Ho riletto da poco uno dei più controversi romanzi di Elfriede Jelinek, Lust (trad. it. La voglia), scritto nella seconda metà degli anni Ottanta nel pieno dell’epidemia HIV.
Racconta la storia di Gerti, quarantenne sposata con un rispettabile dirigente di una cartiera e con un figlio pre-adolescente. Vivono in una tranquilla cittadina della provincia austriaca e il loro è un “normale” rapporto matrimoniale. Eppure, tra le quattro mura della loro casa, si consumano, ogni notte, atti di violenza. Hermann è terrorizzato dal contagio dilagante dell’HIV (“la nuova malattia”), non può più frequentare i bordelli con i suoi amici; deve così esercitare il proprio “piacere” in casa e sul corpo di moglie, le due propaggini materiali della sua proprietà privata – la terza è la fabbrica.
L’immagine di Gerti in casa è evocata nell’incipit del romanzo in cui Jelinek enfatizza volutamente il concetto del possesso: “Veli di tende dividono la donna in casa sua dagli altri che, come lei, possiedono case proprie ed effetti propri”. Gerti è passiva, si prende le botte di Hermann e non parla, il suo silenzio assordante, legato alla salvaguardia dell’etichetta cattolico-borghese, la rende complice degli eventi.
Gli amplessi domestici, così crudi da essere difficilmente sopportati dal lettore e dalla lettrice, vengono vivisezionati dall’occhio scrutatore Jelinek che, oscillando tra il sarcasmo e l’esperimento linguistico, restituisce un quadro atroce delle conseguenze che la paura del virus può provocare nel microcosmo domestico di una comune provincia austriaca, ma io direi occidentale.
Il virus diventa, mi sembra sia questo il messaggio di Jelinek, un pretesto per smascherare ciò che esisteva già “dietro le tende” dell’etichetta: una percezione esclusivamente sadica della sessualità umana e un annullamento dei rapporti interumani degenerati a pura e semplice appropriazione.
La paura di essere contagiati, di infettare e di essere infettati, l’essere immuni sono espressioni che, da un momento all’altro, siamo tornati a pronunciare. Siamo tornati cioè, con una frequenza disarmante, a utilizzare quelle che Brigitte Weingart ha chiamato, in una sua brillante pubblicazione sulle “immagini dell’AIDS”, Ansteckende Wörter, parole che infettano:
La duttilità del confine tra il parlare in modo letterale e il parlare metaforico non è una specificità del discorso legato all’HIV. Che qui lo si noti particolarmente è accentuato dal fatto che molti concetti appartenenti all’ambito dell’epidemiologia hanno superato il confine di questo campo specifico per essere utilizzati come metafore: infezione, trasmissione, diffusione, immunità e il virus, il più importante tra tutti i termini utilizzati per descrivere la causa scatenante della malattia.
Queste parole, scrive Weingart, hanno oltrepassato il campo dell’epidemiologia per assumere il ruolo di metafore che abitano già da tempo il nostro linguaggio e che, oggi, sono semplicemente “scoppiate” condizionando il nostro modo di comunicare.
È chiaro che l’HIV aveva, ed ha ancora oggi, una configurazione epidemiologica differente dal Covid-19, colpisce però il fatto che la cifra metaforica legata all’infettività sia sempre la stessa, che conduca ad analoghe conseguenze e che, nel caso di Lust, evochi l’immagine claustrofobica di uno stare “forzatamente” in casa: “Pretende da sua moglie, che lui foraggia e dalla quale viene rigenerato, che lo aspetti nuda sotto il mantello di casa quando si fa 20km di strada dal suo ufficio”.
Una violenza dell’ordinario che, come in una climax, porta Gerti ad innamorarsi di un giovane studente sportivo e aspirante politico – che si rivelerà essere esattamente come Hermann –, alla disperazione e all’infanticidio finale.
In Lust, il vocabolario dell’infettività non viene esplicitato ma scorre sotterraneo sotto la coltre di una trama perlopiù priva di eventi che prende il largo nel drammatico finale. Il conflitto lacerante tra la violenza “dentro casa” e un “fuori di casa” solo apparente e altrettanto claustrofobico – le Alpi innevate tutto intorno sono un altro muro invalicabile –, tra l’etichetta della moglie del direttore e la trasgressione adolescenziale rende Gerti un personaggio tragico, come tragica è la decisione che la donna prende per mettere fine alla disperazione: il figlio, che veniva imbottito di sonniferi e tranquillanti per evitare che entrasse nella camera da letto dei genitori, viene soffocato nel sonno con un sacchetto di plastica e il suo cadavere viene trascinato fuori, nel gelo della notte, e gettato in un ruscello, il "suo elemento originario".
Questo infanticidio disgraziato è stato letto dalla critica come una rivisitazione di Medea e come una reazione del “femminile” alla linea patriarcale. Dalla prospettiva “epidemiologica” di cui abbiamo parlato, esso contiene anche molto altro: l’atto di Gerti è il sintomo estremo della paura che le “parole infettanti” non pronunciate portano con sé, la reazione finale alla sopraffazione e al sadismo, la tragica conseguenza del contagio che il capitalismo, con la sua ossessione per la materialità, ha diffuso nel mondo degli affetti.
Su Elfriede Jelinek, scrittrice austriaca nata nel 1946, premio Nobel nel 2004, vedi qui. Nelle ultime due immagini: Maria Paiato interpreta Medea di Seneca, con la regia di Pierpaolo Sepe (2013/2014: vedi qui).
Giuliano Lozzi è germanista, autore di monografie e saggi, tra l'altro, sulla ricezione di Antigone, Margarete Susman, Ingeborg Bachmann. Marie Luise Kaschnitz e Elfriede Jelinek (da ultimo in 'Archivi delle emozioni'). Le traduzioni dei passi del romanzo sono sue.