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Da ventuno notti mi addormento da solo, in un letto diventato troppo grande per me, il tuo è diventato un letto di ospedale, il mio un eremo solitario e disperato.

Quaresima ha appena iniziato il suo cammino e da qualche giorno il ritrovarsi tutti a casa per contenere il contagio ti sembra un regalo inaspettato. Non sai ancora che l’ospite inatteso cova tra di noi, invisibile e subdolo. La febbre va e viene, la tua si mantiene per giorni e il tuo respiro è diventato corto, irregolare. Ti manca quel soffio vitale che può colmare la tua sete d’aria. Mi manca la lucidità di sentire il tuo corpo alla prova e un saturimetro per controllare l’ossigeno nel sangue.

Ci salutiamo sull’ambulanza, a distanza di sicurezza. Da questo momento i protocolli medici sono come diaframmi che si interpongono tra i nostri corpi. In ospedale con tac e lastre arriva la diagnosi di un attacco feroce di Covid-19 a entrambi i polmoni. Per pochi giorni riesci a comunicare solo con messaggi, poi il terzo giorno di ricovero ti attaccano al respiratore meccanico. Scende la notte, le comunicazioni si interrompono, mentre ti scrivo un ultimo messaggio: “anche tu mi manchi, ora dobbiamo abitare la distanza”.

Per lunghi giorni rimango a casa ammutolito, l’evoluzione della pandemia e dei lutti che si porta dietro di sé mi sconvolgono. Tu non lo sai ancora ma si sta modificando il paesaggio umano attorno a noi. Ce la faremo? Sono fiducioso ma non riesco sempre a praticare quella sorta di ottimismo forzato.

 L’ottimismo forzato è una delle malattie del nostro secolo: l’obbligo di mostrarsi sempre positivi, chiudendo gli occhi di fronte a tutto ciò che minaccia i fragili fili su cui si trova appesa la nostra felicità a buon mercato. Quanta psicologia da quattro soldi spinge in questa direzione! Mentre la vita cristiana è orientata verso quello che Emmanuel Mounier chiamava “l’ottimismo tragico”:  un  ottimismo radicale nell’esito ultimo del nostro pellegrinaggio, accompagnato però da una seria presa di coscienza delle nubi e degli ostacoli sul cammino. La fede cristiana prende sul serio la sofferenza e la morte.[1]

Sono giorni di estenuante prova e sconforto, ti portano in rianimazione per un repentino peggioramento della ventilazione. Mi dicono che la situazione è complessa e ci vorrà tempo. Il giorno dopo, senza che tu te ne accorga, ti trasferiscono a Como dove si è liberato un posto in terapia intensiva.[2] In quel reparto di dormizione si trova da qualche giorno anche don Fausto. Mentre un “angelo passa tra luce e luce”, nel silenzio della notte, se ne va anche il prete degli ultimi.

 Io non posso abolire il tuo destino, nemmeno impedire alla tempesta di abbattersi sulla nostra casa. Non sarò colui che mastica il tuo pane, beve la tua acqua, né mai respirerò per te.

“Amare è liberare l’altro dalle mie buone intenzioni – e da me stesso”, può sembrare un po’ eccessivo, tuttavia quello che posso fare ora, lontano da te, è solo assicurati la mia lealtà, non lasciar mai inaridire il dialogo tra noi. «Ascolta, come mi batte forte il tuo cuore».   

Sento il bisogno di pregare benché sono spesso refrattario alle proposte corali, voglio che sia una preghiera adulta, esigente, non consolatoria. Mi vengono in aiuto le parole di Simone Weil sul “Padre nostro”, nell’ultima invocazione che traduce: «e non gettarci nella prova, ma proteggici dal male», trovo un’illuminazione, come sperare/disperare in questo tempo di quarantena?

     La sola prova per l’uomo è di venire abbandonato a se stesso a contatto con il male. Il suo nulla, allora, viene verificato sperimentalmente. Benché l’anima abbia ricevuto il pane soprannaturale  nel momento in cui lo ha chiesto, la gioia in lei è mescolata al timore, visto che può chiederlo solo per il presente. L’avvenire continua ad essere temibile. Non ha diritto di domandare il pane per  il giorno dopo, ma esprime il proprio timore in forma di supplica. E così conclude. La parola «Padre» ha dato inizio alla preghiera, la parola «male» la porta a termine. Occorre andare dalla fiducia al timore. Solo la fiducia dà forza sufficiente perché il timore non sia motivo di caduta.[3]

 A casa, nella quarantena/quaresima con i ragazzi, sperimentiamo di giorno in giorno la possibile e necessaria relazione familiare ferita. Le notizie arrivano a piccole dosi, i reparti sono già in emergenza, non sempre si riesce a parlare con un medico. La parola ricorrente è “svezzamento respiratorio”. Cerco di rispondere alle amiche e agli amici che chiedono di te: stabile con piccoli miglioramenti, non sempre mi vengono le parole. Mi torna in mente la frase annotata da Etty Hillesum nel suo Diario: «BISOGNA ACCETTARE LE PROPRIE PAUSE».[4]

 Proprio come le cose più importanti della creazione quale può essere una gestazione, una scoperta o un’invenzione, hanno bisogno di tempo … così gli umani cammini hanno bisogno di tutto il loro tempo, ma anche di pause, di sospensioni e di rimandi. Il rallentamento del nostro ritmo consueto può essere un’occasione per “guadagnare in profondità” e per amplificare la nostra modalità di vivere le realtà cosi ampie e variegate della nostra vita. La sfida di passare dal galoppo delle emozioni e delle sensazioni alla pacata degustazione di ogni frammento di vita, anche quando è limitato dalla costrizione della situazione, diventa un compito per crescere in umanità. Il senso chiaro di fragilità può diventare l’occasione per cogliere l’essenziale e tenersi pronti a tutto, anche a ciò che ci sconvolge …  [5]

 Il primo giorno di primavera ci annuncia la tua rinascita, non sei più intubata e sedata, inizia la tua risalita dalla notte buia e profonda: “bisogna andare nelle tenebre a cercare una nuova luce.” Il medico dice che stai rispondendo bene, è ottimista anche se “non possiamo ancora cantar vittoria”, potrebbe tornare inverno da un giorno all’altro. Le stagioni sono tonde, intermittenti, ciò che chiamo primavera rompe quel cerchio, qualcosa che può accadere in ogni momento per interrompere, spezzare, liberare.

 Ciò che chiamo la primavera non avviene senza lacerazioni. È una cosa dolce e violenta. Non dovremmo essere sorpresi di questa miscela. Se lo siamo, vuol dire che la vita ci rende distratti. Non facciamo abbastanza attenzione. Se guardassimo bene, se osservassimo con calma, saremmo spaventati dalla regalità della più piccola pratolina: sta lì, semplicissima, tutta gialla. Per stare lì, ha dovuto attraversare morti e deserti. Per stare lì, così minuta, ha dovuto ingaggiare battaglie senza pietà. Ciò che io chiamo la primavera è una cosa che luccica come una prataiola o come un lottatore grondante sudore. Nulla di tranquillo né di preconquistato.[6]

Chi può fermare la primavera? Da poche ore sei ritornata allo stato di coscienza, ripreso le funzioni e il tuo soffio vitale con l’aiuto di una mascherina per l’ossigeno. Ci vorrà ancora tempo per tornare a casa ma sentire la tua voce fragile è come una preghiera quotidiana, nell’eremo della casa si torna a sperare giorni migliori. Questa sorta di luna di miele amaro ci ha già cambiati, soltanto il nostro lato migliore ci salverà.

È scritto nel Cantico dei Cantici che “l’amore è più forte della morte” ma una diversa traduzione dice che “soltanto l’amore è capace di mutazione”.

Fabio Amigoni è educatore e pedagogista presso la cooperativa sociale «Il Cantiere» (Albino – BG), collabora con la Fondazione Serughetti Centro Studi e Documentazione La Porta di Bergamo (www.laportabergamo.it).

 

Le immagini: 
Mimmo Paladino, Via Dolorosa, Stazione I
 
Marc Chagall Cantico dei Cantici, IV
 

 

 

[1] Michael Davide Semeraro osb, Comunità Koinonia de la Visitation, Rhĕmes-Notre-Dame (Valle d’Aosta) www.lavisitation.it/blog/2020/03/13/siamo-tutti-malati-di-umanita/

[2] La polmonite provocata dal nuovo coronavirus è molto diversa dalle comuni polmoniti perché non colpisce gli alveoli, ma direttamente il sistema vascolare che permette l’ossigenazione del nostro sangue. In mancanza di adeguate terapie farmacologiche, la terapia intensiva si rivela al momento l’arma migliore per mantenere in vita i pazienti più gravi. Purtroppo è una risorsa limitata, anche nei sistemi sanitari più avanzati come il nostro.

www.raiplayradio.it/audio/2020/03/RADIO3-SCIENZA-Soffio-vitale-01e70968-5764-4834-ab0f-62c19da34d70.html

[3] Simone Weil, À propos du Pater, trad. di D. Canciani e M.A. Vito in Padre Nostro, Castelvecchi, 2015

[4] Etty Hillesum, Diario, Adelphi 2013, p. 797 e p. 155.

[5] Michael Davide Semeraro, cit.

[6] Christian Bobin, L’equilibrista, Servitium, 2005, p. 31.