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Si è spento lo scorso 17 agosto a Bochum Hellmut Flashar, uno degli ultimi antichisti tedeschi della generazione prebellica.

Era nato ad Amburgo nel 1929, ma aveva trascorso infanzia e giovinezza a Berlino attraversando da bambino gli ultimi anni della repubblica di Weimar, l’ascesa del nazismo e la catastrofe bellica. Nella Berlino dell’immediato dopoguerra si iscrisse al corso di laurea in Filologia classica presso la Humboldt-Universität e rimase ammaliato dall’autorità e dal carisma di Wolfgang Schadewaldt (1900-1974), al punto di seguirlo a Tubinga nel 1950, quando questi vi si trasferì come ordinario di Letteratura greca. Degli anni giovanili, della Berlino devastata dalle bombe e divisa, delle ristrettezze economiche in cui si viveva allora, Flashar ha sempre conservato un vivido ricordo e ne parlava volentieri con allievi e amici segnalando la grande vitalità di quegli anni in cui la vita riprendeva a pulsare e nuovi orizzonti si schiudevano. Ne parla diffusamente anche nei capitoli iniziali della propria autobiografia, data alle stampe cinque anni fa col titolo Halbes vergessen – sanftes Erinnern. Eine autobiografische Skizze (Per metà dimenticato – ricordare con dolcezza. Uno schizzo autobiografico, Bochum 2017).

La carriera accademica di Flashar è stata rapida ed esemplare: dottorato nel 1954 sotto la guida di Schadewaldt con una dissertazione sullo Ione, abilitazione nel 1961 con un lavoro sui Problemata Physica attribuiti ad Aristotele. Dal 1964 è stato docente alla neonata Università della Ruhr di Bochum, e dal 1982 ordinario di Filologia classica alla Ludwig-Maximilian di Monaco di Baviera, dove è rimasto fino al pensionamento nel 1997. Dopo la riunificazione tedesca del 1990 Flashar si è speso molto per rilanciare gli studi classici nelle regioni della ex DDR, in particolare collaborando con l’università di Lipsia.

I campi di ricerca nei quali ha prodotto importanti ricerche sono la filosofia antica (soprattutto Platone e Aristotele) la medicina greca, la tragedia e la storia degli studi classici. Non è questa la sede per analizzare quanto di nuovo e importante si deve agli studi di Flashar.[1] Si tratta di lavori (soprattutto quelli degli ultimi anni) non solo ricchi di contenuto e precisi nel vaglio delle fonti, ma anche attenti a tenere un tono di alta divulgazione, così da risultare accessibili ad un pubblico più ampio di quello strettamente specialistico.

 

Non si può inoltre dimenticare il grande impegno di Flashar come direttore di riviste scientifiche (“Poetica. Zeitschrift für Sprach- und Literaturwissenschaft”) e editore e coordinatore di opere collettive. Almeno due vanno ricordate: la serie “Aristoteles, Werke in deutscher Übersetzung” (Opere di Aristotele in traduzione tedesca ,avviata da Ernst Grumach per Akademie Verlag di Berlino e dal 2019 proseguita presso De Gruyter) e della sezione “Filosofia antica” del nuovo “Grundriss der Geschichte der Philosophie”, Schwabe Verlag, Basilea). Anche dopo aver cessato l’attività universitaria Flashar ha continuato fino all’ultimo a lavorare partecipando a convegni, tenendo conferenze e pubblicando articoli e libri. Molti dei suoi saggi sono raccolti in due volumi intitolati rispettivamente Eidola (Berlino-Amsterdam 1989) e Spectra (Tubinga 2004).

 

In questa sede, ci preme mettere in evidenza l’impegno di Flashar in uno specifico campo di studi, del quale è stato certamente uno dei pionieri: lo studio delle messinscene moderne di opere teatrali dell’antichità classica. A Flashar si deve, infatti, un libro fondamentale, Inszenierung der Antike. Das griechische Drama auf der Bühne der Neuzeit 1585-1990 (Monaco 1991, Mettere in scena l’antichità. Il dramma greco sulla scena della modernità 1585-1990), pubblicato in anni in cui raramente i professori di filologia classica si cimentavano con le messinscene moderne e contemporanee. Flashar non era solo uno studioso del teatro greco, ma anche un appassionato frequentatore di teatri ed era fermamente convinto della necessità che gli studiosi si confrontassero con registi e produttori per meglio capire i loro oggetti d’indagine. Inszenierung der Antike è divenuto subito l’opera di riferimento per quell’ambito, e lo è rimasto fino ad oggi. Stupisce che non sia stato tradotto né in italiano, né in inglese o altra lingua moderna.

Il valore di quell’opera è tanto più alto se si pensa che è stato concepito e portato a termine in un’epoca in cui non esisteva Internet e la documentazione sugli spettacoli andava condotta visitando le scene teatrali, viaggiando per archivi oppure attraverso corrispondenze epistolari. L’attenzione di Flashar è concentrata su vari aspetti: le caratteristiche delle singole messinscene, le scelte musicali, il confronto tra stili drammaturgici e interpretazioni della filologia contemporanea. E nei decenni successivi Flashar ha continuato a seguire l’evoluzione del panorama teatrale europeo (e non solo) in relazione alle messinscene di drammi antichi. Il volume ha conosciuto una seconda edizione aggiornata nel 2009 e periodici aggiornamenti pubblicati su riviste specializzate (raccolti nel volume Antikes Drama - Moderne Bühne, Freiburg-Berlin, 2018, Dramma antico – Scena moderna).

Per ricordare Hellmut Flashar si riportano qui a seguire (con minime modifiche) alcune pagine della mia recensione a Inszenierung der Antike, pubblicata nel 1994 col titolo Teatro antico e moderne messinscene: Discussione di un recente libro sulla storia delle rappresentazioni moderne di drammi del teatro, sulla rivista «Materiali e discussioni per l’analisi dei testi classici», 32, 1994, pp. 145-161. Si tratta essenzialmente di un sunto analitico dei contenuti del volume, che può essere utile per comprenderne il senso.

 

"Risultati imprevedibili e oltremodo interessanti si determinano quando si cerchi di studiare il teatro greco classico nel suo Fortleben moderno dal punto di vista squisitamente drammaturgico: operazione questa, cha ha compiuto di recente Hellmut Flashar in una monografia (Die Inszenierung der Antike. Das griechische Drama auf der Bühne der Neuzeit 1585-1990, München 1991) […]. Il libro è il risultato di ricerche e approfondimenti parziali in parte pubblicati dal Flashar in singoli contributi critici e consiste fondamentalmente nella ricostruzione della storia delle messe in scena moderne di testi teatrali antichi, con tutte le implicazioni relative: da un lato alla storia della tradizione e alla sopravvivenza dell’antico nella cultura moderna, dall’altro alla necessità di studiare come si sia via via pensato fosse scenograficamente possibile realizzare in teatro uno spettacolo di parecchi secoli precedente e del quale ci è rimasto solamente il contenuto testuale.

Occorre dire che un’impresa di questo tipo costituisce un unicum nell’attuale panorama degli studi classici e degli studi sul teatro in particolare. In una ricostruzione come questa è peraltro implicito un doppio rischio alquanto pericoloso, tale da scoraggiare da principio chi intenda cimentarsi in simile fatica (al quale doppio rischio credo di poter dire che Flashar sia riuscito a sottrarsi): quello di risolvere il tutto in un’erudita somma di fatti e di dati, (arricchiti con qualche aneddoto), e quindi di scrivere un’opera dal valore puramente documentario; oppure quello di tentare un’ardita sintesi per forza di cose lacunosa incompleta.

La storia che Flashar racconta nel libro ha un anno e un luogo d’inizio precisi. Si tratta dell’anno 1585 e del teatro Olimpico di Vicenza. In quella data venne realizzata una celebre rappresentazione rinascimentale dell’Edipo Re sofocleo, con la quale la cultura europea sperimentò una prima riscoperta del teatro antico, e con cui si aprì la strada alle successive riprese. L’Accademia Olimpica vicentina scelse per l’inaugurazione del nuovo teatro palladiano quella tragedia di Sofocle, soprattutto in virtù dell’enorme influsso esercitato nella cultura rinascimentale dalla Poetica di Aristotele, dove viene esplicitamente teorizzata la superiorità paradigmatica dell’Edipo re sofocleo. La stessa messa in scena del testo, tradotto dal nobile veneziano Orsatto Giustiniani, segue il modello di tragedia divenuto canonico secondo le regole ricavate da Aristotele e applicate con forza normalizzatrice in tutto il teatro rinascimentale, con musiche di scena e cori (a cura di Andrea Gabrieli) secondo il gusto dell’epoca. La rappresentazione sofoclea del 1585 costituisce dunque una pietra miliare per la storia della cultura teatrale europea e aprirà la via a nuove messinscene di testi del teatro greco.

Due tipi di spettacolo si affermarono nei secoli XVII e XVIII: da un lato opere ispirate alle tragedie greche con rielaborazioni profonde dei modelli originari, spesso concepite secondo l’esigenza di produrre effetti moraleggianti, che la tragedia – secondo un fraintendimento posteriore e diffuso della Poetica aristotelica – si credeva avrebbe dovuto produrre. Rientrano in quest’ambito alcuni dei capolavori del classicismo francese, quali l’Antigone di Jean de Rotrou (1638), l’Oedipe di Corneille (1658) e quello di Voltaire (1718), la Thébaïde di Racine (1664) e, per l’Italia, l’Antigone di Vittorio Alfieri. Ma fu soprattutto l’opera lirica la forma di spettacolo nella quale gli effetti del teatro greco trovano all’epoca la migliore realizzazione. L’unità di parola, musica, mimica, recitazione e danza in un unico genere era stata un presupposto essenziale della tragedia greca e l’opera barocca del secolo XVIII, riprendendo le trame dei miti antichi, riuscì per certi tratti a farla rivivere. Si conoscono oltre venti opere liriche ispirate ad Antigone, altrettante a Edipo, una dozzina a Elettra e a Oreste: i libretti non sono in genere di alto livello e le trame paiono ricavate da repertori mitografici più che da una conoscenza diretta delle tragedie greche. Tuttavia Flashar parla a ragione, per questa stagione, di una vera e propria «Antike-Oper», un filone dell’opera lirica piuttosto trascurato in epoca più recente. Le opere liriche ispirate all’antichità greca segnano, per altro, la riscoperta di Euripide, fino allora decisamente meno noto rispetto a Sofocle: basti pensare alla Medea di Cherubini, all’Ifigenia o all’Alcesti di Gluck. Un successo incredibile ebbe però l’opera Oedipe à Colone di Sacchini, che restò in scena a Parigi quasi ininterrottamente dal 1787 al 1844; attraversando i tempi della Rivoluzione e della Restaurazione napoleonica, ebbe oltre 500 riprese e poté annoverare tra i suoi più illustri spettatori il filosofo Hegel in visita a Parigi nell’autunno del 1827.

Anche a Weimar, negli anni in cui l’Hoftheater (vedi immagine sotto) era diretto da Goethe (1791-1817) furono realizzati e rappresentati importanti rifacimenti di tragedie antiche: l’Ifigenia dello stesso Goethe, la Fedra di Schiller, lo Ione di Schlegel. Fu per altro in quell’ambiente, nel segno del classicismo tedesco e del nascente concetto di Altertumswissenschaft, implicante un nuovo consapevole rapporto con gli antichi, che fu ripresa – oltre 200 anni dopo l’Edipo re di Vicenza – l’idea di una messinscena di un testo sofocleo «avvicinandosi il più possibile alle modalità di rappresentazione dei Greci» (lettera di Goethe a Rochlitz del 30 ottobre 1782). Il risultato dell’esperimento fu un’Antigone, rappresentata nel 1809 nella traduzione di Solger (tra le altre venne scartata quella di Hölderlin, accolta dai contemporanei come l’opera di un pazzo), per la regia di Rochlitz: fu uno spettacolo in cui la dimensione storicistico-antiquaria risultava tanto prevalente da non riscontrare il favore del pubblico. Goethe fece eseguire pochissime repliche e non si avventurò in altri esperimenti di questo tipo.

Hoftheater di Weimar, Peter Waltze

Dopo Vicenza 1585 e Weimar 1809, la terza decisiva tappa, che sancì la definitiva riappropriazione del teatro tragico greco da parte della cultura europea, fu Potsdam 1841. Dopo una tormentata gestazione, venne rappresentata nel piccolo teatro di corte di quella città, parzialmente rifatto per l’occasione, un’Antigone che può essere considerata la prima vera messinscena di una tragedia greca in traduzione tedesca, libera da aggiustamenti e modificazioni. Nel progetto, vigorosamente promosso dalla casa reale prussiana di Federico Guglielmo IV, furono coinvolti esponenti di punta della cultura tedesca dell’epoca: la regia fu affidata a Ludwig Tieck, le musiche a Felix Mendelssohn-Bartholdy. La traduzione scelta fu quella «poetica» di Donner.

 

Tra l’altro, venne espressamente richiesta la consulenza scientifica del filologo classico berlinese August Böckh, e fu questo il primo caso di una fattiva collaborazione tra filologia e drammaturgia in vista dell’allestimento di uno spettacolo teatrale. Quella rappresentazione ebbe un successo e una risonanza notevoli. Essa sancì, per altro, il primato dell’Antigone sofoclea nella cultura e nel repertorio teatrale tedeschi, un primato confermato nei decenni successivi, anche a causa degli influssi prodotti dalla celebre lettura hegeliana (qui sotto due immagini da due versioni francesi del 1844 e 1893). Infatti l’Antigone è stata costantemente e rimane ancor oggi la tragedia più rappresentata nei teatri di lingua tedesca, soprattutto nelle traduzioni epocali di Donner, di Wilamowitz e di Schadewaldt. Solo di rado, e in tempi recenti, è stata recuperata la traduzione di Hölderlin, per lo più considerata di difficile comprensione.

Chronique musicale. Antigone, tragédie de Sophocle, traduite en vers français, par MM. Meurice et Vacquerie. Musique des chœurs par M. Mendelsshon-Bartholdy..1844

 

Le risonanze prodotte dall’Antigone prussiana ebbero, per altro, un effetto duraturo e significativo anche in altre aree di cultura tedesca, come per esempio in Baviera: all’ Hoftheater di Monaco, nell’ambito della politica filoellenica promossa dal re Massimiliano II, fu rappresentato nel 1852 un Edipo re per la regia di Dingelstedt, le musiche di Lachner e la consulenza scientifica del filologo classico Thiersch. Monaco divenne in breve il centro più attivo per la rinascita del teatro greco in Germania, anche se il dominante gusto classicistico obbligò ancora ad adattamenti modernizzanti, ovvero a espedienti registici come quello di far seguire al dramma un’operetta un balletto per rendere meno pesante lo spettacolo.

Comédie-Française. — Antigone, tragédie de Sophocle mise à la scène française par MM. Paul Meurice et A. Vacquerie, musique de M. C. Saint-Saëns. Supplications d’Antigone (Mlle Bartet) condamnée à mourir (2e acte).François Édouard Zier 1893

Nello stesso ambiente monacense maturò in gran parte l’esperienza del Musikdrama di Richard Wagner, il quale nei suoi scritti teorici si richiama spesso ai principi della tragedia greca, anche se di fatto si tenne volutamente lontano da esperimenti di messinscena di drammi antichi, da lui ritenuta irrealizzabile.

È solo nei primi decenni del ventesimo secolo che la messinscena di drammi antichi si liberò definitivamente da ogni residuo classicistico: ciò fu soprattutto merito di Ulrich von Wilamowitz-Moellendorff che tradusse in tedesco molti testi di tragedie greche in vista della loro rappresentazione scenica e collaborò attivamente all’allestimento di spettacoli. Le indicazioni wilamowitziane trovarono la realizzazione più eccellente nell’Orestea berlinese del 1911/1912 (vedi immagine sotto), messa in scena da Max Reinhardt, che segnò per altro la scoperta di Eschilo per il teatro europeo. La regia di Reinhardt pose deliberatamente in secondo piano la dimensione religiosa e le istanze etico-educative del teatro greco, per dare la massima importanza alla possibilità di trasmettere al pubblico un’esperienza di carattere rituale. Per questo fine, Reinhardt scelse quali spazi scenici per la sua Orestea delle arene che potevano raccogliere migliaia di persone e che più si avvicinavano al teatro greco antico. Tra l’altro, la lezione di Max Reinhardt fu ripresa anche in Italia: l’Agamennone (1916) e le Coefore (1921), date a Siracusa nella traduzione e per la regia del grecista Ettore Romagnoli, si possono collocare in una analoga linea di tendenza.

Gli anni Trenta vedono affermarsi l’idea di una assolutizzazione dell’esperienza teatrale greca, avvertita come perennemente valida e non legata al contesto storico in cui ebbe luogo. I temi del sacro, dell’arcaico, del destino, del rapporto uomo/dio, apparenza/verità etc. sono centrali tanto negli studi di filologi classici sulla tragedia greca (basti pensare alla celebre monografia sofoclea di Karl Reinhardt), quanto in taluni dei più famosi rifacimenti, come per esempio l’opera Oedipus Rex del compositore Igor Strawinsky (su libretto di Jean Cocteau tradotto in latino da Jean Daniélou, sotto un bozzetto di scena per l'opera), dove l’uso del latino contribuisce a conferire un carattere arcaico e sacrale all’opera. Sempre in tale contesto si può leggere la riscoperta delle traduzioni hölderliniane di Edipo re e Antigone, rivalutate ora come prodotto dello Spirito tedesco, come opere che hanno saputo cogliere l’essenza dei drammi sofoclei, e quindi ben utilizzabili per le moderne messinscene.

Bozzetto di Strawinsky per l'Oedipus Rex

Le tendenze alla decontestualizzazione e alla destoricizzazione del teatro greco – tanto forti che un’esperienza di teatro prettamente politico come quello di Erwin Piscator non si cimentò in quegli anni con la regia di drammi antichi greci – permangono in Germania per tutto il periodo della dittatura hitleriana: il regime nazista intese neutralizzare gli aspetti politici (potenzialmente pericolosi) del teatro greco e proiettarne i contenuti in un idealizzato mondo mitico lontano dall’attualità. Esemplare di questo abuso fu l’Orestea rappresentata nel 1936 in occasione dei giochi olimpici di Berlino, per la regia di Lothar Müthel e la traduzione di Wilamowitz. La vittoria del nuovo kosmos sulle divinità delle tenebre (Erinni) viene interpretata come vittoria del nuovo ordine politico sul caos precedente. L’Antigone di Jean Anouihl, rappresentata per la prima volta nella Parigi occupata dai tedeschi (1944, sotto un'immagine dello spettacolo) e con forti attualizzazioni del testo, è stata spesso interpretata come appello alla resistenza antinazista. Ma Flashar tende a vedere piuttosto in quel dramma il riflesso della crisi d’identità della Francia dell’epoca, dilaniata tra collaborazionismo (Creonte) e resistenza (Antigone). Del resto lo spettacolo superò il vaglio della censura tedesca, e solo dopo la liberazione di Parigi esso venne replicato per ben 645 volte ed assunse la specifica valenza di classico testo della Resistenza.

Anouilh, Antigone, 1944

La dimensione politica del teatro greco divenne un elemento basilare e imprescindibile in molte messinscene del dopoguerra: l’esempio più notevole di questa tendenza fu l’Antigone di Bertolt Brecht (1948, sotto la celebre immagine di Helene Weigel come Antigone), dove l’accentuazione antinazista del testo emerge con chiarezza (Creonte assimilato a Hitler). Flashar non è pregiudizialmente ostile a tendenze registiche che puntino sulla attualizzazione della tragedia greca, che anzi sono fedeli all’esperienza del teatro antico, nel senso che il regista moderno ripete l’operazione compiuta dal tragediografo greco, di utilizzare cioè lo spettacolo come veicolo per dare forma nuova e attuale al mito. Ciò però non significa – per l’autore – che ogni interpretazione attualizzante politicizzante sia legittima. In particolare è importante ricordare che il conflitto tragico nel teatro greco, se pure di natura politica, si carica sempre anche di valenze etiche e psicologiche, e comunque non si sovrappone mai del tutto alle dimensioni cultuali e rituali della vicenda. In questo senso Flashar contrappone al modello brechtiano quello rappresentato da Cari Orff (con la sua musicazione dell’Antigone del 1951), in cui la contestualizzazione arcaica della vicenda è un elemento imprescindibile, e dunque la distanza temporale tra l’evento rappresentato e l’attualità viene sottolineata costantemente.

A mano a mano che l’analisi di Flashar si avvicina all’epoca contemporanea, l’intensificarsi delle rappresentazioni e la maggiore quantità del materiale informativo rendono sempre più difficile la possibilità di isolare le principali tendenze registiche, anche perché si verificano spesso sovrapposizioni e si moltiplicano i contatti tra esperienze di regia d’ambito tedesco e quelle di altre aree culturali. L’affermarsi dagli anni Sessanta in poi di un «teatro di regia», nel quale il regista è autorizzato a sovrapporre arbitrariamente la propria regia al significato e ai valori propri del testo rappresentato (fenomeno che ha coinvolto anche le messinscene del teatro antico) ha virtualmente moltiplicato all’infinito le possibilità delle scelte registiche. Flashar mantiene in linea di massima un’ottica germanocentrica, il che è del resto più che giustificabile dato il ruolo egemone esercitato dal teatro di regia tedesco nel ventesimo secolo, e concentra la sua attenzione sui teatri stabili, limitandosi ad annotazioni marginali per quanto riguarda spettacoli open-air, quali quelli che si svolgono periodicamente nei teatri antichi di Epidauro, Atene Siracusa, spettacoli che, in linea di massima, si attengono a scelte registiche molto tradizionali.

Gli ultimi decenni hanno visto un inaspettato moltiplicarsi di spettacoli ispirati a testi del teatro greco e un notevole ampliamento del repertorio dei drammi greci portati sulla scena, proprio in parallelo con la diminuzione del prestigio di materie come greco e latino nelle scuole liceali di tutta Europa. Contemporaneamente si è verificata un’estensione dei media comunicativi utilizzati dai registi per ridare vita al teatro greco: basti pensare alle versioni cinematografiche di Pier Paolo Pasolini (Edipo re del 1967 e Medea del 1970) ai film tratti da Euripide del regista greco Michael Cacojannis con musiche di Mikis Theodorakis (Elettra del 1961, sotto un'immagine,  Troiane del 1971 e Ifigenia del 1976): il genere della trasposizione filmica di opere teatrali greche ha prodotto negli anni sessanta e settanta oltre venti opere, ma successivamente pare essere entrato in crisi.

Tracciare dei bilanci e delle classificazioni di un fenomeno culturale così complesso e non ancora esaurito è senza dubbio difficile. Al riguardo Flashar delinea una linea di sviluppo che – pur tra contraddizioni e ripensamenti – ha attraversato il fenomeno della messinscena del teatro antico negli ultimi decenni del Novecento. A un primo momento in cui prevale una forte ritualizzazione della tragedia greca accompagnata e bilanciata da una altrettanto marcata caratterizzazione politico-ideologica, segue una fase in cui la dimensione dell’attualizzazione politica prende nettamente il sopravvento e diventa sempre più diretta e «provocatoria». Queste due tendenze dominano la scena teatrale negli anni Sessanta-Settanta, spesso in polemica l’una con l’altra.

Una terza fase è invece inaugurata dall’epocale messinscena dell’Orestea di Eschilo a cura di Peter Stein (1980), che segna – per così dire – uno spartiacque imprescindibile e condiziona tutte le regie di drammi antichi degli anni Ottanta  (qui sotto un'immagine dalle Eumenidi).

 

Tra gli spettacoli più notevoli del primo momento spicca l’Orestea di Vittorio Gassman nella traduzione di Pasolini, realizzata a Siracusa nel 1960, che ebbe grande risonanza nel dibattito culturale italiano: sullo sfondo dell’arcaicità greca, Gassman e Pasolini proiettano i contrasti dell’Italia contemporanea. Il mondo arcaico-rituale, depurato dalla mentalità di vendetta, viene indicato quale possibile alternativa al mondo corrotto della civiltà capitalista.

 

Sulla linea della ritualizzazione arcaizzante si colloca l’Edipo re sofocleo messo in scena da Benno Besson (nell'immagine sopra il regista al lavoro), nella traduzione di Hölderlin rielaborata da Heiner Müller, al Deutsches Theater di Berlino Est nel 1967. La scenografia, i costumi, la musica, i ritmi africani, intendono simboleggiare un’ambientazione tribale-primitiva, con lo scopo esplicitamente anticlassicistico di trasmettere al pubblico un effetto del tutto estraniante del mondo greco antico. Edipo sarebbe sulla scena il portatore di una mentalità nuova, emarginato – per questo – da una società tradizionalista gentilizia. Flashar coglie legami significativi tra allestimenti come quello di Besson e certi studi antropologici sulla civiltà e sull’esperienza teatrale greca di quegli anni. Le numerose messinscene legate al nome di Hansgünther Heyme (tra le altre: Antigone, di cui sotto vediamo il programma di sala,  Aiace, Troiane, oltre a singolari accorpamenti di due tragedie in un unico spettacolo come Edipo re e Edipo a Colono, Sette contro Tebe e Antigone, Baccanti e Rane) mirano anch’esse – come l’Edipo re di Besson – a sottolineare lo stacco tra il passato della vicenda e l’attualità, ma in forme sceniche molto più ortodosse e quasi stilizzate (con mimica ridotta al minimo, statuarietà dei personaggi etc.).

 

L’uso del teatro greco per alludere a eventi politici contemporanei e per lo più in funzione critica è un elemento costitutivo delle rappresentazioni di questi ultimi decenni. Il Filottete di Heiner Müller, per esempio, con l’enfasi posta sulla dialettica della menzogna e la mancata conciliazione finale rispetto all’originale sofocleo, è stato interpretato come critica allusiva al sistema politico della Repubblica Democratica Tedesca degli anni Sessanta. Nell’Antigone francofortese di Christoph Nel (1979) le allusioni ai disordini del 1968, all’attentato contro Rudi Dutschke e alla sepoltura di alcuni terroristi della Rote Armee Fraktion (vietata dal governo della Repubblica Federale di Germania per ragioni di sicurezza) provocarono molto clamore e vivaci reazioni. In un caso come questo si sconta una linea interpretativa dell’Antigone di Sofocle, amplificata per altro dalla traduzione hölderliniana, che fa di Antigone il simbolo della ribellione individuale contro lo Stato autoritario.

Una tendenza registica più conservatrice è stata quella di Luca Ronconi, la cui Orestea (1972, immagine sotto) e le cui Baccanti (1973) hanno avuto risonanza in tutto il mondo. Ronconi rinuncia deliberatamente a qualsivoglia allusione politica e realizza spettacoli fondati sul principio della commistione di stili (scenografie da teatro borghese che si alternano a scenari arcaico-rituali, personaggi in costume antichi che usano oggetti moderni etc.). L’alternanza tra arcaico e attuale produce effetti di grande suggestione e sottintende comunque una potenziale attualità non solo simbolica della vicenda rappresentata.

Ronconi, Orestea

 L’Orestea di Peter Stein, realizzata dalla Berliner Schaubühne nel 1980, è stata una messinscena di portata decisiva: essa ha posto fine alla tradizione registica «attualizzante» e ha sancito una sorta di «ritorno al poeta», non in senso antiquario storicista, ma nella prospettiva di rendere accessibile la parola del poeta antico e l’esperienza della tragedia greca al pubblico di oggi. Del resto, quella del «ritorno al poeta» è una tendenza che ha caratterizzato gran parte degli studi filologici sul teatro antico negli ultimi anni (e ancora una volta è avvertibile il parallelismo tra indirizzo della filologia classica e tendenze registiche). L’esigenza di fedeltà e rigorosità della regia di Stein, possiamo misurarla nella lunghissima preparazione che il regista impose (quasi due anni), nella durata dello spettacolo (dieci ore circa, consecutive in tre serate), nella volontà di approntare una traduzione del testo ex novo in un linguaggio il più comprensibile possibile, ma senza tralasciare nulla. Tra l’altro, sono conservati e valorizzati i momenti rituali (sacrificio, lamentazione delle donne), che anzi assumono molta importanza, e non vengono fatte allusioni all’attualità: il momento finale, ossia il supera-mento della logica di vendetta mediante le nuove procedure democratiche è proiettato su uno sfondo astorico e universale.

Le esperienze teatrali a partire dal Prometeo di Klaus Michael Grüber (1986) nella traduzione di Peter Handke, si inseriscono nel solco tracciato da Stein. L’Oedipus del compositore Wolfgang Rihm (prima rappresentazione alla Deutsche Oper di Berlino nel 1987, immagine sotto) d’altro canto ha sancito un ritorno dell’opera lirica ai temi del teatro greco (sulla scia di Mendelssohn-Bartholdy, Strawinsky, Enescu). Gli ultimi decenni hanno visto, tra l’altro, una certa diffusione di messinscene di spettacoli antichi anche in contesti culturali del tutto estranei alla tradizione greca. In paesi come Giappone, Cina, India, sono state rappresentate tragedie greche con singolari effetti di contaminazione e sovrapposizione rispetto alle tradizioni teatrali locali (teatro del No e teatro Kabuki in Giappone, opera nazionale cinese etc.), anche con i necessari adattamenti per rendere comprensibile la dimensione teologica del teatro e della civiltà greca a sensibilità religiose del tutto diverse. Se questa diffusione del teatro greco classico presso culture non europee avrà un seguito – e ciò sembra alquanto probabile – si dovranno registrare nuovi imprevedibili capitoli nella storia delle messinscene moderne del teatro greco.

La ricostruzione tracciata da Flashar dimostra dunque l’estrema varietà e la frammentarietà dei modi in cui storicamente il teatro moderno ha pensato di mettere in scena i testi antichi. Nonostante questa oggettiva difficoltà, che impedisce per lo più di individuare delle linee di tendenza univoche e coerenti, questo studio costituisce – in virtù della ricchezza del materiale documentano e della chiarezza e precisione con le quali vengono ripercorsi i momenti fondamentali della ricezione del teatro antico sulla scena moderna – un punto fermo per chiunque vorrà in futuro proseguire lungo questa linea di ricerca approfondirne singoli aspetti.

Rimane sullo sfondo la questione essenziale del ‘come’ si debba concretamente e positivamente allestire oggi uno spettacolo di questo tipo. Tale problematica affiora a tratti in parecchi punti del libro ed è trattata in un modo più sistematico nel capitolo conclusivo. Consapevolmente non vengono date indicazioni normative, né vengono fatte distinzioni tra criteri «corretti» e criteri «non corretti». Ciò non significa naturalmente che ogni messinscena sia ugualmente legittima e altrettanto valida. L’idea di ricostruire il più fedelmente possibile le modalità di rappresentazione dell’età antica appare fuorviante per il semplice fatto che si tratta in ogni caso di approssimazioni e che, di fatto, è impossibile ricreare le condizioni di produzione, di recitazione e di ricezione esistenti in passato. Neppure gli spettacoli rappresentati nel teatro di Epidauro in quello di Erode Attico ad Atene sono in questo senso veramente fedeli all’antico, dal momento che quelle strutture sceniche conservatesi sono teatri di epoca post-classica, di secoli successive all’età in cui fiorì il teatro greco. Certi effetti arcaizzanti (ritmi, musiche, rituali) possono però giustificarsi come elementi di straniamento per sottolineare la distanza tra il modo moderno e quello antico di concepire lo spettacolo teatrale. La modifica dei testi, il riadattamento dei miti, l’allusione all’attualità, non devono essere di per sé biasimati: anzi, i registi moderni che utilizzano tale metodo sono fedeli a una prassi che era normale per Eschilo, Sofocle, Euripide. Tuttavia, anche in questa direzione è necessario – per Flashar – non tradire completamente il modello dal quale ci si è dichiarati dipendenti; oppure anche occorre dichiarare esplicitamente l’intenzione di creare ex novo un’opera letteraria. In questa prospettiva, anche l’eliminazione di talune parti che erano fondamentali per il teatro greco, come per esempio i canti corali, appare una soluzione superficiale e semplicistica: l’abilità di un regista sta nel trovare il giusto punto di equilibrio che consenta di conservare le strutture basilari del teatro antico conferendo ad esse vitalità scenica e interesse attuale. In fondo qualsiasi messinscena può essere considerata di valore, purché consegua lo scopo di rivitalizzare il teatro antico.

 

Quando Andrzej Wajda mette in scena a Cracovia nel 1984 un’Antigone con esplicite allusioni all’attualità politica polacca (immagine sopra), fino all’irruzione sulla scena di attori travestiti da operai dei cantieri di Danzica con i vessilli di Solidarnosc; quando, nell’ottobre del 1989, al Deutsches Theater di Berlino Est un’Antigone nella versione brechtiana viene interpretata dal pubblico come appello all’insurrezione democratica contro la degenerazione autoritaria del sistema politico, ciò significa che la tragedia greca conserva ancora oggi una funzione comunicativa molto importante. Anzi, «nuove Antigoni vengono immaginate, pensate, vissute in questo momento; e altre ne nasceranno domani» (G. Steiner, Le Antigoni, trad. it. Milano 1990, p. 336).

 

[1] Basta solo ricordare i titoli delle sue più importanti monografie in ordine cronologico: Melancholie und Melancholiker in den medizinischen Theorien der Antike, Berlino 1966; Sophokles. Dichter im demokratischen Athen, Monaco 2000; Felix Mendelssohn-Bartholdy und die griechische Tragödie. Bühnenmusik im Kontext von Politik, Kultur und Bildung, Stoccarda-Lipsia 2001; Aristoteles. Lehrer des Abendlandes, Monaco 2013; Hippokrates. Meister der Heilkunst. Leben und Werk, Monaco 2016, Lust und Pflicht. Wege zum geglückten Leben, Vienna 2019, Hellenistische Philosophie, Vienna 2020, Platon. Philosophieren im Dialog, Vienna 2021.