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Oh, potessi io morire prima di stanotte, conservando almeno il corpo intatto dalla violenza.                                                                                     

(Timoclea di Tebe, dopo le ripetute violenze e minacce di un comandante tracio; Plutarco, La virtù delle donne, storia 24)

 

La virtù delle donne di Plutarco di Cheronea (II sec. d.C.) racconta ventisette aneddoti storici su donne di ogni età e condizione che sono sottoposte a violenze fisiche, sessuali e psicologiche. È l’unica opera tramandata dall’antichità su quest’argomento, e perciò riveste per noi un interesse particolare: non solo offre uno spaccato storico della condizione femminile nel mondo greco e romano fino alla prima età imperiale, ma dà anche una rara testimonianza della reazione delle donne alla violenza dei maschi. Proprio in queste forme di ribellione e di opposizione consiste, per Plutarco, la loro 'virtù'.  Come madri, mogli, figlie, sorelle, compagne o concubine, libere, schiave, prigioniere, ostaggi, le donne descritte da Plutarco reagiscono alla violenza maschile, dando  esempi di coraggio, resilienza, dignità, pudore, astuzia. Naturalmente quest'opera non ha e non poteva avere lo scopo di rivendicare la dignità della condizione femminile o la parità con gli uomini. Il punto di vista di Plutarco non è quello delle donne che subiscono violenza, né si tratta di un trattato politico, ma morale.  L'intento dell'autore è in primo luogo intrattenere il lettore,  “unire le Grazie alle Muse in un bellissimo connubio”, rivolgendosi anche ad un pubblico femminile, tra cui la dedicataria dell’opera, una dotta amica di Plutarco, ministra del culto di Dioniso a Delfi. Lo scopo del trattato, dunque, è letterario, etico e pedagogico. Plutarco ritrae donne che, fuori dal loro spazio tradizionale, quello della casa familiare,  impugnano le armi in guerra, e talora si lanciano nel corpo a corpo e uccidono, escogitano trame di palazzo, si travestono da uomini, affrontano pericoli di ogni genere per difendere sé stesse, la famiglia, la città o un intero popolo: il suo pubblico femminile, supponiamo, empatizzava con questi personaggi e li prendeva come esempi di comportamento virtuoso. Ma anche i lettori maschi non dovevano disprezzare questa serie di paradigmi, modellati, del resto, sui modelli proposti dalle scuole filosofiche. Non si tratta dunque di un'opera proto-femminista, ma al contrario di un erudito trattato morale, nel solco dell'eclettismo filosofico proprio dell'autore e della sua epoca. 

Tuttavia impressiona la molteplicità delle forme della violenza maschile descritte da Plutarco: dalla tortura allo stupro, dal rapimento a scopo sessuale alla violenza sociale verso donne costrette al concubinato nella condizione di schiave del sesso o tenute in ostaggio. Vi sono esempi di violenza psicologica su donne umiliate, ricattate e ridotte al silenzio, violenza etnica verso donne straniere e perciò considerate nemiche, violenza economica nei confronti di donne sottomesse e sfruttate. Eccone alcuni esempi. 

Il gàlata Sinorige perseguita la nobile Camma, sposata con Sinato: preso dalla frustrazione di un amore rifiutato, Sinorige assassina a tradimento Sinato, per poi chiedere la mano di Camma. La vedova si vendica prendendo una decisione fatale: simula di accettare la corte di Sinorige e lo invita a bere insieme un idromele velenoso, che causò la morte di entrambi. In questo come in altri aneddoti si dimostra il luogo comune nelle scuole filosofiche che la morte è preferibile al disonore che consegue la violenza. Uno degli episodi più celebri di questa norma etica è narrato all’inizio della storia 14 dell’opera: qui si accenna alla nobile Lucrezia che, stuprata da uno dei figli di Tarquinio a cui aveva prestato ospitalità, prima racconta ad amici e parenti la violenza subìta e poi decide di uccidersi non potendo sopravvivere alla vergogna.  Lucrezia non tollera l'oltraggio alla propria dignità, perpetrato in spregio alla sua nobile famiglia. Con il suicidio, Lucrezia realizza l'idea filosofica, stoica in particolare, che una vita macchiata dalla vergogna non è degna di essere vissuta e diviene perciò esemplare per le altre donne. 

In uno degli aneddoti più lunghi e avvincenti, la violenza maschile nei confronti delle donne si configura anche nel tentativo di ucciderne i figli come vendetta verso una donna riluttante ad obbedire agli ordini. Il tiranno di Elide, Aristotimo, imprigiona le donne della sua città per costringerle a tradire i mariti, esuli per motivi politici, minacciandole e ricattandole. Quando la più autorevole delle prigioniere, Megisto, si ribella alla violenza, Aristotimo minaccia di ammazzarle il suo unico figlio. In tutta risposta, Megisto offre spontaneamente il figlio come vittima al tiranno, apostrofandolo: “Vieni, figlio, liberati dalla misera tirannide prima di riuscire a comprendere e pensare, poiché per me è più insopportabile vederti indegnamente schiavo che vederti morire”. 

 

La virtù delle donne non ha solo una valore intimo e privato, non si realizza cioè solo evitando il disonore e la vergogna personale e della famiglia, ma anche contribuendo al bene comune con il sacrificio della vita. La tebana Timoclea, dopo aver perduto in battaglia a Cheronea il fratello Teagene, scopre dei soldati traci mentre le stanno saccheggiando casa. Il capo di soldati, ubriaco, la stupra e decide di tenerla con sé come se fosse la moglie. In risposta a tali violenze, Timoclea escogita la sua vendetta: finge di aver nascosto i propri averi in un pozzo e invita l’uomo, avido di bottino, a scendervi per impossessarsene; una volta giunto sul fondo lo uccide a sassate insieme alle ancelle. Portata dinnanzi ad Alessandro Magno per essere punita, Timoclea ottiene invece per la sua nobiltà ed il suo coraggio il rispetto del Re,  il quale impone alle proprie truppe di portarle rispetto e di non oltraggiarla più in alcun modo. Così Timoclea ottiene il riconoscimento pubblico di aver agito per legittima difesa. Questo anedotto, tra l'altro, è una bella testimonianza di solidarietà femminile. 

Gli aneddoti raccolti da Plutarco spaziano per tutto il mondo greco e per tutte le epoche. Ecco il tiranno di Cuma, Aristodemo, che costringe le donne di condizione libera a tagliare i capelli corti ed indossare abiti maschili per offenderle e ridicolizzarle. Innamoratosi della cumana Senocrite, la tiene presso di sé senza il consenso della donna e del padre, obbligandola ad una convivenza forzata, nonostante il suo sdegno e la sua contrarietà. Per reagire a tale abuso, Senocrite istiga i concittadini cumani ad agire contro il tiranno e, fattili entrare nella reggia, fa trovare loro Aristodemo disarmato e senza guardie del corpo, così da poterlo uccidere. Dopo aver rifiutato tutti gli onori ed i doni tributati dai concittadini in segno di ringraziamento, rispettando il corpo di Aristodemo ed evitando una vendetta postuma contro il despota, chiede di poterne seppellire il cadavere ed è ricompensata con la carica onorifica di sacerdotessa di Demetra. Senocrite reagisce dunque alla violenza di Aristodemo tradendolo e aiutando i Cumani a compiere un cambio di regime, mostrando però allo stesso tempo pietà per i morti, senza accanirsi contro il cadavere del suo aguzzino.

Secondo l'idea di virtù di Plutarco, le donne debbono sempre preferire la morte al disonore. Come in una lunga tradizione che risale alle eroine tragiche,  il sacrificio per la comunità o la patria è considerato un esempio di virtù. In Focide gli uomini, prima di combattere una guerra dagli esiti incerti, decidono di radunare e sorvegliare le donne nei pressi di una pira, su cui, in caso di sconfitta, sarebbero state immolate onde evitare che cadessero in mano nemica. La virtù delle donne, in questo caso, è dimostrata dal fatto che le donne avevano votato per approvare all'unanimità la crudele decisione degli uomini, dichiarandosi pronte a morire  in nome dell’onore familiare e cittadino. Questa scelta  kamikaze, per cui gli antichi coniarono l'espressione “disperazione focese”, appare estrema:  ad Atene e Sparta, come testimonia Plutarco nelle Vite parallele, esisteva l’usanza  di inviare le mogli al sicuro in una città nemica per tenerle al riparo dalle violenze della guerra.   

Plutarco narra inoltre di vicende che testimoniano  altri valori etici, come la solidarietà, la ‘sorellanza’, l’ospitalità: ad esempio nella storia delle donne di Anfissa. Qui giunsero, dopo aver girovagato prese dal furore bacchico, alcune tiadi (ovvero le addette al culto di Dioniso) tebane. Le donne di Anfissa, temendo che i propri mariti avrebbero inflitto loro violenza poiché provenivano da una città nemica, decisero di circondare le tiadi in silenzio per occultarle, di prestar loro soccorso e scortarle in sicurezza fino al confine, diventando un notevole esempio dell' ospitalità dovuta agli stranieri e di filantropia.

La virtù delle donne di cui parla Plutarco, dunque, non è una virtù specifica femminile, ma una virtù che realizza e rispetta i valori e le norme di una cultura patriarcale. Tuttavia, forse malgrado l'autore, il trattato ci offre una rassegna esemplare di forza, coraggio e resistenza di personaggi femminili a forme di violenza maschile purtroppo ancora abituali. 

 

Bibliografia essenziale:

Fabio Tanga (a cura di). Plutarco: La Virtù Delle Donne = Mulierum Virtutes. Leiden Boston: Brill, 2020. https://doi.org/10.1163/9789004409750.

 

 

Si definisce violenza contro le donne “qualsiasi atto di violenza di genere che si traduca o possa provocare danni o sofferenze fisiche, sessuali o psicologiche alle donne, comprese le minacce di tali atti, la coercizione o privazione arbitraria della libertà, sia che avvengano nella vita pubblica che in quella privata” (Risoluzione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite 54/134 del 17.12.1999)

In copertina: Lo stupro di Lucrezia, di Tiziano (1581). Sopra: Lucrezia di Leandro Da Ponte detto Leandro Bassano (1557 - 1622)