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Continuiamo una discussione aperta su questo blog (http://www.visionideltragico.it/blog/covid-19/visioni-del-tragico-covid-19), sulla scia della conclusione dell’intervento di Plinio Innocenzi: «La nostra impotenza di fronte alle grandi sfide globali ha mostrato come la conoscenza settoriale non ci permette di affrontare la complessità del mondo. L’università dovrà essere al centro di una piccola rivoluzione in cui gli scienziati delle generazioni future dovranno avere la capacità di dialogare con i saperi e le discipline più diverse. Umanisti scienziati e scienziati umanisti, con molta umiltà e il grande desiderio di spostare sempre più avanti la frontiera della conoscenza.» (http://www.visionideltragico.it/blog/covid-19/la-scienza-in-tempo-di-crisi-nel-terzo-millennio) Ringraziamo perciò Valentina Gazzaniga per questo intervento, che ci richiama alla necessità di una componente umanistica anche nella formazione dei medici. Per altre informazioni e contenuti si rinvia al sito web: http://www.quaderni-conferenze-medicina.it/sisumed-una-nuova-sfida-per-le-scienze-umane-in-medicina/

La letteratura internazionale, sebbene si sia da decenni occupata della definizione e del ruolo possibile da attribuire alla scienze umane nella formazione del medico, ha fornito solo di rado contributi effettivamente innovativi, che non indulgano a un mero atteggiamento compiacente o, peggio, all’idea che la competenza ‘umanistica’ sia una decorazione elegante per il medico in formazione, ma non una necessità pedagogica sostanziale nella definizione dei curricula medici.

Il recente rinnovato interesse nei confronti delle soft skills, abilità trasversali volte a migliorare le prestazioni lavorative e a ottimizzare il clima in cui esse si svolgono, sembra imprimere una nuova direzione al dibattito scientifico.

Gran parte delle riflessioni che gravitano attorno alle Scienze Umane in medicina tendono a porre l’accento sulle criticità del sistema formativo biomedico, a cui viene imputato il fenomeno di depersonalizzazione e reificazione del paziente e della ‘commercializzazione’ delle professioni mediche.

Molto più rare sono le riflessioni e le proposte volte a strutturare linee guida condivise che possano condurre alla costituzione di programmi formativi adeguati all’interno delle diverse scuole mediche. Molti contributi evidenziano, infatti, le difficoltà incontrate nella misurazione dell’impatto delle Scienze Umane in medicina nei percorsi formativi, sottolineandone la fumosità e indeterminatezza, la cui causa è attribuita in genere alla loro spiccata vocazione interdisciplinare. Diversi autori manifestano un’allarmante preoccupazione in merito e dichiarano che la mancanza di prove quantitative riguardanti l’efficacia dell’insegnamento delle Scienze Umane in medicina può comportare la svalutazione dell’utilità di un approccio inclusivo nei percorsi di studio. Gli stessi studi riconoscono la quasi impossibilità di misurare l’impatto e l’efficacia formativa delle Scienze Umane in medicina attraverso strumenti sinora adottati nell’educazione medica, individuando ostacoli metodologici probabilmente insormontabili a causa della ampia pluralità di possibili confondenti.

Da ciò discende una palese criticità nella misurazione dell’impatto formativo, che tuttavia non esclude la necessità di maggiore chiarezza in merito ai fondamenti epistemologici, fini, metodi e strumenti da utilizzare nella formazione degli studenti nel campo delle Scienze umane.
Un’interessante osservazione di Clayton J. Beker ed altri del 2017  propone un approccio di valutazione complesso, che non utilizzi soltanto un metodologia empirica, numerica e tassonomica ma che possa accostare ad essa la raccolta di narrazioni sull’esperienza individuale degli studenti di medicina.


Oltre queste problematiche metodologiche, il punto in cui sembra possano confluire le diverse prospettive sulle Scienze umane in medicina è il riconoscimento della necessità di accogliere due assunti fondamentali che ne definiscono l’utilità: da un lato, il bisogno di riconoscere una visione che possa storicizzare l’arte medica eurooccidentale, cercando di capire come il mondo medico viene a comporsi quale forma distinta di realtà per chi si accinge a immergersi nello studio della medicina; dall’altro, la consapevolezza degli avanzamenti conoscitivi e operativi della biomedicina che, se hanno consentito l’espansione della Sanità Pubblica nella sfera globale determinando un notevole controllo rispetto alle patologie infettive, hanno anche favorito, insieme a processi di altro ordine e grado, il conseguente e progressivo emergere di altre patologie come quelle degenerative, verso le quali i modelli virtuosi di lavoro scientifico sembrano aver perso gran parte del loro mordente.

Al contrario e contemporaneamente, cresce la necessità dello studio e dello sviluppo della compliance fra professionista e paziente.

Nel suo celebre studio, La nascita della clinica, Michel Foucault riconosce criticamente come il nucleo della biomedicina si fondi su un logos di “visibilità” empirica del corpo e della malattia. La medicina scientifica e la formazione medica basano, secondo questo modello, il loro sguardo sul paradigma empirista che guarda al corpo come a una cosa in un mondo di cose. Segni e sintomi, allora, vengono messi in relazione con la ripetizione della frequenza di malattia. Dunque, decriptati dal significato individuale, segni e sintomi divengono significanti: la patologia assume un significato prestabilito.

È quindi evidente quanto il processo di costruzione dell’idea di paziente quale oggetto dell’attenzione medica significa sottoporre lo studente a un lavoro di plasmazione culturale. A partire dalla consapevolezza della necessità di implementare questo lavoro culturale all’interno del percorso formativo biomedico è semplice comprendere l’importanza delle Scienze Umane in Medicina per arrivare, come suggerisce A. Bleakely, alla dereificazione e de-oggettivazione del paziente.

Se dunque è chiaro quanto nei documenti ufficiali della professione medica, sia nazionali che internazionali, da tempo si invochi un’evoluzione della medicina chiamata al compito gravoso ma ineluttabile di conciliare il progresso biomolecolare e lo sviluppo tecnologico con il recupero di una visione della cura e di chi è curato orientata alla complessità, l’approccio metodologico allo sviluppo congiunto di competenze riflessive di sensibilità globale rimane tuttora problematico. Ciò non toglie però che il vasto dominio delle discipline ricomprese negli ambiti delle Scienze Umane in medicina (in letteratura anglosassone, Medical Humanities: storia della medicina, filosofia della medicina, bioetica, antropologia culturale e antropologia medica, museologia medica e della sanità, storia della sanità pubblica, sociologia della medicina, storia della biologia, storia delle neuroscienze, filosofia della biologia, neurofilosofia, pedagogia medica, paleopatologia) e dei rispettivi metodi di indagine sembra avere le caratteristiche necessarie a garantire gli esiti di ricerca, di formazione e di applicazione necessari alla sfida.

Le scienze umane possono aiutare a focalizzare quali strumenti culturali siano effettivamente utili al medico del futuro, chiamato a fronteggiare sfide importanti: l’aumento crescente delle disuguaglianze in salute, delle diseguaglianze in relazione al genere, l’epidemia globale delle patologie croniche e la complessità della loro gestione in un contesto di crescente disagio socio-economico, unitamente ai cambiamenti culturali, socio-demografici legati all’invecchiamento della popolazione e a movimenti di popolazione, sono tutti componenti che, ci sembra, contribuiscono a rendere necessaria una riflessione strutturale sui campi di applicazione clinica del concetto di equità in salute.

Queste premesse pongono l’urgenza di incentivare e incrementare, nel percorso formativo dei medici e dei professionisti della salute, un approccio interdisciplinare e multidimensionale.


La strada intrapresa dalla Società Italiana di Scienze Umane in Medicina (SISUMed) rispetto alla promozione di un perfezionamento del percorso formativo appare dunque attuale e necessaria: essa prevede la costruzione di esperienze di sviluppo e diffusione di conoscenze avanzate di interesse multi e transdisciplinare, finalizzate a ottenere standard educativi sempre più alti e a monitorare costantemente processi di apprendimento che abbiano ricadute concrete nel garantire alle prestazioni sanitarie livelli intellettuali, professionali e etici elevati, a garanzia della comunità medica e dei pazienti che ad essa si affidano.

Velentina Gazzaniga è professore ordinario di Storia della medicina presso il Dipartimento di Scienze e Biotecnologie medico-chirurgiche dell’Università di Roma La Sapienza (https://web.uniroma1.it/dsbmc/dipartimento/persone/professore-ordinario/gazzaniga-valentina)

 

Bibliografia:

Belling C, Commentary: Sharper Instruments: On Defending the Humanities in Undergraduate Medical Education. Academic Medicine 2010;85(6):938-940

Bleakley A, When I Say… the Medical Humanities in Medical Education. Medical Education 2017;49(10):959-960

Charon R, Commentary: Calculating the Contributions of Humanities to Medical Practice-motives, Methods, and Metrics. Academic Medicine. Journal of the Association of American Medical Colleges 2010;85(6):935-937.

Foucault M., Nascita della clinica. Un’archeologia dello sguardo medico. Torino: Einaudi; 1998.

Le immagini: incisione di Ivo Saliger: il medico lotta con la morte e la vince. - La vaccinazione in un villaggio moravo, incisione su legno, 1886, da un disegno di Wilhelm Groegler (1839–1897) - Locandina di uno degli incontri di Fermenti. Conversazioni tra scienze e discipline creative, tenute al MAXXI di Roma nel maggio 2016. -  Jota Mombaça Das Ende als Zwischenspiel , immagine d'apertura del testo che si può leggere sul sito del teatro berlinese Hebbel am Ufer: https://www.hebbel-am-ufer.de/das-ende-als-zwischenspiel/