TIRESIA
Anche stanotte l’ho visto aggirarsi senza sosta, passare di stanza in stanza nei domata della sacra rocca di Tebe:
il sovrano è agitato, scosso come una bestia ferita, va alla ricerca di cause che possano spiegare il diffondersi del male, legge vecchie tavolette e interroga gli altri, quando dovrebbe interrogare se stesso. Gli potrei già risparmiare questa angoscia, ricordandogli che vani sono gli affanni degli uomini, se confrontati con la potenza divina, ma prima o poi interrogherà anche me e a quel punto gli dovrò dire quel che so e penso da tempo per me immemorabile: chi è causa del suo male pianga se stesso.
Pretende, come allora con la Sfinge, di risolvere da solo l’enigma; pretende di trovare una nuova via alla ricerca, come quei medici di oggi che non paghi di presagi cercano nell’osservazione diretta dei fenomeni la risposta ai loro quesiti – stolti! – pretende di applicare ad altri il suo giudizio, quando egli stesso è la causa del miasma che affligge la città. La sua tracotanza è pari al suo ardimento, è maledettamente attaccato al potere, non vuole disfarsene e teme che gli altri stiano lì ad aspettare un suo cedimento per approfittarne, per affondare la lama del coltello nella ferita, per spartirsi le sue spoglie umane, di misero figlio di nessuno e della sorte. Più che temerlo dovrei compatirlo, sì, compatire è il nostro destino in questo tempo di sventura.
EDIPO
Da solo, mi ritrovo tremendamente, mostruosamente solo a fronteggiare questa immane sventura. A chi affidarmi, infatti, in una condizione del genere? Mio cognato, quella serpe di Creonte, ne ha già approfittato per entrare in combutta con il peggiore dei miei concittadini, il vate Tiresia; sono certo che l’indovino, quel cane, cercherà, anche lui, in tutti i modi di squalificarmi davanti al demos, di farmi apparire colpevole di non avere adoperato sufficienti misure di salute pubblica, di avere dimenticato di sacrificare a qualcuno degli dèi, di non avere tenuto conto della sua autorità, che poi è quella del Lossia, che nulla rivela e nulla nasconde, ma significa. Ma gli dimostrerò che non Apollo, ma io sono il baluardo dei Tebani; da parte loro, tutti gli abitanti di Tebe, i vecchi soprattutto, ma anche i giovani, vedono in me, nel loro sovrano, la speranza di una guarigione, e così vengono da me ogni giorno come supplici, anche oggi riceverò una loro rappresentanza, e mi troverò ancora a dovere fronteggiarli con parole vuote, cercando miseri appigli, nutrendoli di vane speranze, eppure dicendo la verità, ossia che nessuno di loro è più malato di me. Perché in effetti, neppure al sonno ristoratore posso affidarmi: meglio vegliare piuttosto che essere visitato da orrende visioni che popolano in maniera ricorrente i miei sogni notturni. Che si sia effettivamente realizzato quanto il dio predisse ai miei genitori, il destino che con tutte le mie forze ho cercato di stornare ogni giorno della mia misera vita? Dovrò chiedere all’interprete dei sogni, ma non basterà: non mi accontenterò di semplici indizi, vaglierò le prove, andrò alla ricerca di segni inequivocabili, sarà così che, ancora una volta, libererò la terra cadmea dalla calamità. Mi aspetta una solitaria lotta contro un male sconosciuto, che rende sterili le nostre mogli e la nostra terra, e ci sta facendo vacillare sull’orlo dell’abisso, ne vediamo già il fondo e non sappiamo se e quando ne usciremo.
Prologo
Ambientato in un tempo che precede l’inizio del racconto mitologico dell’Edipo re sofocleo, ho immaginato l’ideale dialogo a distanza tra Edipo e Tiresia, due tra i principali personaggi della vicenda tragica. Diversi sono gli aspetti del mito di Edipo che, per somiglianza, richiamano la situazione attuale: c’è una malattia che minaccia di colpire tutti, una malattia nuova, mai vista, di fronte alla quale il sapere degli scienziati, dei cosiddetti ‘saggi’, si dimostra inefficace. C’è una comunità che, presa dal panico del contagio, si affida a figure che assumono in virtù del loro ruolo politico, un rilievo salvifico e carismatico. Scienza e opinione pubblica si confrontano sul tema del cosiddetto “paziente zero” (perché asintomatico) e del “paziente uno”, quello da cui manifestamente è partito il contagio.
Del resto, perché possa essere utile alla riflessione sulla attuale vicenda della pandemia da coronavirus, il confronto con l’antico deve necessariamente passare attraverso la sottolineatura delle profonde differenze tra la nostra idea di malattia e di contagio, e la “loro” concezione, per così dire antica; e qui va ricordato che abbiamo dovuto aspettare l’invenzione del microscopio per raggiungere una comprensione profonda dell’origine microbiologica dei processi epidemici, se è vero che ancora nella Milano del 1628 scossa dalla peste, esemplarmente descritta da Alessandro Manzoni, si credeva ancora all’ipotesi che a diffondere il contagio fossero gli “untori” con il loro portato di imbrattature.
L’eziologia del male
La concezione tradizionale della pestilenza nell’antica Grecia è legata all’idea di contaminazione (miasma). L’azione contaminante del singolo, che può consistere in un delitto di varia natura, per esempio, come nel caso della vicenda di Edipo, nell’uccisione di un consanguineo, ha delle immediate ripercussioni sull’intera comunità civica. Il dramma sofocleo ci consegna l’immagine di una città, Tebe, e di un’intera regione, quella circostante, colpite da una pestilenza (loimòs) che è anche chiamata malattia (nosos), che investe in primo luogo la capacità generativa della terra stessa e di tutti gli esseri viventi, esseri umani compresi: la conseguenza della contaminazione è una vera e propria carestia, è una condizione di sterilità che impedisce agli esseri viventi di riprodursi, rendendo sterili sia piante sia donne, vittime di una comune sorte. Rispetto alla dimensione, pure geograficamente circoscritta, della polis greca antica, la pestilenza dell’Edipo re ha effettivamente anch’essa, come l’attuale diffondersi del coronavirus, il carattere della pandemia, nel senso che investe tutto e tutti, e senza differenze.
Volendo cercare una chiave di lettura tanto etica quanto politica che illustri la relazione che lega l’individuo alla comunità, si può affermare che per la concezione tradizionale dei Greci antichi una grave colpa individuale ha degli effetti pandemici, e ciò vuol dire innanzitutto ambientali, in quanto crea un vero e proprio cortocircuito nel naturale corso delle cose, bloccando l’ordine naturale di successione delle generazioni, vegetali, animali e umane. In tal senso, gli effetti devastanti della contaminazione durano finché non si ristabilisce l’ordine, e a tal fine è necessario individuare la causa del male; il colpevole, o presunto tale, è bandito dalla comunità, è il “capro espiatorio” (i Greci lo chiamavano pharmakòs), sul cui capo si riversa l’intera responsabilità della pestilenza, e la cui violenta esclusione rituale dalla società è considerata il prezzo da pagare perché l’intera comunità possa ritenersi sanata dalla colpa originaria.
Se sul piano dell’etiologia del male di tipo pestilenziale, gli antichi Greci credevano tradizionalmente al miasma, mentre noi oggi ricerchiamo la causa in virus o batteri, sul piano etico-politico si possono osservare diversi punti di contatto tra due concezioni pur così lontane storicamente: innanzitutto, è il tema della sostanziale corresponsabilità cui tutti siamo giornalmente chiamati, nel momento in cui si afferma che solo con la partecipazione di tutti il virus sarà sconfitto. La corresponsabilità, che investe i concittadini di Edipo in termini di contaminazione, è il mantra etico-politico che segna quotidianamente sul piano concreto le nostre azioni. Su questo piano, ci sentiamo tutti corresponsabili, quando si tratta di indossare una mascherina e di proteggere gli altri, oltre che se stessi, dal contagio.
Purificazione e palingenesi
Come ci liberiamo dal male? Qui va ancora fatta un’importante differenza con l’antica idea di contagio, che non impedisce a Edipo, Tiresia, Creonte e a tutti gli altri Tebani di continuare a frequentarsi: una volta che la pestilenza si è diffusa, nel mondo antico non esistono di solito misure di distanziamento sociale, e anche in età moderna solo in rari casi si arrivò a misure di vero e proprio contenimento sociale (questo è il caso delle rigorose azioni repressive messe in atto nella Palermo dell’anno 1575, infestata dalla peste, dal protomedico Giovanni Filippo Ingrassia) capaci di evitare che enormi folle si radunassero durante le consuete processioni religiose per imprecare salute e salvezza dall’Onnipotente.
Per il resto, la contaminazione si può dilavare, per i Greci, solo con azioni di purificazione (in greco katharmòs), in cui un ruolo fondamentale spetta all’uso di pure acque lustrali. Bandito il colpevole, si compiono rituali comuni di purificazione. Da questo punto di vista, il tempo sembra non essere del tutto trascorso, se anche oggi ci aspettiamo che la sconfitta del virus sarà coronata da un processo di generale purificazione. Non intendo naturalmente una purificazione in senso materiale, bensì un bisogno diffuso di purificazione, di rigenerazione, morale, sociale, politica e culturale, che avvertiamo nel tempo della pestilenza pandemica. Possiamo guardare al futuro con fiducia forse solo perché speriamo in una futura palingenesi sociale, che inevitabilmente seguirà la sconfitta del virus.
Può essere utile considerare in tal senso le parole che Papa Francesco ha recentemente usato nel messaggio di benedizione Urbi et Orbi dello scorso 27 marzo;[1] nella loro apparente semplicità, le parole del Pontefice nascondono un messaggio complesso e attuale, che vorrei qui interpretare, cogliendone alcuni aspetti meramente semantici. Ad un certo punto del messaggio, di fronte al male che affligge l’intera umanità, al cospetto della “tempesta” ecumenica, il Pontefice introduce il tema della conversione e del giudizio. “Convertitevi”, abbiate fiducia, riscoprite i valori che sono stati messi a lungo da parte.[2] L’intera società si deve riconvertire, socialmente, eticamente, rinunciando in vista del bene futuro alle abitudini inveterate di ognuno di noi, e questa palingenesi, che passa nel mondo antico attraverso la purificazione, oggi si può realizzare con la conversione, il che significa innanzitutto, nelle parole della benedizione papale, fiducia, ossia sapersi affidare.
Questo chiama in causa naturalmente anche le scelte politiche degli esseri umani, credenti e non credenti, perché chiama in causa l’importante, anzi indispensabile capacità di ciascuno di noi di esercitare il giudizio. Con una mossa al contempo semplice ed efficace, il Papa continua a rivolgersi ancora a Dio, con cui intrattiene un dialogo costante, in prima persona. Come se fosse scontato, e invece non lo è affatto, ricorda che «Non è il tempo del tuo giudizio, ma del nostro giudizio», ossia non è ancora venuto il tempo del Giudizio da parte di Dio; è invece il tempo in cui noi dobbiamo tutti singolarmente e come società riscoprire il giudizio, sapere valutare, e l’uso di questo termine, centrale nel messaggio papale, è certamente consonante con il termine greco krisis: significa sapere scegliere, discernere il bene dal male, sapere letteralmente ‘vagliare’ «cosa conta e cosa passa», per riprendere l’espressione in uso nel testo della benedizione.[3] Quindi, nella prospettiva del Pontefice, che è capace di farsi carico di urgenze e aspettative cosmiche, il tempo del giudizio permetterebbe di recuperare una dimensione esistenziale ed etica che è stata fino a questo momento trascurata, ma che vale come guida per il futuro, e allo stesso tempo di giudicare le scelte compiute sinora, segnate – per riprendere ancora il testo del messaggio papale – da egoismo, tracotanza umana, eccessiva fiducia nel progresso, sfruttamento delle risorse naturali del pianeta, disuguaglianze sociali ed economiche.[4]
Edipo paziente zero
Il mito di Edipo, come ebbe modo di sottolineare Maurizio Bettini in un bell’articolo apparso alcuni anni fa sulle pagine del quotidiano “la Repubblica”, non si fa leggere solo come un ‘giallo’ ante litteram, in cui il detective che conduce le indagini e cerca di braccare in ogni modo il colpevole, alla fine scopre di essere lui stesso il colpevole.[5] È anche il dramma dell’ineluttabilità del destino, della sorte che ci portiamo dietro e dentro di noi, ciascun individuo, sin dalla nascita, e ancora prima. Filosoficamente parlando, è la negazione del principio socratico, cui credono fermamente Platone e i platonici, per cui il sapere è il migliore antidoto contro la realizzazione del male.
Edipo, a differenza di Socrate, non sa (di sapere) di essere lui il reo del peggiore dei misfatti, avere ucciso il padre e sposato la madre. Eppure tutta la sua vita era stata segnata dal tentativo di sfuggire al proprio destino, appreso attraverso l’oracolo più importante di tutta la Grecia antica, quello delfico di Apollo. Ora che è re di Tebe e la pestilenza attanaglia la città, Edipo mette in atto una vera e propria indagine, una ricerca del colpevole, basata sul recupero di ogni possibile traccia (ichnos) lasciata dall’uccisore di Laio, che prima di lui regnava su Tebe.
Se durante il corso del dramma, Edipo si può configurare come il nostro “paziente zero”, nel senso che è il primo asintomatico motore del contagio, pur essendo già stato indicato dal vate Tiresia come la causa del miasma, e pur avendo, man mano che procede la vicenda, la più o meno chiara nozione che alla fine la somma degli indizi rivelatori lo additerà come colpevole (per non parlare della consapevolezza di noi lettori e degli spettatori del teatro di allora), alla fine del dramma la condizione che sinora era stata asintomatica, diventa manifesta, e Edipo esce di scena come “paziente uno”, nel senso che le testimonianze di chi era presente allora al momento del delitto, confermano senza ombra di dubbio che lui è l’uccisore del vecchio Laio.
In tal senso, la figura drammatica di Edipo, come è rappresentata da Sofocle, mi sembra incarnare anche la condizione umana attuale in generale, nel momento in cui ognuno di noi, al tempo del coronavirus e nella società globalizzata, pensa o teme di essere paziente zero, di essere portatore del male. In questo senso siamo tutti potenzialmente come Edipo, e lo siamo in primo luogo dal punto di vista dell’eredità che ci portiamo appresso tutti i giorni: la pandemia è in qualche modo inscritta nel nostro DNA, nel senso che il proliferare del virus e la sua diffusione sono l’effetto della società e del tipo di civiltà che abbiamo ereditato e che singolarmente continuiamo a far proliferare con il nostro modo di vivere, che ha sovvertito l’ordine naturale, al punto che da qualche tempo noi uomini ci sentiamo estranei alla natura, e pensiamo che la natura sia un insieme infinito di risorse da sfruttare. Ma fuor di metafora e più prosaicamente, la pandemia è anche inscritta nel nostro RNA, si insinua nelle nostre cellule e si combina con il nostro sistema immunitario sconvolgendolo.
La ricerca di Edipo uomo forte
C’è un altro aspetto che Edipo mette in gioco sin dagli inizi del dramma sofocleo, e che mi sembra di qualche utilità per la comprensione della dimensione attuale: è il suo potere politico. A Edipo come al sovrano si rimettono tutti i cittadini, aspettandosi di essere salvati da lui, che un tempo fu capace di liberare la città di Tebe dal flagello della mostruosa Sfinge. Di fronte all’emergere e al diffondersi del male, la figura dell’uomo politico che governa, assume oggi, spesso suo malgrado, un ruolo quasi salvifico.
Da questo punto di vista, Edipo non è più sapiente dei governanti di oggi, chiamati a fare sin da subito i conti con il parere di medici e scienziati nella battaglia contro il virus. La condizione di Edipo in tal senso è titanica, egli impegna ogni risorsa e persegue ogni pista investigativa che possa condurlo sulla via della verità, è l’immagine stessa della ricerca, che pretende di essere libera da pregiudizi, al punto da essere autolesionista, nel momento in cui Edipo decide, anche contro il parere della moglie/madre Giocasta, di interrogare l’unico testimone sopravvissuto all’eccidio in cui morì Laio. La vicenda di Edipo mette in scena così il necessario confronto e la dialettica tra potere politico e sapere scientifico nel momento della crisi pandemica.
Edipo è coraggiosamente solo dinanzi alla pestilenza, e i nostri governanti sono anch’essi destinati ad assumere su di sé in completa solitudine il peso delle decisioni più gravi. Sul piano delle somiglianze con il mito antico, Edipo sembra rappresentare dunque l’uomo forte, colui di cui si sente ancora una volta un diffuso bisogno, come in altri momenti drammatici della storia più recente dell’umanità. Se non fosse che gli Edipo di turno sono spesso lì abbastanza per caso, non sanno cosa fare, devono tenere conto delle opinioni inveterate e dei tradizionali pregiudizi, mostrarsi fiduciosi rispetto al futuro e retoricamente abili nel presentare le misure adottate, e soprattutto guardarsi le spalle dai nemici politici. E poi è già scritto nel loro destino: a pandemia finita, saranno loro stessi le prime vittime delle aspirazioni di altrettanti Creonte. La purificazione passa anche da questo.
[1] Consultabile a http://www.vatican.va/content/francesco/it/messages/urbi/documents/papa-francesco_20200327_urbi-et-orbi-epidemia.html (ultimo accesso 4 maggio 2020).
[2] Cfr. il capoverso nr. 7 della benedizione papale: «Signore, ci rivolgi un appello, un appello alla fede. Che non è tanto credere che Tu esista, ma venire a Te e fidarsi di Te. In questa Quaresima risuona il tuo appello urgente: “Convertitevi”.»
[3] Cfr. il capoverso nr. 7 della benedizione.
[4] Si veda in particolare il capoverso nr. 6 della benedizione: «Signore, la Tua parola stasera ci colpisce e ci riguarda, tutti. In questo nostro mondo, che Tu ami più di noi, siamo andati avanti a tutta velocità, sentendoci forti e capaci di tutto. Avidi di guadagno, ci siamo lasciati assorbire dalle cose e frastornare dalla fretta. Non ci siamo fermati davanti ai tuoi richiami, non ci siamo ridestati di fronte a guerre e ingiustizie planetarie, non abbiamo ascoltato il grido dei poveri, e del nostro pianeta gravemente malato. (…)». Il corsivo è mio.
[5] L’articolo “Edipo” di M. Bettini, del 10 ottobre 2016, è consultabile alla pagina https://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2016/10/08/edipo52.html. Sul tema si veda anche M. Gusso, Edipo in Giallo. Una rilettura di Sofocle pensando ad Agatha Christie, in «Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche» 5, 1999, pp. 117-141.
Franco Giorgianni, studioso tra l’altro di storia della medicina greca, insegna Letteratura greca all’Università di Palermo https://www.unipa.it/dipartimenti/cultureesocieta/.content/documenti/CV-Giorgianni.pdf
Le immagini sono tratte dagli spettacoli Ödipus Stadt e Die Pest , dalle scorse stagioni del Deutsches Theater di Berlino: https://www.deutschestheater.de/mediathek/fotos/