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La notte de I messaggeri si insinua oscura tra i resti sacri e profani del teatro romano di Spoleto e della Chiesa di Sant’Agata, nata dalle rovine della scena. Al calar del sole, ogni giorno, ad un’ora stabilita, anche nelle nostre case, divenute teatro di paure e dolore nei mesi del lockdown, sono entrati messaggeri.

Una testa sradicata dal corpo, i capelli scomposti, gli occhi spalancati su un’allucinazione, la bocca aperta in una smorfia pietrificata che, pur senza dire parole, parla. La testa è conficcata nel centro dell’orchestra ed è stretta nell’abbraccio di un drappo di stoffa nera, disposta tutt’intorno quasi a voler ridisegnare la circolarità della convenzionale forma dell’orchestra greca. Occupa il nucleo dello spazio originariamente destinato al coro, alle sue danze e musiche, quel nucleo segnato in alcuni teatri dall’altare di Dioniso (thymele), attorno al quale prendevano vita le tragedie di V secolo. Appare a un inedito pubblico, il cui metaforico corpo è anch’esso diviso tra chi è seduto nella cavea rispettando il ‘distanziamento’ e chi segue lo spettacolo ‘da remoto’, in streaming.

La testa divisa dal corpo ha una precisa identità. È di un re e di un figlio: Penteo, sovrano della più volte tragica città di Tebe, e figlio di Agave, sorella di Semele, la madre di Dioniso. Il prologo de I messaggeri è affidato dunque a Baccanti. Con questo dramma, il centro di gravità dionisiaco, rappresentato nello spazio teatrale dall’orchestra, si infrange inesorabilmente contro la potenza di un dio al quale è impossibile sottrarsi e che è impossibile legare, la cui scelta da parte dell’uomo implica una crisi e un cambiamento radicale. A questo verbo dionisiaco, all’energia trascinante, inebriante, metamorfica, estrema del dio, Penteo oppone (vana) resistenza. Il re di Tebe rinchiude il pericoloso straniero dai profumati riccioli biondi, cattura il mistificatore, reo di dichiarare che Dioniso è dio.

Il bel corpo del prigioniero si scioglie dalle corde; il dio-uomo scardina «ferri e catene» – così cantano i Fratelli Mancuso –, provoca fiamme e un prodigioso terremoto; usando la stessa violenza dirompente del sisma, ma nascondendola con il velo della ipnotica seduzione che gli è propria, scardina Penteo dai suoi convincimenti, lo spinge a salire sul monte Citerone per vedere i suoi riti, ignaro che quella sarà la sua visione terminale. Attraverso la forza del semplice apparire e del silenzio misterioso della morte, la testa nel cuore dell’orchestra racconta la fine di questa guerra e della fatale e inconfessata attrazione di Penteo nei confronti del dio.

Con Baccanti, l’ultima tragedia di Euripide rappresentata ad Atene, la prima e la sola con Dioniso mattatore sulla scena, la tragedia classica muore: quest’ultimo atto della luminosa parabola del teatro tragico di V secolo è anche il primo del suo millenario rinascere ed essere ancora. Emma Dante mostra di averne sensibile consapevolezza e sembra ineluttabile la decisione di affidare a Baccanti i primi passi della narrazione del suo viaggio tragico in questo nostro tempo che, da mesi, è ritmato dal respiro di vite spezzate, divise, sospese.

In questo ritorno alle radici del tragico, che ora è quanto mai tempo di interrogare, Eschilo è il grande assente; narrano invece Sofocle, con Edipo, la tragedia del miasma della città e dell’uomo, del pestifero contagio che si annida dentro la città e dentro l’uomo e che trascina oltre l’esodo del coro i drammatici effetti dell’epidemia, e più ancora Euripide. Baccanti, Medea, Eracle sono la trilogia cucita per frammenti dalla drammaturga e regista palermitana; una donna barbara tra un dio e un eroe/semidio, tra il dio antonomastico del teatro – ma non il solo – e l’eroe per eccellenza, come si raccontava anche fuori Atene e dopo il V secolo.

L’inizio de I messaggeri è consacrato a Dioniso e al travolgente (che qui intendo vox media) gioco del teatro, gioco irrinunciabile e uso la parola ‘gioco’ non nella accezione mediocre implicita in sconcertanti affermazioni («i nostri artisti che ci fanno tanto divertire», Giuseppe Conte, Decreto rilancio del 14 maggio 2020) ma nel senso con cui la usava, con grazia e commuovente pudore, Marcello Mastroianni. All’eroe umano, forse troppo umano, Eracle, è invece affidato l’epilogo di questo spettacolo-concerto. Il punto di contatto fra inizio e fine è il tema della mancata agnizione e delle sue tragiche conseguenze. Penteo non riconosce il dio-uomo e, per implacabile legge del contrappasso, non viene riconosciuto dalla madre; fatta preda di una visione ingannevole creata dal dio illusionista, Agave confonde la testa del figlio con quella di un leone di montagna, splendida caccia per uno sparagmos regale, degno di una donna che è non solo madre ma anche figlia di re (Cadmo).

Anche Eracle non riconosce i suoi figli. È preda di una visione accecata dalla follia, voluta da Era e ottenuta con la complicità della sua messaggera Iris e di Lyssa, la Follia, appunto. Vedendo ingannevolmente davanti a sé non i suoi ma i figli odiosi dell’odioso Euristeo, Eracle stermina i piccoli e, con loro, sua moglie Megara. Il messaggero racconta l’orrore, come il messaggero in Baccanti, che narra delle mani di Agave bramose di sangue e carne. Le conseguenze di questa incapacità e impossibilità di vedere (l’uomo non può riconoscere e conoscere se il dio non vuole) sono percepite dagli spettatori de I messaggeri nella più acuta tragicità attraverso i racconti e i corpi in scena, e la musica.

Le buie conseguenze della visione e dell’ascolto vanno oltre questi miti: toccano il nostro presente, lo indagano, lo mettono a nudo. In questi mesi di pandemia, sembrerebbe che un dio, chiunque egli sia, avrebbe detto Eschilo, abbia ridotto e disorientato la capacità dell’uomo di vedere, di discernere con sguardo acuto, di intuire con penetrante sensibilità quale umanità ricostruire e ripensare.

I quotidiani bollettini dei ‘messaggeri’ tecnico-scientifici, di governo e della Protezione Civile hanno raccontato di implacabili dolori, incomprensibili morti, di misure di contenimento della diffusione della pandemia. La speranza è non vedere e non ascoltare ancora messaggeri o, almeno, di vedere e ascoltare anche portatori di messaggi che siano parole dell’anima e per l’anima, della mente e per la mente. La nostra umanità già contagiata da seducenti manie di accecanti dismisure, di potere senza argini, dalla smania di riempire vuoti di ogni genere in modo compulsivo, non liberata da questo policefalo miasma, è stata aggredita nel corpo e nel respiro – nell’alito della vita – da un ignoto virus: nessun occhio sa ancora vederlo fino in fondo e disarticolarlo, nessuna visione sa ancora misurare il suo potere in prospettiva e a tutto campo, non solo in quello sanitario.

Torniamo sulla scena, pregevole (Carmine Maringola), de I messaggeri. Tre semplici teli bianchi delimitano il fondo, dietro al quale si erge la maestosa sacralità della Chiesa. Sono una doppia evocazione, antica e contemporanea: delle tre porte della skene, con la centrale di maggiore ampiezza; di paraventi da ospedali, per l’aspetto. Così configurate, le porte si fanno carico di un sovrasenso che sospinge verso il nostro presente malato. Partecipano al racconto fin dall’inizio, quando i Fratelli Mancuso, dall’orchestra, intonano un cantu arcano e ipnotico che stilisticamente rimanda a certi canti-lamentazioni siciliani del Venerdì Santo. Schierati dinanzi alle porte come guardiani, i cinque attori-autori dello spettacolo-concerto, seduti su sedie a rotelle, con teste e corpi nascosti da bianchi costumi da degenza ospedaliera, condividono l’immobilità della testa di Penteo.

La fine del cantu è l’avvio dell’azione: le sedie lasciano la ferma linea retta lungo la scena per muoversi roteando ripetutamente attorno al circolare drappo nero e alla testa che ne è racchiusa. È lo straniante preambolo alle danze dionisiache che di lì a poco si sprigioneranno tra orchestra, skene e sul limite dell’abisso misterioso di un dio: come edera attorno al tirso, si intrecceranno e culmineranno in un vortice inarrestabile. Ma per danzare è necessario disarticolare i corpi: quelli infermi sulle sedie a rotelle dischiudono a poco a poco movimenti che sono esplosioni di gioia e si vestono di nuovi costumi da giocolieri, clowns e giullari. «Smettetela di fare i giullari. Il vostro è un teatro convalescente. Non siete sani. Ricomponetevi». Le parole perentorie che si alzano dal limite della scena, approdo dei due Fratelli-‘aedi’, fermano bruscamente il gioco. Lo spazio pian piano si svuota: una processione mesta di sedie, spinte dagli istrioni, si inoltra fin dietro le porte-paravento, ne è risucchiata e ne esce trasformata. Dietro ai tre teli bianchi, illuminati dal calore di una luce dorata, ombre danzano sensuali: sono i seguaci del dio.

Da lui posseduti (enthousiasmoi), liberati e liberi di rivelare i propri corpi, invadono l’orchestra. Menadi in guêpière e sottoveste nere, slip rossi che enfatizzano la danza sfrenata di forti e compatti corpi maschili: un ossimoro con la testa di Penteo separata dal corpo che è immota, al centro di questa danza tanto vitale quanto macabra; un preludio ai brandelli di corpo, figli dello sparagmos di Penteo.

Dal luttuoso drappo adagiato attorno al volto del re, il messaggero (il secondo della tragedia, interpretato da Naike Anna Silipo) srotola il racconto, a tratti con voce spezzata, come i pezzi del corpo di cui narra e che il pubblico vedrà di lì a poco. Gioca tragicamente con quel velo di morte. Ne avvolge un lembo attorno al proprio capo e, ponendosi davanti alla testa martoriata di Penteo, ne raddoppia l’orrore, appropriandosene.

Prende fra le mani la testa, tanto simile a una paurosa maschera funeraria, invoca la «saggezza» e il «venerare le cose divine» mentre un’altra testa, quella inquietante di Agave (Sabrina Vicari), con occhi stravolti, viene generata dal centro dell’orchestra e presto risucchiata dal nero cupo del drappo, che si gonfia in procinto di partorire altro orrore. Il buio sembra spingersi oltre il teatro-chiesa di Spoleto, fino all’antico bosco sacro di Monteluco, dedicato a Giove, che l’illusionista Dioniso potrebbe aver trasformato, in una notte di agosto di questo tragico 2020, nel bosco del suo monte Citerone, dove tutto si è compiuto. È qui che Agave compie lo sparagmos.

La morte può essere narrata sulla scena del teatro greco ma non mostrata. Ne I messaggeri, questa convenzione è rispettata e trasgredita ad un tempo. Attraverso un prodigioso frammento di teatro del corpo, Sabrina Vicari crea un equilibrio perfetto fra nascondere e mostrare, complice la duttilità del drappo nero che, come una arcaica tenda teatrale (skene) nasconde, e poi rivela: piedi, gambe, mani, pezzi stravolti del corpo di un uomo dalla mente cieca, staccati da una madre accecata dal dio, disseminati su un’orchestra inondata di sangue (luci rosse), che ha smarrito il suo centro.   

Da madre a madre. Medea, la madre che «sgrava la sua tragedia». È lei (Elena Borgogni), in una scena nuda che trattiene l’eredità del tragico – gamba e mani insanguinate di Penteo –, a parlare prima del messaggero e dopo un dolente cantu, durante il quale cerca di liberare, con gesti meccanici e nevrotici, il volto dalla prigione dei suoi veli bianchi da sposa. Nello svelare il viso, Medea rivela a Zeus il proposito di uccidere il figlio. Le sue parole cruente e inudibili radicano la loro tragicità nell’ultimo e dolce canto popolare con cui questa madre straniera, che mai si è sentita accolta dalla terra di Corinto, culla il figlio fra le braccia: Duérmete niño, duerme (Manuel de Falla).

Infanticidio, assassinio del fedifrago Giasone, della sua nuova sposa e di suo padre, il re di Corinto, e infine la fuga: tre atti necessari per dare ineluttabile vita alla sua tragedia di moglie, madre, straniera. Se non è dato di assistere alla morte, che almeno sia possibile venirne a conoscenza dal racconto di chi l’ha vista. Medea ne ha bisogno, come ne abbiamo avuto bisogno noi, soprattutto nei mesi più bui della pandemia quando non potevamo credere alle morti, al loro numero che sembrava inarrestabile.

Ecco, a renderci certi di tanta disperazione, gli elenchi di cifre, nei bollettini quotidiani, i racconti nei telegiornali, sui giornali, i volti disperati dei parenti e degli amici dei morti nelle immagini, i camion militari che portavano via i corpi per il seppellimento, in una processione continua, che sembravano non finire mai. Medea ascolta il racconto del messaggero (Sandro Maria Campagna) che è insieme parola e immagine di morte e questo grazie alla magia della parola ecfrastica di Euripide e alla maestria dell’attore-autore.

L’intonazione siciliana del racconto euripideo lascia lo spazio alla diversa inflessione dialettale del giovane exanghelos (Adriano Di Carlo) dell’Edipo di Sofocle, che ricorda da lontano quella di Ninetto Davoli, Anghelos nell’Edipo re di Pier Paolo Pasolini (1967). Il messaggero dello spettacolo-concerto sembra alludere a Davoli anche nella scelta di accompagnare con la musica della fisarmonica la storia tragica dell’impiccagione di Giocasta e dell’accecamento che il figlio-marito si infligge con le fibule d’oro della veste di lei che è «terra che ha portato un doppio seme: il suo e quello dei figli» (v. 1257).

Nel film di Pasolini, l’Anghelos, « il ragazzo-nunzio, con la sua umile faccia pietosa», va verso Edipo tenendo in mano «un flauto. Un flauto come quello di Tiresia. Il flauto di chi è cieco. Il flauto che fa tornare le cose nelle regole, che codifica lo scandalo. / Il ragazzo abituato agli umili servizi, non ha paura di avvicinare quell’uomo ridotto così male, con quelle piaghe ancora fresche e sanguinanti. Gli si avvicina, e gli allunga il flauto che Edipo non vede, ignora. / Allora il ragazzo gli prende una mano, e gliela mette sul flauto: la mano di Edipo cerca, riconosce. Stringe il flauto e, sorretto dal ragazzo, si incammina con lui. / I due se ne vanno – in quel silenzio eccessivo e sgradevole – mentre la folla li segue con gli sguardi, fatta estranea» (Pier Paolo Pasolini).

Nonostante l’indicibile dolore di Edipo e della sua famiglia, il lutto della città di Tebe, la consapevolezza di un futuro di inalienabile tenebra per Edipo, condannato a trascinare nei suoi occhi senza luce il peso di un tragico destino familiare e dei suoi morti, la musica e il volto pulito del messaggero dello spettacolo-concerto in certi, brevi attimi sono gocce di pharmakon che purifica e allontana dalla tragedia. Come quando nei giorni più angoscianti del Covid apparivano i volti di medici e infermieri che avevano salvato vite e lo spettrale deserto delle strade si riempiva di note, celestiali, note che nascevano da balconi e terrazzi che, pur diversi e distanti, condividevano lo stesso cielo e le stesse speranze.

Il buio, però, si riaccendeva di nuovo. E così in scena.

La follia si sprigiona nella mente con vortici tetri e ossessivi. I suoi passi cercano di raggiungere e occupare ogni angolo come racconta il roteare, per tutta l’orchestra, dei corpi degli attori simile a quello dei Dervisci ma differente da questo per movimenti e gesti tipici di vecchie streghe delle fiabe.

«Io non so dire se Eracle sia figlio di Zeus o di Anfitrione», esclama il messaggero dell’Eracle (Sandro Maria Campagna), ponendo un problema non secondario perché riguarda la definizione del ghenos e la sua appartenenza, ma superabile dalla indubbia e riconosciuta gloria delle dodici imprese dell’eroe. Al di là della questione della paternità, Zeus, «chiunque sia Zeus» (v. 1263), si macchia nell’Eracle di una colpa grave, l’indifferenza, che lo ha portato a non impedire che sua moglie Era ghermisse l’eroico Eracle con le ali della Follia e uccidesse così i figli e la sposa. Una musica disperata accompagna uno dei momenti più toccanti tra quelli della tragedia di Euripide scelti dalla Dante per I messaggeri: l’epifania di Zeus attraverso il cantu e la danza. Il dio-aquila (Sabrina Vicari) troneggia solo nello spazio scenico, lo avvolge e lo taglia con lunghe e maestose ali nere. Il costume (Italia Carroccio), qui, come in tutto lo spettacolo-concerto, è tessuto del racconto, che dialoga con la pelle del corpo degli attori, tutti straordinari.

L’ultimo volo del dio-aquila sulla scena è funesto preludio del nero annuncio dell’assassinio dei figli da parte di Eracle: nel corpo di Elena Borgogni si sentono il sibilo della freccia mortale che attraversa l’aria e si spegne sul tenero petto, il tonfo sordo del piccolo corpo, il rumore blasfemo delle tenere ossa del cranio, spezzate da una follia brutale. Poi, l’atroce quiete di «un sonno che non è beato», figlio di un «dolore che non si può dire con le parole». Il centro dell’orchestra si chiude ad anello: tutto inizia da lì e lì torna ma, in questo giro compiuto da I messaggeri molto è cambiato, non solo in scena ma anche tra le gradinate del teatro e in quelle virtuali, sotto i cieli di altre città.

L’attore (Borgogni) è nello stesso luogo dove era la testa senza vita di Penteo, però il suo viso non è rivolto verso il pubblico, cui dà le spalle, ma al fondo della scena: i suoi occhi vedono, così, i nomi della tetralogia tragica, Medea, Eracle, Edipo e, ultimo, Baccanti, scritti in quest’ordine su teli bianchi che, a ogni cambio tragedia, sono stati srotolati sulla porta centrale della skene. Attore e pubblico (anche quello dello spettacolo in streaming, grazie all’inquadratura) sono vicini nel condividere il punto di osservazione del finale e vedono attutito quel drammatico senso di separazione che ha scandito molti passi de I messaggeri. Ma è davvero così? Stiamo davvero vedendo la stessa cosa? Gli «attori di schiena» sono «sibille moderne. Non parlano: evocano. All’apparenza si danno a noi in evidenza. In realtà abitano i territori del mistero. Interrogare la potenza dell’invisibile: questo significa confrontarsi con queste erme. Che ci ignorano e, insieme, insinuano in noi domande senza risposte». 

 

 

 «Ma capitai per caso al Teatro Greco di Siracusa, avrò avuto vent’anni, vidi l’Antigone, ne rimasi folgorata, dissi a mia madre: è questo che voglio fare» (Emma Dante). Prima dello spettacolo-concerto I messaggeri Emma Dante ha lavorato con i tragici greci mettendo in scena Medea (2005; Premio Golden Graal alla regia), Verso Medea  (2012, Teatro Olimpico di Vicenza), Studio da Le Baccanti (2017), Eracle (INDA 2018; Ti comporti da donna!), Esodo (da Edipo re di Sofocle. 2019, Spoleto 62 Festival dei Due Mondi). La traduzione del verso 1256 dell’Edipo re è di Federico Condello, dal volume a sua cura, Sofocle. Edipo re, Lorenzo Barbera Editore S.r.l., Siena 2009, p. 113.Le parole di Pier Paolo Pasolini sono tratte dal volume a cura di Walter Siti e Franco Zabagli, PASOLINI, Per il cinema, Milano, Mondadori 2001, pp. 1047-1048.La citazione finale è dalla recensione al bel libro di Eleonora Marangoni, Viceversa. Il mondo visto di spalle (Johan & Levi, Monza 2020), scritta da Vincenzo Trione: In contromano nell’universo delle figure prese di spalle, Corriere della Sera. La lettura, domenica 2 agosto 2020, p. 33.Le immagini sono tratte da 
https://tuttoggi.info/festival-spoleto-al-romano-lunghi-applausi-per-i-messaggeri-istrionici-di-emma-Dante/594195/; https://twitter.com/FestivalSpoleto/status/1297192236040499201/photo/1;
https://gramho.com/explore-hashtag/fisarmonica;
https://tg24.sky.it/cronaca/2020/04/12/contagi-coronavirus-bollettino-protezione-civile; https://www.alqamah.it/wp-content/uploads/2020/03/Musica-dai-balconi-10.jpg; https://arte.sky.it/2020/07/viceversa-libro-editoria-marangoni/.