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Medea è una figura del mito antico tra le più produttive nella cinematografia.

C’è la Medea-Callas di Pier Paolo Pasolini (1969), c’è la Medea nordica e tenebrosa di Lars von Trier (1988), c’è la Medea messicana di Arturo Ripstein (Así es la vida, 2001), c’è la Medea del meno noto Médée miracle, del regista Tonino De Bernardi, con Isabelle Huppert nei panni della protagonista (2007). Ora alla serie si aggiunge un nuovo titolo: Saint Omer, della regista Alice Diop, film premiato alla Mostra del cinema di Venezia del 2022 con un doppio Leone d’argento (Gran premio della giuria e migliore opera prima), uscito nelle sale dei cinema italiani lo scorso 8 dicembre.

Il titolo (Saint Omer) non richiama il mito antico, ma si riferisce ad una località dell’Alta Francia, nel dipartimento di Calais. I protagonisti non hanno nomi che si rifacciano neppure allusivamente alla tradizione della saga greca. Eppure, in alcuni momenti salienti del film il richiamo alla Medea classica è evidente: per esempio, quando sono mostrate per alcuni secondi alcune sequenze del film di Pasolini in cui Medea-Callas, con sguardo impenetrabile e gestualità rituale, prepara l’infanticidio dopo avere lavato e messo a letto i figli.

 

La Medea di Saint Omer si chiama Laurence Coly (interpretata da Guslagie Malanda) ragazza ventiquattrenne africana di origine senegalese, emigrata in Francia per staccarsi dai genitori, studentessa di filosofia, con una tesi sul pensiero di Wittgenstein. Quando il film comincia, il dramma è già consumato. Vediamo Laurence in tribunale, sotto processo per l’accusa d’avere ucciso la figlia di 15 mesi, abbandonata deliberatamente su una spiaggia, in balia di onde e maree. Appare come una ragazza educata e colta, in apparenza perfettamente integrata (parla francese senza accento), ma anche distaccata, fredda e impenetrabile. Non fa nulla per discolparsi o giustificarsi, anche se non è in grado di fornire spiegazioni razionali per il suo gesto, attribuendolo a una qualche stregoneria o al malocchio («ho affidato la bambina al mare»).

 

Ispirato ad un caso di cronaca realmente accaduto una decina di anni fa, quello di Alice Diop, regista francese di genitori senegalesi, si presenta come un classico film giudiziario, un “legal drama”, interamente costruito attorno allo svolgersi di un processo. Ma sarebbe sbagliato incasellarlo come film di genere, senza cogliere le tematiche e le prospettive che vi sono sottese, a partire da quella dell’integrazione difficile dello straniero (la “barbara” Medea della tragedia euripidea, mai integrata nel paese in cui vive dopo essersi separata dalla madre patria).

 

La vicenda di Laurence si incrocia narrativamente con quella di Rama (Kayije Kagame), anche lei figlia di immigrati africani, anche lei incinta e in conflitto con la madre. È una scrittrice e docente di letteratura francese all’università, e segue il processo con l’intento di scriverne un libro dal titolo Medea nafragata. Mentre assiste alle udienze rimane affascinata e al tempo stesso sconvolta dalla vicenda di Laurence, nella quale vede il riproporsi di una Medea moderna e al tempo stesso un proprio alter ego che la mette in crisi. In un gioco di specchi emozionante, Rama ritrova nell’imputata i fantasmi che l’accompagnano fin dall’infanzia e rivive lo sradicamento subito dalla propria madre. Tra l’imputata e la scrittrice non c’è nessun contatto diretto, non si parlano mai, ma basta un momentaneo incrocio di sguardi nell’aula del tribunale per turbare Rama, e suscitare in lei inquietudini incontrollabili che si ripercuotono sulla propria gravidanza appena agli inizi.

 

Il fascino del film deriva dall’assoluta ambiguità del caso. Laurence-Medea è colpevole o innocente? Va condanna all’ergastolo, come prescrive la legge per l’infanticidio premeditato, o no? Non ci sono tesi da dimostrare, e la domanda sulla colpevolezza o meno di Medea è aperta da secoli, a partire dalla tragedia di Euripide. Il film propone vari punti di vista che coincidono con le prospettive dei diversi personaggi. Nella sua deposizione e nei vari interrogatori l’imputata si presenta come vittima di un uomo malvagio, molto più anziano, che l’ha segregata in casa, l’ha tenuta nascosta a parenti e amici, ha ignorato la figlia: una catena di pressioni psicologiche il cui sbocco è stato l’abbandono sulla spiaggia della bambina. La presidente della giuria si mostra benevola e disponibile a capire, mentre il compagno di Laurence, il Giasone della situazione, appare in tribunale come un pover’uomo, anziano e codardo: a sentir lui andava tutto bene e non c’era alcun motivo per uccidere la figlia.

 

Poi c’è un pubblico ministero, cupo e inflessibile, che non compie il minimo sforzo per comprendere le dinamiche psicologiche della giovane madre e chiede solo di vedere il mostro rinchiuso a vita dietro le sbarre. Sulla stessa lunghezza d’onda sono i componenti della giuria, tutti di pelle bianca, come pure la gente che manifesta per strada contro la matricida. Tutti incapaci, per gli ovvi condizionamenti culturali, di guardare con sguardo simpatetico al disagio della ragazza. Perfino la professoressa che ha seguito la tesi di Laurence, chiamata a testimoniare, rivela il proprio razzismo inconscio nel momento in cui dichiara di essersi stupita per la scelta di lavorare su Wittgenstein anziché su un autore «più vicino alla sua cultura d’origine».

Ben diversa è l’opinione dell’avvocata che difende Laurence, la cui arringa finale conclude il film e va presa come il punto di vista della regista. «Questa è la storia di una donna fantasma, di una lenta scomparsa, una tragica discesa negli inferi» recita il discorso della difesa per concludere che «Siamo per certi versi tutti dei mostri, ma mostri terribilmente umani».

Non è la prima volta che la mitologia classica viene usata nel cinema da registi con background migratorio per sollevare problematiche legate all’identità multiculturale e alle difficoltà di inserimento nei nuovi contesti di vita. Va ricordata a tale proposito l’Antigone di Sophie Deraspe (ne abbiamo parlato qui) sull’emigrazione algerina in Canada. Merito precipuo di Alice Diop in Saint Omer è quello di avere affrontato la questione con uno sguardo lucido e scevro da qualsivoglia pregiudizio producendo un film tanto intenso quanto “disturbante”. Non sapremo mai se Laurence ha ucciso la figlia per vendicarsi di un mondo che l’ha condannata all’invisibilità, perché stanca di doversi nascondere, per sublimare il proprio suicidio, o per proteggere la figlia da un destino sicuramente infelice. Di sicuro questa Medea contemporanea fa riflettere sui disagi profondi, sulle frustrazioni delle odierne esperienze migratorie.

Saint Omer

Regia: Alice Diop

sceneggiatura: Alice Diop, Amrita David, Marie Ndiaye

Fotografia: Claire Mathon

Montaggio: Amrita David

Scenografia: Anna Le Mouel

Costumi: Annie Melza Tiburce

Suono: Dana Farzanehpour, Josefina Rodriguez, Lucile Demarquet, Emmanuel Croset

Interpreti: Kayije Kagame, Guslagie Malanda, Valérie Dréville, Aurélia Petit