Tebe, la nota città della Beozia, era di nuovo afflitta dalla pestilenza. Non erano passati molti anni da quando il giovane Edipo aveva liberato la città e i suoi abitanti dalle costrizioni in cui li aveva obbligati la Sfinge,
la cantatrice crudele, la cagna canterina, la vergine profetica, il mostro. Per questo Edipo aveva avuto in dono dai maggiorenti e dagli abitanti di Tebe il regno e la regina. Li aveva salvati.
Ora la terra era di nuovo secca, le greggi abbattute, i ventri delle donne sterili. I Tebani, guidati da un anziano sacerdote, erano davanti alle porte del palazzo regale per implorare il loro re, il migliore dei re, il loro salvatore e padre, perché li risollevasse dalla nuova peste. E il loro re aveva già provveduto a far consultare l’oracolo per domandare con quali azioni o con quali parole avrebbe potuto proteggere la sua città.
Non c’erano azioni né parole, aveva detto l’oracolo, per curare i sintomi. Era necessario andare alla radice del male, portare alla luce le cause. E Edipo cominciò a ricercare e a coinvolgere tutta la città e anche i pastori della campagna nella ricerca.
Scoprì di essere lui, il salvatore, a portare i germi del male: si era macchiato, senza saperlo e senza volerlo, di trasgressioni gravissime. Erano queste macchie vergognose, il parricidio e l’incesto conseguente, che dovevano essere sanate per risanare la città.
Davanti alla verità Edipo si accecò e comincio una lunga erranza di espiazione.
L’Edipo re si può leggere anche così: come il dramma di una crisi totale, della natura e della società che obbliga a rimettere in causa le relazioni tra i cittadini e la qualità del potere o dei poteri.
Non importa se il sovrano abbia voluto o no il trauma, se sia stato consapevole o no delle proprie violazioni. Importante è che, nella crisi, il re metta in discussione la propria persona, ripensando i propri legami, i propri passi e le proprie azioni, che si impegni a scoprire le cause del male, anche quelle che non dipendono da lui e di cui non è il diretto responsabile.
Ci interroga ancora questa tragedia antica di Edipo e torna a interrogarci nella versione di Sofocle più che in quella di Freud: dove abbiamo sbagliato, noi cittadini e i nostri governanti? Cosa non abbiamo voluto vedere e neppure sapere? Come dovremo ripensare e riarticolare le nostre relazioni sociali? E i nostri affetti e i nostri equilibri ambientali ed economici?
Il male che crediamo di poter isolare ed escludere sta in ciascuno di noi, ci rivela ancora Edipo, ed è questo male nascosto nel nostro bene che dobbiamo scoprire e temere, rifacendo comunità, città, affetti, ponti di transiti e compensazioni. Non, mai, muri.
Milano-Pavia, 6 aprile 2020
Anna Beltrametti è professore ordinario di Letteratura greca e insegna all'Università di Pavia, ove tra l'altro dirige il Laboratorio di Drammaturgia antica: https://studiumanistici.unipv.it/?pagina=docenti&id=7 ; è componente del gruppo di ricerca 'Visioni del tragico'. L'immagine dell'articolo è tratta da Oedipus di Bob Wilson, qui al Teatro di Pompei, luglio 2018.