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   Avevo ricevuto il giusto impulso: bisognava lottare contro la guerra!

Tutto era già pronto in me ed era mancata soltanto l’ultima conferma del mio istinto perché cominciassi. Avevo riconosciuto l’avversario da combattere: il falso eroismo che preferisce mandare gli altri a soffrire e a morire, il facile ottimismo dei profeti senza coscienza, politici o militari, che, promettendo senza scrupoli la vittoria, prolungano il massacro e hanno alle spalle il coro da loro pagato, tutti quei «parolai della guerra» che Franz Werfel ha messo alla gogna in una sua bella poesia.[1]

 Chi manifestava un dubbio li disturbava nei loro affari patriottici; chi ammoniva era schernito come pessimista; chi combatteva la guerra di cui essi non condividevano i dolori era marchiato come traditore. Attraverso i secoli rimaneva sempre la stessa gentaglia, pronta a dichiarare vili i prudenti, deboli gli umani, per poi smarrirsi nell’ora della catastrofe imprudentemente provocata. Era la stessa gente che aveva schernito Cassandra a Troia, Geremia a Gerusalemme, e mai come in quelle ore terribilmente simili avevo sentita la tragica grandezza di quelle figure.

Sin dal principio non avevo creduto alla “vittoria” e avevo avuto una sola certezza: che anche se questa fosse stata raggiunta con sacrifici inauditi, non li avrebbe giustificati. Ma ero rimasto sempre solo con il mio presagio tra tutti i miei amici e la confusa retorica della vittoria prima della battaglia, la spartizione della preda prima della lotta mi fecero spesso dubitare d’essere io il pazzo fra tanti savi, o meglio il solo spaventosamente desto in mezzo alla loro ubriacatura. Divenne così naturale per me rappresentare in forma drammatica la mia stessa tragica situazione del “disfattista”, una parola che era stata allora inventata per attribuire volontà di sconfitta a quelli che miravano a un accordo.

Scelsi come simbolo la figura di Geremia, di colui che invano ammonisce. Mio scopo non era affatto scrivere un dramma “pacifista”, ridurre in parole e in versi l’evidente verità che la pace è migliore della guerra, bensì mostrare che colui il quale è disprezzato nel tempo dell’entusiasmo come debole e pauroso, nell’ora della sconfitta si rivela invece di solito l’unico in grado non soltanto di sopportarla, ma di dominarla.

Sin dal mio primo lavoro teatrale, Tersite, mi aveva interessato il problema della superiorità spirituale del vinto.[2] Mi piacque sempre additare quella forma d’indurimento interiore che la potenza determina in un uomo, l’irrigidimento spirituale provocato da ogni vittoria in popoli interi, mettendovi a riscontro la forza sconvolgente e dolorosamente feconda della sconfitta. In piena guerra, quando gli altri, con prematuro trionfo, si mostravano l’un l’altro l’immancabile vittoria, già io mi sprofondavo nell’estremo abisso della catastrofe e andavo in cerca di una via per risalire.

 

 

Da Stefan Zweig,  Il mondo di ieri: Ricordi di un europeo (Oscar classici moderni Vol. 88) (traduzione di Lavinia Mazzucchetti).

In copertina: Oscar Zügel,  Rote Tänzerin, una delle opere proibite dal Nazismo come 'arte degenerata'. 

 

 

[1] Der Krieg (La guerra, 1914) , si può leggere qui con un saggio di commento di Caroline Lüdersen.

[2] Tersite, l’unico ‘soldato semplice’ che compare nell’ Iliade (vv. 212-287), protesta contro i capi e vorrebbe tornare a casa ed è messo a tacere con il bastone da Odisseo,  protagonista di un dramma giovanile di Stephan Zweig: “Il lavoro …rivelava un certo tratto personale, cioè la mia tendenza a non prendere mai la parte del cosiddetto “eroe”, ma di vedere l’elemento tragico soltanto nel vinto.”

 

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