Mi sembra che la tendenza generale dell’Università odierna sia verso una progressiva tecno-burocratizzazione e spettacolarizzazione, e che il Covid-19 abbia ‘solo’ aggiunto, adesso, anche il rischio che si possa ritenere la didattica online non uno strumento di fortuna cui ricorrere in casi di emergenza e in mancanza di alternative ma un nuovo e comodo orizzonte (videolezioni in diretta o addirittura registrate) da sostituire a quello delle lezioni in presenza.
Tecno-burocratizzazione, spettacolarizzazione, digitalizzazione: tutto viene presentato sempre all’insegna dell’efficienza. O si tratta di un eccesso, e cioè di efficientismo?
Vorrei presentare qui, un po’ disorganicamente, alcune considerazioni in merito (non so se qualcuna di esse possa valere anche per la Scuola).
- La didattica a distanza è una parvenza di didattica, una didattica priva dell’ingrediente fondamentale di ogni insegnamento: la relazione, il contatto umano che passa per gli sguardi che docenti e studenti si scambiano, e per le posture, i gesti, lo stare fisicamente insieme, il fare gruppo, che permettono il passaggio dalla mera “trasmissione” lineare e unidirezionale del sapere alla “comunicazione”, che è sempre un fatto dialogico e sistemico (come aveva ben visto già Socrate...). Va bene dunque che vi si faccia ricorso in momenti particolari come quelli di una pandemia, ma non che possa essere estesa al periodo di normalità. Piuttosto, il canale digitale può essere sempre utilizzato proficuamente per spostare in esso i materiali didattici (scritti, video, links etc.) considerabili come meramente trasmissivi ('frontali') e che andranno consultati prima della lezione in presenza in modo che quest’ultima possa diventare luogo del dialogo della classe su di essi o del chiarimento dei punti rimasti oscuri (l'idea è tratta dall’utilissimo libro di Paolo Monella, Metodi digitali di apprendimento attivo in ambito classico e umanistico, cap. 5, in corso di stampa).
- Il principio, mercantil-spettacolare, dell’attrattività, cioè della lusinga che più correttamente andrebbe chiamata “spot pubblicitario”, non è valore. Perciò non è un valore neanche un’“offerta formativa” - espressione già chiarificatrice di un orizzonte mercantile (come d’altronde anche “credito formativo” etc.) - appiattita sulla nozione di studente “cliente-e-consumatore” e sulla logica della competizione tra ambiti disciplinari. L’obiettivo non può essere quello di trasmettere a chi si iscrive all’Università una serie di saperi (presunti) tecnici adeguati al mercato del lavoro nel sistema economico dato; altrimenti, un corso di laurea in “Imprenditoria della seduzione e della prostituzione” andrebbe benissimo. L’obiettivo dovrebbe essere quello di contribuire ad una formazione tecnica-e-consapevole dei presupposti sociali in essa impliciti. In ciò, una parte di ogni insegnamento dedicata alla storia della disciplina – purché non sia una storia teleologica, sfociante nell’acritica apologia dello stato delle conoscenze attuali ma una storia che anzi, attraverso un taglio comparativo, metta in luce i rapporti via via esistenti nel tempo lungo tra assetti disciplinari e premesse culturali implicite – può rivelarsi di grande importanza. È da tempo che sappiamo che non basta gridare “Progresso!”: il progresso può essere considerato nel suo aspetto di raggiungimento di una sempre maggiore rapidità e quantità produttiva, materiale e/o immateriale (come per lo più capita), oppure nel suo aspetto di attenzione alla qualità della vita. La formazione universitaria deve offrire un percorso di studi che non scinda la dimensione tecnica del sapere da quella valoriale sul piano sociale (e non del mercato, che è già una precisa scelta politica). La cultura non è né nozionismo tecnico ed esasperata frammentazione del sapere né chiacchiera ideologica e arruffona ma consapevole “politica culturale” in vista del ben-vivere (éu zen, diceva Aristotele).
- Rientra nell’ottica mercantil-spettacolare sopra considerata anche il fatto che l’Università sembra diventare ogni giorno di più, invece che luogo della ricerca per lo sviluppo qualitativo della società, un luogo dell’amministrazione economica, con il conseguente imporsi di una tendenziale fusione (e confusione) tra figura docente e figura amministrativa. Oggi ogni docente è sollecitato (o obbligato?) a diventare un manager capace di procurarsi finanziamenti e visibilità partecipando a progetti alla moda e redditizi, finendo per diventare un mero “cercatore” di denaro piuttosto che un consapevole “ricercatore" scientifico.
- L’internazionalizzazione dell’Università è un valore, o forse meglio, con F. Jullien (L’identità culturale non esiste, tr. it. Torino 2018)“una risorsa”. Ma essa non coincide con l’“offerta didattica” in lingua inglese (come pretendono sempre più i bandi di progetto europei, perfino quando si tratta di progetti che prevedono partenariati tra Paesi europei e Paesi africani!). Il ricorso all’inglese come lingua franca favorisce un conformismo linguistico che registra e circolarmente rinforza il dominio del modello economico della anglosfera indirizzando sempre più alla realizzazione di quell’“uomo a una dimensione” criticato da Herbert Marcuse già nel 1964. L’internazionalizzazione va praticata come forma di scambio culturale in cui chi viene a studiare in Italia dall’estero (così come chi, dall’Italia, va a studiare altrove) sia accolto e messo in grado, attraverso corsi preliminari di lingua concordati tra il Paese d’origine e quello d’arrivo e attivi sia nel primo sia nel secondo, di fruire della didattica istituzionale in lingua nazionale locale. La didattica universitaria non può avere come presupposto la cancellazione programmata delle differenze linguistiche ma una conoscenza linguistica varia (e lo stesso vale, mi permetterei di dire, per la didattica scolastica, dove, invece di prevedere ulteriori ore di studio di più lingue straniere – con la creazione di altro lavoro –, prendono sempre più piede i cosiddetti "corsi Cambridge”).
- Considero la terza missione, cioè la relazione dell’Università con il territorio, un valore. “Relazione con il territorio” non significa meccanico scodellamento di un sapere accademico fuori dell’accademia (che risulterebbe semplicemente insensato, ovvero “privo di senso”), né stipula di accordi con qualsiasi Ente al solo scopo di ottenere una buona valutazione da parte dell'Anvur. Essa ha il compito, piuttosto, di far emergere i bisogni ecologici, economici, sociali e culturali della comunità in cui si trova inserita e di contribuire, in dialogo con essa (ovvero chiamandola espressamente in causa come attiva protagonista per la definizione e soluzione partecipata di quei bisogni), alla loro soddisfazione. Si tratta qui di rendere ancora più immediatamente evidente che l’Università è utile, secondo una nozione di utilità che non rinvia all’utile economico ma all’utile civico, dunque al fatto di “servire”, di "essere al servizio". In quest'ottica, la costruzione di una rete tra università, scuole e associazioni attive nel territorio potrebbe rivelarsi di fondamentale importanza e, tra le altre cose, prefiggersi anche la costituzione di una vera e propria università popolare, che veda gli abitanti dei quartieri non come clienti (secondo una logica di mercato ormai purtroppo diffusa) né come anime da salvare “trasferendo” loro, assistenzialisticamente, la conoscenza (secondo un’ottica boriosa di chi crede di stare ‘in alto’) ma come persone da ascoltare e con cui portare avanti, a qualsiasi livello, pratiche di co-progettazione.
- Qualche parola vorrei dire anche sulla valutazione della ricerca e della didattica. Ben vengano, e anzi sono da sollecitare, tutti i momenti di reale dialogo, su entrambi i versanti, tra docenti e studentesse/studenti, tra docenti, tra studentesse/studenti: prima, durante e dopo i corsi di insegnamento. Ma non è per nulla salutare (anche nel senso stretto del termine) l’attuale subordinazione ad agenzie e presìdi vari, con VQR, divisione delle riviste in fascia A o NON A, logica del publish or perish, svalutazione del valore delle pubblicazioni monografiche nell’ambito dei settori cosiddetti umanistici etc. Tutto ciò non solo non ha a che fare con la logica e con i tempi della ricerca ma anche uccide la ricerca, che ha bisogno di pensare l’impostazione dei problemi (problem making) e non solo di risolverli (problem solving).
- L’efficientismo è una continua apologia dell’aumento prestazionale, una richiesta opprimente di fare sempre di più e sempre più velocemente, insomma di essere in competizione: con gli altri e con se stessi. Il paradigma della velocità a tutti i costi, nonostante sia diffuso in tutti gli ambiti, non mi sembra essere molto saggio: nella politica dei trasporti può indurre a distruggere ambienti naturali fondamentali per l’equilibrio della Terra, nell’economia a far fuori le risorse del pianeta senza pensare alle generazioni future (oltre che ai danni alla salute fisica di quelle presenti), nella medicina a fornire farmaci che consentono di liberarsi (più o meno) subito del mal di testa anche se poi contribuiscono ad abbassare le difese immunitarie etc. In molti ambiti sembra che si sia passati da una crescita esponenziale ad una crescita iperbolica, e questa sembra anche la strada che percorre pericolosamente l’istituzione universitaria. Già nel 1874, in Sull’utilità e il danno della storia per la vita, Friedrich Nietzsche l’aveva lucidamente intuito e ne aveva intuito anche tutto il rischio. Le sue parole, a proposito di ciò che, a «promuovere la scienza con la maggiore rapidità possibile», prima o poi succederà, sono più chiare e incisive di quanto potrebbero essere le mie e perciò mi limito a citarle: «se vorrete promuovere la scienza con la maggior rapidità possibile, la distruggerete anche con la maggior rapidità possibile, come vi perisce la gallina che artificialmente costringete a deporre le uova troppo rapidamente. Bene, negli ultimi decenni la scienza ha progredito con sorprendente rapidità: ma guardate ora anche gli scienziati, le galline esaurite. Non sono davvero nature “armoniche”; essi possono soltanto schiamazzare più che mai, perché depongono uova più spesso…».
Sembra non serva a nulla ragionare, come fa qualche studioso nell’ambito delle scienze ‘morbide’, che è fondamentale che la scienza sia consapevole della direzione che prende, del quadro all’interno del quale si inserisce, del senso sociale che essa intende avere (non dello spin off economico che comporta). Sembra non serva a nulla neanche scrivere libri, come fa qualche studioso di scienze della vita, sulla necessità che all’apertura termodinamica deve seguire una chiusura organizzazionale e che questo deve essere un processo, cioè deve rispettare una temporalità, come ogni digestione.
Eppure, c’è da chiedersi, non è tempo di fermare la caduta nell’abisso della “maggiore rapidità”, di “rallentare le scienze” (come suggerisce Isabelle Stengers, Une autre science est possible! Manifeste pour un ralentissement des sciences suivi de Le poulpe du doctorat, Paris 2013)?
Non è tempo di coltivare la premura nel senso qualitativo di “sollecitudine” espresso dal greco “spoudé”, senza confonderla con l’altra premura, quella che il greco chiama “tachytés” e noi “velocità” e consiste nel cercare di massimizzare l’annullamento della dimensione temporale, dimentichi del fatto che, per gli esseri umani, senza tempo non c’è vita?
In conseguenza dell’emergenza sanitaria, ‘Visioni del tragico’ è diventata anche una piattaforma di discussione su problemi connessi alle crisi dovute alla pandemia, secondo precise linee di riflessione. Da allora, una parte degli interventi di questi mesi si è fermata sulla complessità richiesta all’Università in tempo di crisi e sulle questioni sollevate dall’uso obbligato della didattica a distanza. Dopo l'intervento di Guido Avezzù, pubblichiamo queste note di Andrea Cozzo, a cui l'autore dà un sottotitolo aristotelico:
SULLA CREMATISTICA NON NECESSARIA – QUALE SIA, E PER QUALE MOTIVO CE NE SERVIAMO [NELLA RICERCA UNIVERSITARIA] – E SU QUELLA NECESSARIA, CHE È DIFFERENTE DALLA PRIMA E CONSISTE NELLA GESTIONE DELLA CASA IN MODO CONFORME A NATURA, BADANDO AI MEZZI DI SOSTENTAMENTO, E NON È, COME L’ALTRA, SENZA LIMITI MA HA DEI CONFINI” (ARISTOTELE, POLITICA 1258a, RICONTESTUALIZZATO).