a spolverare i cristalli, a far rilucere il legno, a ripassare le cornici. Quella mattina, proprio Vittorina era venuta a chiamarla da scuola. Il dottore si era sentito male, disse, bisognava far presto…
Corsero insieme attraverso i giardinetti, per quella viuzza che passa accanto alle mura vecchie della città, un po’ in salita, per arrivare alla piazza dove un tempo c’era il Castello. I passanti le guardavano, sospettavano gravi motivi per quella fretta, e infine arrivarono a Piazza d’Italia, salì per le scale del palazzo nobile e antico con il cuore in tumulto, ma era tardi, troppo tardi, il dottore, quel dottore timido che un giorno le aveva chiesto in modo buffo di sposarlo, non c’era già più… Stavolta, non l’aveva aspettata.
Continuano a camminare. Lei si sente in un tunnel, ma dubita che ci sia luce alla fine. Si rifugia nel ricordo.
Ricordi grigi. Di tempi divenuti grigi. La sua casa, quell’appartamento luminoso dov’era stata felice, le pareva troppo grande e vuoto, da quando il dottore non c’era.
Mancò a scuola solo qualche giorno; però non sorrideva più. I cognati la pregarono di prendersi un po’ di riposo, di andare magari in campagna, o al mare, ma lei rifiutava, e cominciò a vestirsi solo rigorosamente di nero. Poi un giorno il preside la mandò a chiamare. In quella città di provincia, per tutti era la professoressa Righi.
A lei non dispiaceva di essere chiamata col nome del marito. Una piccola bugia, però, c’era stata nella loro vita. Quando accettò di sposare Italo, gli disse che non poteva sposarlo in chiesa, perché era ebrea. Lui sorrise e disse ‘non importa’, ‘ci sposeremo a Bologna in comune e arriveremo a Sassari già marito e moglie. Nessuno chiederà niente, vedrai’, e così era stato.
Dei sardi aveva saputo apprezzare sempre la discrezione muta. Lei andava in chiesa con la cognata, non sempre, ma ogni volta ch’era necessario, a Natale, ad esempio, e non mostrava alcun imbarazzo. A Sassari un tempo c’era stata una comunità di ebrei, ma adesso non più, e non c’era una sinagoga. Lei non aveva ricevuto un’educazione strettamente religiosa. Non si era mai interessata di politica, e Mussolini non le dispiaceva. Era un uomo forte e concreto, dalla parte dei lavoratori. Aveva preso la tessera del partito, come tutti del resto.
Solo quando l’Italia entrò in guerra ebbe un momento di scoramento: aveva già vissuto la guerra, e non le sembrava possibile che adesso tutto dovesse ripetersi. I discorsi deliranti contro gli ebrei non la toccavano, e non avrebbero toccato gli italiani, pensava, e meno che mai i sardi. La sua famiglia acquisita era amica del podestà, il loro nome rispettato sull’isola. Quando dunque il preside la mandò a chiamare, e arrossendo le disse che non poteva più insegnare, perché era ebrea, e che pur manifestandole tutta la sua solidarietà non poteva far davvero nulla, la sua fu una reazione di sincero stupore.
Il licenziamento la toccava appena – ormai aveva l’età della pensione, ma il motivo la sconcertava. E poi? Come avevano saputo ch’era ebrea? Il suo cognome, le disse il preside, cara professoressa, è inequivocabile. Coen. Lei si chiama Coen. In continente hanno stilato liste precise, sa come sono i tedeschi – aggiunse. Sì, ma chi ha detto loro che ero qui? Ma no, professoressa, non è un provvedimento ad personam. Io sono costretto, ho avuto un fonogramma dal ministero, non posso che obbedire… ma lei, ascolti, ha avuto una carriera così brillante, è una donna stimata, si ritiri da qualche parte, magari non qui in città, sarebbe sotto gli occhi di tutti, in campagna, ad esempio, lasci passare questo momento, vedrà che tutto si sistemerà…
Lei tornò a casa, prese una valigia con pochi vestiti e chiese all’autista di portarla al porto, si sarebbe imbarcata la sera per Genova. Tentarono di dissuaderla: ma lì nell’isola, non si sentiva più a casa. Era arrivato il tempo di andar via. I nipoti, sì, i nipoti erano stati come figli per lei: però uno era in guerra, l’altro diventato un importante membro del partito e dopo averle sottovoce promesso che l’avrebbe aiutata, le chiese di nascondersi, almeno per qualche tempo, ché avrebbe fatto di tutto per proteggerla ed in Sardegna gli riusciva facile… C’era una famiglia di un pastore, ad esempio, avrebbe potuto vivere qualche tempo con loro. L’aria buona, di montagna. Nascondersi? E perché mai?
Aveva una sorella, che viveva con suo marito a Firenze, la chiamò brevemente al telefono, e lei disse solo: ‘ti aspettiamo’. Giunse a Firenze, e vi trovò una famiglia impaurita, incapace di reagire. Circolavano voci. Si diceva che avrebbero preso tutti, compresi donne, vecchi, bambini. Ma loro non erano una famiglia di stretta osservanza ebraica, non frequentavano la sinagoga, e non erano stati censiti. Nessuno credeva che sarebbero venuti per portarli via. Per farne cosa, poi? La sorella da sempre era cagionevole di salute, ora il soffio al cuore le impediva anche movimenti semplici, non potevano lavorare. Invece, invece qualcuno li stava osservando e li denunciò. Il marito della sorella andò via: ‘voi due, siete donne, non vi prenderanno’, disse. ‘Vogliono gli uomini, le donne le lasciano stare’.
Sotto al Ponte vecchio, comparvero le SS. Loro si chiusero in casa.
All’alba di un giorno qualunque, si presentò un capitano delle SS, bussando forte alla porta. Aveva tra le mani un foglio scritto a macchina, che cominciò a leggere urlando così forte che – anche se avessero saputo il tedesco – sarebbe stato impossibile capire. Una vicina si affacciò sul pianerottolo, ma subito spaventata richiuse la porta a doppia mandata. Lei allora, con coraggio, prese dalle mani del soldato il foglio, e vide che c’era una traduzione italiana, e cominciò a leggerla ad alta voce:
‘1. Tutti voi ebrei, con la vostra famiglia e con gli altri ebrei che vivono con voi, sarete trasferiti 2. Bisogna portare con sé: a. viveri per almeno otto giorni; b. tessere annonarie; c. carta d’identità. 3. Si possono portare con sé: a. una valigetta con effetti personali, biancheria, coperte ecc. b. denari e gioielli; 4. Bisogna chiudere a chiave l’appartamento. 5. Bisogna prendere le chiavi e portarle con sé. 6. Anche gli ammalati gravissimi devono essere portati via. Nel campo c’è un’infermeria. Avete tempo venti minuti per prepararvi.’
Il capitano delle SS annuì, poi aggiunse schnell, schnell, senza fare irruzione, aspettando sulla soglia. Sembrava sapere che lì c’erano loro due, due signore attempate, chissà quanto pericolose per il grande Reich. Lei ricordava la calma con cui trascorsero quei venti minuti. Si vestì con cura e con decoro, come sempre. A Sassari l’ammiravano per la sua eleganza, quando la domenica passeggiava con Italo, il dottor Italo, suo marito, e prendeva il caffè e le paste alla crema alla pasticceria di piazza Castello. La valigia era già pronta, c’erano le poche cose che aveva portato dalla Sardegna. ‘Andiamo’, aveva detto alla sorella, ‘coraggio’. Non una parola di protesta. Come le aveva detto il preside, il loro cognome era inequivocabile.
Ed ora. Ora sono lì, a Fossoli. C’è un soldato all’entrata del campo, redige delle liste, prende i documenti. Separa gli uomini dalle donne. Camminano, nessuno si ribella. Lei stringe il braccio alla sorella, dall’altra parte c’è Vittorina. Che strano, pensa, incontrarla proprio lì.
Una donna ha un attacco isterico. Comincia a gridare. Le urla sono acute, il meccanismo ordinato e silente si inceppa, un SS strattona la donna, vuole farla tacere, e quella urla ancora più forte, due spari ravvicinati, la donna si affloscia. Il soldato bestemmia, punta sul cadavere una pila tascabile, anche se è ormai giorno. Lei vede una bambola di cera, con gli occhi bianchi verso il cielo che hanno perso le pupille.
Giungono davanti al soldato che redige le liste. Quello fa segno a due soldati, loro si muovono all’unisono, staccano Vittorina dalla sorella, che sta per svenire, ma lei riesce a tenerla in piedi. Vittorina è allontanata, le tende le braccia, ‘signora…’, grida, lei chiude gli occhi e sente l’inconfondibile accento sardo, chiude gli occhi e le sembra di essere altrove, ‘professoressa…’, sente ancora, e con gli occhi chiusi le pare anche di sentire un canto: No potho reposare…
Poi un dolore acuto. Qualcosa l’ha colpita alla testa. Il buio diventa davvero buio, senza ricordi.
Si sveglia in una locale grande, come un magazzino. È da sola. Cerca di alzarsi, ha un forte mal di testa. Non c’è spazio per tutti, molti in piedi si appoggiano sfiniti alle mura, chi ha trovato posto a terra lo difende a qualsiasi costo. Qualcuno urla che è malato, brandisce analisi mediche, viene portato in infermeria, ma non si capisce dove sia. Ci sono medici che calmano la gente, distribuiscono sonniferi, ma non conviene addormentarsi. Si può essere chiamati in qualsiasi momento per il trasporto, ed allora è meglio essere svegli, altrimenti i parenti devono trascinare a spalla chi dorme. Lei passa a fatica tra la folla, sono centinaia di persone lì accalcate, chiedono acqua. C’è troppa gente e non si respira. Acqua e ancora acqua, bisogna trovare acqua. Le sembra di camminare tra fantasmi assetati, tra pallide ombre senza desideri e senza pensieri, in attesa del giudizio universale, già morti. Le SS sono nervose, la folla è tanta, temono disordini e contagi. Non ci sono servizi igienici per tutta quella gente, i vecchi se la fanno addosso. C’è puzza. Le donne piangono, i bambini sono stati portati altrove, lei cerca la sorella, parla con qualcuno, cerca di rincuorarlo, le famiglie verranno riunite, dice. I soldati hanno fazzoletti sulla bocca e sul naso. Aspettano ordini. I prigionieri li guardano, i più giovani con odio, altri con paura e costernazione. È solo un gioco con gli occhi, non possono parlare tra loro. ‘Dove ci porteranno?’ è la domanda che più si sente. Lei cerca la sorella.
Poi la vede. Eccola, è lì, e parla da sola. Lei si avvicina percorsa da brividi di gelo. La paura defluisce alla testa, la vista le si inceppa. L’hanno fatta sedere, e le dà le spalle. Lei la tocca, e lei si volta e la guarda con occhi spalancati dal terrore e il volto deformato dalla sofferenza.
Non è la sorella. È solo una donna che le assomiglia e sta male. L’hanno fatta sedere, le fanno posto, si stringono tutti in piedi attorno a lei. Lei prende la mano della donna, che le parla con confidenza, come se la conoscesse, ma lei non l’ascolta. Ha bisogno di sapere dov’è la sorella.
Cerca ancora, poi finalmente vede Vittorina. Sta lì piegata in due. La guarda, ma è come se non la riconoscesse. ‘Vittorina’, le dice. La ragazza le stringe la mano: ‘Si ricorda? – dice all’improvviso – si ricorda signora com’era bella la domenica d’estate a Platamona? E come si passeggiava sulla rotonda, e i balli e il mare? Si ricorda la Sardegna, signora? Ed io pensi non sapevo nemmeno di essere ebrea. E sono andata a Roma, per lavorare, da mia cugina… e lì mi hanno preso. Mi dispiace, signora, mi dispiace per sua sorella. Ma forse, è meglio così. È meglio che non veda dove ci porteranno.
Lei ode distintamente il battere del suo cuore, un rintocco regolare, cupo.
Non è vero che il cuore si spezza, sarebbe una soluzione semplice alla sofferenza. No, il cuore continua a battere. E smette anche la sensazione di essere un guscio vuoto – che non è spiacevole, è una mancanza che sopperisce ad una mancanza, così forse ci si sente quando i farmaci sedano ogni dolore, un’immersione senza suoni e senza luci, solo un bagliore accecante che nega i contorni alle cose, e nega realtà alla realtà e vita alla vita.
Prima c’è il guscio, poi il battito del cuore, e infine si esce dal limbo, il dolore morde e prende il sopravvento, la realtà dell'assenza si appropria dei sentimenti, si sente, ed è nel momento del ri-sentire che ci si augura di morire, qualunque tipo di morte, anche la più dolorosa fisicamente, purché smetta l’atroce dolore nudo, in un luogo indefinito, nella testa forse, o nello stomaco, o tra le costole e lo stomaco, un dolore inesprimibile al quale non c’è nulla da opporre, né l’urlo né il silenzio. Eppure non dura, è talmente intenso che la memoria può trattenerlo. È un attimo, un lampo, il fulmine del dolore. Il simbolo del dolore. Prima il vuoto, poi il dolore, poi di nuovo il vuoto, un vuoto diverso, però. Non sei più una sagoma, una silhouette, un’ombra. Cammini, ridi, agisci, come tutti, e nessuno si accorge di quel che c’è di meccanico in te. Gli automi non muoiono. Si rompono. La vita diviene l’attesa di quella rottura, dell’ingranaggio che non tiene, del disturbo nei circuiti, dello spezzarsi del dente di una ruota. Il tempo è scandito da un orologio che aspetta solo che la corda finisca. E se potesse non chiederebbe nient’altro che fermarsi. Ma un orologio, appunto, è una cosa, non chiede, non ha desideri.
E così lei diventa una cosa, senza desideri, una macchina che agisce perché programmata per agire.
Si accascia vicino a Vittorina. Sente ancora quel canto: No potho reposare…
Ed è da lì che vengono a prenderle, la mattina dopo, il 16 maggio 1944.
Vittorina sale con lei su un camion, coperto da un tendone scuro, sono in troppi e devono stare in piedi. Vittorina le fa scudo, la spinge contro la parete del camion perché non cada. Il camion vibra e traballa ed è difficile tenersi dritti, si spingono l’uno addosso all’altro per formare una massa compatta e non cadere. Chi cade corre il rischio di essere calpestato.
Il tragitto sino alla stazione è breve.
Sul binario sono già pronti i vagoni. Va tutto molto di fretta, scendere, mettersi in riga, cinque per fila, camminare verso i binari. Lei non regge il passo degli altri, si aggrappa al braccio di Vittorina, che la trascina. I vagoni sono per le merci, senza scale per salirvi, non è semplice. Vittorina salta sul vagone, chiede ad un ebreo che fa da facchino di aiutarla, sollevano di peso la donna e poi la valigia, la fanno subito sedere sulla sua valigia messa sul pavimento, non ci sono sedie, gli altri restano in piedi, attorno ad una botte rovesciata al centro. Ci sono una cinquantina di persone lì dentro, non si respira. Il vagone ha due porte scorrevoli, senza finestre e senza prese d’aria, se si eccettua una finestrella in alto, quadrata, per far entrare la luce. Il viaggio non durerà molto…
Quando, tempo dopo, chiederanno a Vittorina cosa ricorda, dirà solo che lei e la professoressa passarono il tempo cantando Non potho reposare. Poi, ad Auschwizt, le separarono di nuovo.
Nelle immagini: Sassari e Porto Torres negli anni '40. Le prime due immagini sono del campo di Fossoli. Immagini di retate degli ebrei in Italia e due deportate in un vagone per Auschwitz Alla fine una cartolina per la prof.ssa Zaira Righi Coen ad Auschwitz, conservata nella digital library del Centro di documentazione ebraica, insieme alla foto qui sotto.