Come suggerisce il titolo italiano del romanzo L’ora di greco della scrittrice coreana Han Kang, premio Nobel per la letteratura 2024, tradotto da Adelphi dieci anni dopo la sua prima uscita nel 2011, il romanzo ruota attorno all’insegnamento del greco antico (più esplicito il titolo inglese: Greek Lessons).
Una donna coreana ha perso improvvisamente l’uso del linguaggio e lo recupera, una prima volta, ascoltando una parola francese, ‘Bibliothéque’. Quando il disturbo invalidante torna di nuovo, la donna decide di studiare greco antico, con la speranza di poter recuperare la propria capacità espressiva attraverso l’uso di un’altra lingua a lei totalmente estranea.
Il suo insegnante di greco è un coreano tornato in patria dopo molti anni in Germania. Sta perdendo la vista e cerca una maniera per continuare a restare in contatto con la realtà che per lui sta inesorabilmente sprofondando nel buio.
La donna sceglie il greco antico perché crede, imparando proprio quella lingua, di poter nuovamente imparare a parlare. L’uomo, invece, ha studiato il greco per i suoi contenuti, specialmente la filosofia platonica. Insegnando greco, capisce che la lingua può essere non soltanto capita attraverso la ragione, ma sentita attraverso tutte le possibili percezioni del corpo. Solo trasmettendo queste sensazioni può davvero insegnarla. Tra lui e i suoi studenti, tra cui la donna, si stabilisce un flusso continuo di emozioni, di vicinanza e di distacco, di comprensioni e incomprensioni, di apertura e di chiusura. L’insegnamento del greco si rivela un’esperienza, anzi l’unica vera esperienza possibile per giustificare la propria esistenza.
Sia nel caso della donna che nel caso dell’uomo, anonimi per tutto il romanzo, la lingua antica, paradossalmente definita morta nell’uso quotidiano, svolge un ruolo attivo e vivificante: libera da due diverse disabilità fisiche, fa vedere ai sensi quel che l’uomo non è più in grado di vedere, dice agli altri quel che la bocca non riesce più a pronunciare, inclusi i sentimenti.
La lingua, dunque, e specificamente qui il greco, non è un sistema logico-grammaticale, ma uno strumento che coinvolge tutte le percezioni umane. Il linguaggio risulta perciò essere una delle tante maniere che l’uomo, concepito come entità biologica, ha sviluppato progressivamente per mantenersi in vita e per adattarsi all’ambiente in cui si trova. Le parole non sono astrattamente prodotte dalla ragione o dal cervello, ma si sono sviluppate attraverso una catena e un processo di elaborazione inconscia, che coinvolge tutte le zone sensoriali dell’essere umano, quelle che non vediamo e sono dentro di noi e quelle che conosciamo con il contatto con le cose attorno a noi, attraverso il gusto, l’olfatto, il suono e la vista.
Perciò le parole sono ‘qualcosa’ che c’è dentro di noi e che cerchiamo perché abbiamo bisogno di stabilire relazioni con il mondo. ‘Qualcosa’ che appartiene all’essere umano, al punto che possiamo ipotizzare una memoria del corpo che trova le parole in momenti di bisogno, come se le avessimo da sempre dentro di noi: in fin dei conti, imparare una lingua significa ricordare, poiché significa adattarsi ad una situazione, così come da sempre l’uomo si è adattato al mondo in cui si trova.
E dunque perdere la lingua è un aspetto della fragilità umana, di un’improvvisa mancanza del ricordo di come si fa a vivere, ad amare, a resistere alla morte. Il procedimento è lo stesso che si può avere quando si perde l’uso di facoltà elementari per la sopravvivenza, come piegarsi o saltare per evitare un ostacolo, nascondersi per difendersi, abbracciare per manifestare amore.
Non c’è nulla di solo razionale nel linguaggio, come non c’è nulla di razionale, di puramente razionale, in ogni attività dell’essere umano. I due protagonisti cercano nell’imparare il greco antico non un esercizio intellettuale, ma una maniera per superare la loro non voluta disabilità fisica. Ritrovare la lingua significa ricominciare a vivere.
Di converso, nel momento in cui gli oggetti/parola non funzionano più diventano pericolosi, perché sono in grado di ferire oppure uccidere chi li porta dentro di sé, proprio come quando un organo funziona male o smette di farlo. Viene in mente una celebre ma enigmatica espressione del poeta tedesco Friedrich Hölderlin: ‘La parola greco-tragica è mortalmente fattuale, poiché uccide realmente il corpo di cui prende possesso’. Nel corpo sensibile la parola è carne viva, è un processo fisico, come il respiro, ci tocca nel vero senso della parola, ci tormenta in sensazioni di nodo alla gola, di battito accellerato, di insonnia. La parola, che prende possesso di noi, da cui non sappiamo distanziarci, può anche arrivare ad ucciderci.
Ecco cosa accade alla protagonista del romanzo di Han Kang:
Le parole annotate alla fine del diario si rimescolavano liberamente come dotate di una volontà propria, dando forma a frasi sconosciute. Ogni tanto, parole aguzze come spiedi le trafiggevano il sonno e si svegliava di soprassalto, a più riprese nell’arco di una stessa notte. Meno dormiva, più i suoi nervi si facevano pericolosamente sensibili; a volte, un dolore indescrivibile le comprimeva la bocca dello stomaco come un ferro rovente. Ma la cosa più penosa di tutte era che sentiva con una chiarezza agghiacciante ogni singola parola che le usciva di bocca. Perfino la frase più banale lasciava intravedere con la trasparenza del cristallo perfezioni e imperfezioni, verità e inganno, bellezza e bruttezza. Lei si vergognava di quelle frasi, che si dipanavano bianche come ragnatele dalle sue mani e dalla sua lingua. Le veniva da vomitare. Le veniva da gridare.[1]
La donna diventa incapace di parlare perché in lei si è interrotto quel processo di elaborazione che dalla sensazione fisica porta all’espressione vocale. Le parole le restano dentro, non riesce più a pronunciarle né a scriverle. L’espressione di quel che ha nel cuore le diventa impossibile. Le lettere, i segni complessi dell’alfabeto coreano, che le avevano dato felicità nel momento in cui lei bambina imparava a scrivere proprio per le loro potenzialità sonore ed espressive, per le complesse metafore concettuali che riuscivano a racchiudere in un simbolo solo, diventano pugnali, spilli, incidono così profondamente da separarla dal mondo.
Una lingua sfilacciata nel corso di migliaia di anni da un numero incalcolabile di parlanti e scriventi. Una lingua che lei stessa, parlando e scrivendo, aveva sfilacciato tutta la vita. Ogni volta che stava per pronunciare una frase, ne sentiva battere il cuore antico. Un cuore rattoppato, prosciugato, inespressivo. E più lo sentiva, più stringeva le parole tra le dita. Finché a un certo punto la presa si era allentata. I cocci spuntati erano caduti ai suoi piedi. Gli ingranaggi, che prima giravano incastrandosi alla perfezione, si erano fermati. Una parte di lei, logorata dalla lunga e dura resistenza, era venuta via come carne, come tofu tagliato con un cucchiaio [2].
La cura per arrestare questo processo di consunzione del sé può essere imparare un'altra lingua, sollecitando il corpo, la sua memoria, le sue sensazioni emotive, specie una lingua complessa ed estranea, anche nei segni fonetici, come quella greca antica. Quanto più il ricordo è difficile, tanto più ritrovarlo implica sollecitare tutte le nostre sensazioni, tutte le nostre esperienze, quelle di cui sappiamo ma anche quelle di cui siamo inconsciamente depositari, perché sepolte dentro di noi. Non è un procedimento semplice né indolore, perché nessuna esperienza umana può dirsi immune dal dolore.
La parola è un oggetto appuntito, che si annida nell’essere umano, lo dilania come un pugnale. Ogni parola è un parto, pronunciarla significa darle una forma ma anche rendersi conto della sua ambivalenza, che può essere buona o cattiva, bella o brutta. Produrre parole significa espellere qualcosa che si ha dentro, un corpo estraneo, un filo, una ragnatela: parlare produce vergogna. La vergogna di aver rivelato qualcosa che si vorrebbe per sempre celato in una parte recondita di noi.
La metafora è lo strumento linguistico per poter descrivere la fisicità della parola. Il romanzo prende l’avvio da un’espressione metaforica di Jorge Luis Borges:
«C’era una spada tra noi»: prima di morire, Borges aveva espresso il desiderio che sulla sua lapide venissero incise queste parole. (…) Uno studioso ha definito quella breve epigrafe «un simbolo potente e affilato». Secondo lui sarebbe un’importante chiave di accesso alla scrittura di Borges – la spada che separa il suo stile dal realismo letterario del passato – ma a me sembra una confessione estremamente pacata e personale. (…) La frase rimanda a una leggenda della mitologia nordica: la prima notte che un uomo e una donna trascorrono insieme, che sarà poi anche l’ultima, tra loro viene adagiata una spada fino all’alba. E cos’altro potrebbe rappresentare quella lama potente e affilata, se non la cecità che si frappose tra il mondo e Borges nei suoi ultimi anni di vita?
La voce narrante, l'insegnante che sta diventando cieco, interpreta così la ‘spada’ dell’enigmatica epigrafe che Borges volle sulla sua tomba. Rapporta dunque alla propria esperienza corporea la metafora, ma questa ammette molte altre spiegazioni. Come mostra la vicenda della donna al centro del romanzo di Han Kang è il linguaggio stesso, la parola, a poter essere una spada che separa dal mondo, dalla realtà, dagli altri. Così il romanzo finisce con il raccontare l’impossibilità di due esseri umani di amarsi, di superare le barriere fisiche e dunque anche psicologiche che li stanno spegnendo.
Tra le altre cose che il romanzo ci dice è che insegnare una lingua non significa affatto enumerare regole grammaticali e sintattiche. Imparare una lingua, greco antico incluso, non ‘allena il cervello’ né ‘la mente’, né serve per imparare logiche di costruzione retorica degli argomenti o di comportamenti 'universali'. Insegnare e imparare una lingua significa mettere in gioco la memoria del nostro corpo. Significa assecondare sensazioni indispensabili alla sopravvivenza. Adattarsi al mondo. Per questo, nessuno può imporci di imparare una lingua che non sia quella nostra ‘materna’, se non la sentiamo, se non è in qualche maniera, senza che lo sappiamo, scritta nel nostro corpo.
Chi non avverte questo processo emotivo, coloro per i quali insegnare e imparare il greco (o qualsiasi altra lingua) non è un’emozione fortissima, non ne avranno alcun vantaggio, ma anzi si sottopongono ad una inutile tortura.
[1] Han Kang 2023, p. 11-12 (dell’edizione Kindle)
[2] Han Kang 2023, pp. 136-137 (edizione Kindle).