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E’ un dato di fatto che, a partire dall’inizio dell’800, il testo dell’Antigone di Sofocle sia servito per l’esercizio filosofico. È un altro dato di fatto che questa appropriazione del testo di Sofocle da parte della filosofia abbia finito spesso per eclissare il suo aspetto più propriamente drammaturgico e teatrale. Una via per conciliare riflessione sul testo e aspetto performativo si trova in quello che forse è il più influente libro sull’Antigone degli ultimi vent’anni, La rivendicazione di Antigone di Judith Butler, apparso nel 2000.

In questo libro è centrale il concetto di performatività (performativity). Come è forse noto, Butler arriva allo studio dell’Antigone di Sofocle attraverso la riflessione sulla parentela e sul genere. Butler riprende perciò criticamente Hegel e Lacan, i quali, seppure in maniera diversa, leggono l’Antigone come la contrapposizione tra la preesistente parentela e lo Stato, come se i rapporti di parentela si potessero comprendere fuori dalla società. Butler mostra come le letture precedenti dell’Antigone siano viziate dall’idea che i rapporti di parentela, così come le categorie di genere, siano fissi e interiori; parentela e genere, invece, sono comprensibili solo come manifestazione in un contesto sociale: il genere è dunque un ‘performativo’, ossia non corrisponde a un’essenza interiore dell’essere umano, ma ad una serie di atti, che vengono in continuazione ripetuti, reiterati. Il che vuol dire che i rapporti di parentela e il genere non esistono indipendentemente dallo Stato, né gli si oppongono, ma si compenetrano con esso. Nell’ Antigone di Sofocle, secondo Butler, si mostra la performatività sociale della parentela e del genere.

Il termine ‘performatività’ usato da Butler dipende in primo luogo dalla teoria degli speech acts di John L. Austin ( How to Do Things with Words, 1962). A partire da Austin la riflessione sulla performance, o per meglio dire sul linguaggio della performatività, è diventata decisiva nella comprensione dell’impatto del linguaggio nei rapporti sociali: il linguaggio non serve ad enunciare o a descrivere, ma a ‘fare’, a compiere un’azione. Nella vita quotidiana, azioni compiute attraverso il linguaggio sono ad esempio battezzare, sposarsi, chiedere scusa, promettere. L’analisi di Butler di questo tipo di ‘performatività’ nell’ Antigone di Sofocle porta a delle interessanti osservazioni: ad esempio a rimarcare come Antigone non si contrapponga a Creonte, ma al contrario usi il suo stesso linguaggio, che è quello della forza e della virilità. Se la parola di Creonte è legge, anche la parola di Antigone è legge, è ‘la voce della legge quando agisce contro la legge’. Perciò Creonte la definisce ‘un maschio’. Antigone dunque non rappresenta la parentela o il genere, secondo la lettura di Hegel o del femminismo, ma piuttosto la violazione sia della parentela che del genere. Si può aggiungere che se pensiamo che Antigone era impersonata da un attore maschio, la violazione del genere era esplicita già nella stessa performance antica. Antigone, dunque, ‘performa’ se stessa come ‘sorella’, ‘figlia’, ‘donna’, ‘uomo’, a seconda dell’occasione. Forse occorre brevemente notare che così Antigone finisce per ‘performare’ le categorie studiate dalla sua interprete o detto più semplicemente: non si può negare un meccanismo di identificazione esistenziale e morale di Judith Butler con Antigone, un meccanismo che scatta in varie performances contemporanee della tragedia. Posso citare, ad esempio, Antigone a Scampia (2014), un esperimento teatrale nella periferia di Napoli, dove delle adolescenti hanno messo in scena sé stesse attraverso Antigone e Antigone attraverso sé stess

L’analisi di Butler ha però un’altra conseguenza. Servendosi di categorie di filosofia del linguaggio, Butler conferma il fenomeno noto agli studiosi di teatro greco per cui in scena accade poco o nulla, poiché le azioni, nella tragedia greca, sono atti linguistici: essi sono infatti spesso solo raccontati. Nell’ Antigone, ad esempio, non si vede in scena la sepoltura del fratello, ma essa è raccontata per due volte dalla guardia. Inoltre, attraverso le considerazioni di Butler siamo portati a riflettere sull’importanza in questa tragedia della pura affermazione di aver compiuto un’azione. Nell’ Antigone, infatti, risulta fondamentale che Antigone ammetta di aver compiuto l’atto della sepoltura, proprio per sciogliere qualsiasi ambiguità su chi ne sia stato davvero l’autore. Anche Ismene crede di potersi attribuire il fatto solo dichiarando di averlo commesso, ma Antigone non glielo permette.

Butler con acutezza conferma insomma come il linguaggio della performatività abbia un impatto sociale e collettivo, che è un fenomeno noto a chi studi la retorica nell’antichità. L’esercizio di retorica antico è proprio l’esercizio che insegna ciò che si può fare attraverso le parole, i gesti, gli atteggiamenti ad esse correlati. Tutta l’oratoria pubblica antica è incomprensibile senza l’analisi del suo aspetto performativo, anche ben oltre la polis democratica. Senza la pratica e la forza delle parole, nessuno può esercitare il potere. La tragedia greca, non solo l’Antigone, usa lo stesso linguaggio performativo della retorica. La sua efficacia e la sua capacità persuasiva dipende dal fatto che il discorso della tragedia sia destinato alla performance pubblica in teatro. Credo però si debba riflettere sul fatto che, come ogni singolo oratore, così ogni personaggio tragico sulla scena parla per sé stesso, possiamo dire che perora la propria causa, e l’efficacia del discorso non si mostra nell’esito del confronto dialogico tra i personaggi, ma tra i loro discorsi e il pubblico. Il pubblico infatti autonomamente decide quale discorso sia più convincente e si fa giudice delle posizioni espresse dai personaggi, come in un processo. Questo fenomeno mi sembra esasperato nell’ Antigone: tra Creonte ed Antigone non c’è alcuna dialettica, anzi nessuna comunicazione, e del resto Antigone lo puntualizza: ‘tutto quel che io dico non ti piacerà, e così il contrario’ (vv. 520-522). Forse questa autonomia dei discorsi tragici si comprende meglio se pensiamo ai modi della re-performance delle tragedie dopo il V sec. a.C..

Sappiamo infatti che gli oratori del I e II sec. d.C. ripetevano i loro discorsi in diverse occasioni e davanti a pubblici diversi; essi disponevano nel loro repertorio di una serie di ‘pezzi’ la cui efficacia era sperimentata e che riutilizzavano quando sembrava loro necessario o quando lo esigeva magari l’importanza della situazione. Questo fenomeno non è estraneo alla tragedia greca, di cui, una volta che le parti più legate alla performance musicale e di danza, ossia le parti del coro, furono sentite come obsolete, rimasero invece ‘i nervi e le ossa’, come li chiama metaforicamente Dione Crisostomo: ossia i discorsi ritenuti retoricamente più efficaci, che erano studiati e recitati ad alta voce anche nelle scuole di retorica. Tutta la fortuna di Euripide in età imperiale, ad esempio, è segnata da questo riuso, ripetizione, di alcuni discorsi. Se però torniamo alla tragedia, occorre riflettere sul fatto che la performatività, ossia l’efficacia, della parola tragica va specificamente compresa nel contesto performativo teatrale. Non che nell’oratoria non mancassero elementi estetici: anche per l’oratoria contava il luogo dell’esecuzione, l’abbigliamento, la claque che accompagnava gli oratori, talvolta i loro travestimenti. Una performance estrema, se vogliamo credere a Luciano di Samosata, fu quella di Peregrino Proteo, che si dette fuoco pubblicamente. Gli studi di Erika Fischer-Lichte avrebbero dovuto insegnarci ormai da tempo che bisogna guardare anche al teatro greco come ad un ‘evento’ nel senso contemporaneo del termine, ossia alla compartecipazione di tutti gli elementi ed in primis del pubblico. La tragedia greca, cioè, è indissociabile dal fatto di essere un ‘concorso tra cori’, in cui canto, musica, maschere, gesti, ambientazione, odori, giocavano un ruolo ineludibile, come ineludibili sono, per chi studia teatro antico, le risultanze delle ricerche archeologiche sui teatri.

Premesso questo, la mia domanda, partendo dalla categoria di ‘performatività’ di Austin e Butler, è in che misura la parola tragica, a cui si accompagnavano tutti questi elementi della performance, possa davvero dirsi efficace. Torno perciò ancora all’ Antigone, approfondendone la performatività. L’atto performativo può non essere simultaneo alla parola: vi sono conseguenze della parola che si estendono nel tempo. E quello che Austin chiama ‘perlocuzione’. ‘L’atto perlocutorio rinvia alle conseguenze non necessarie dell’atto illocutorio felice’, dice Austin. La formula rituale del matrimonio, ad esempio, assicura che il contratto di matrimonio è stato stretto, ma non che quel matrimonio durerà per tutta la vita. Anche l’atto linguistico performativo più ‘felice’, dunque, e riuscito può contenere la determinazione della sua più grande infelicità. Noi possiamo allora dire che l’Antigone di Sofocle porta in scena la sospensione temporale che sta tra la parola e la sua realizzazione finale. La parola di Creonte è legge; il suo editto prescrive la non sepoltura di Polinice e la morte per chi cerchi di seppellirlo. La sua parola si realizza, perché il cadavere resta insepolto e Antigone muore. Ma le conseguenze della parola di Creonte non sono immediate: esse si rivelano solo alla fine, quando Emone, il figlio di Creonte, ed Euridice, la moglie, si suicidano. Creonte è colpevole di queste due morti, e lo dichiara senza ambiguità: ‘Io, io ti ho ucciso, proprio io!’; alla fine chiede ai servi di portarlo via, lui che ha ucciso sia il figlio che la moglie. Le conseguenze della sua parola, che è ‘felice’ nell’immediato, hanno come effetto nel tempo l’infelicità suprema, poiché con il suo editto Creonte ha sancito la fine e la rovina definitiva della famiglia che voleva invece tutelare. Nell’ambiguità e nell’incertezza delle conseguenze di un’azione apparentemente riuscita sta l’elemento tragico (nel nostro senso) della vicenda; nel lasso tempo che sta tra la parola e le sue conseguenze si situa l’azione drammatica.

Sorge allora un’altra domanda: l’efficacia della parola tragica andava oltre lo spazio temporale della rappresentazione? Andava oltre cioè l’occasione della rappresentazione in teatro? E se si, in che senso? Nelle difficilissime note all’Antigone di Friedrich Hölderlin si legge: Das griechischtragische Wort ist tödtlichfachtisch, weil der Leib, den es ergreifet, wirklich tödtet, ossia: la parola greca tragica è fattivamente apportatrice di morte, perché uccide davvero il corpo che afferra’. La parola greca, per Hölderlin, non colpisce psicologicamente colui a cui è diretta, ma lo colpisce materialmente, nel corpo, uccidendolo oppure inducendolo ad uccidere. Questo accade nell’ Antigone, poiché sono le parole di Creonte ad uccidere Antigone, Emone, Euridice e in fin dei conti sé stesso. Se ripensiamo a tutta la vicenda mitica, sono le parole di maledizione di Edipo ad uccidere i figli maschi, così come è la parola divina ad annientare Edipo. La parola tragica diventa re-performance della morte, e forse questo voleva dire Hölderlin, che ci induce a ripensare la forza delle parole tragiche oltre la temporalità della loro enunciazione.

Fino a quando, dunque, si estende il tempo della performance? Detto diversamente: le possibilità di azione della parola tragica si estendono anche al pubblico dopo la rappresentazione? Hölderlin suggerisce come la parola greca sia ‘fattiva’, factisch: ‘la parola diventa più mediatamente fattiva, in quanto afferra un corpo più sensibile’, e perciò ‘il copro che essa afferra uccide effettivamente’. In questo pericolo insito nella parola greco-tragica c’è una profonda differenza con la parola tragica moderna: sulla scena moderna, infatti, la parola afferra immediatamente, dice Hölderlin, il ‘corpo più spirituale’ (den geistigeren Körper). Hölderlin, mi sembra, spinge al limite estremo la possibilità di quel che le parole possono fare e indurre a fare in un contesto fortemente rituale e partecipativo, psicagogico, come era quello delle rappresentazioni tragiche greche. Vi sono dunque molti punti di contatto tra quel che dice Hölderlin e l’interpretazione ritualistica della tragedia greca di René Girard. Ma al di là di Hölderlin e Girard, è evidente che la fisicità della parola tragica greca forse è stata sottovalutata da secoli in cui questa parola è diventata solo parola scritta, ossia letteratura, per smettere di essere performance, evento. Anche Aristotele, qualunque cosa intenda con ‘catarsi’, attribuisce comunque alla parola tragica un valore fisico. Se pensiamo alla dimensione estetica del performativo, dobbiamo almeno interrogarci sulle possibilità di azione che la parola tragica poteva aprire anche dopo la messa in scena.

L’ Antigone termina come sappiamo con una catastrofe totale. La parola di Creonte, la sua legge, diventa assassina non meno della legge di Antigone. Sempre Hölderlin vi vedeva die Umkehr aller Vorstellungsarten und Formen, ‚il rivolgimento di tutti i modi di rappresentazione e di tutte le forme’. La parola tragica performativa, al contrario di quella dell’oratoria, non consolida cioè la razionalità del reale, e nemmeno la razionalità politica o sociale, ma la sconvolge, la sovverte del tutto. Non possiamo esimerci dal chiederci insomma cosa accadeva a chi veniva afferrato dalle parole di Antigone, dalla sua follia e dalla sua ostinazione, e veniva pertanto fisicamente indotto a non essere un puro oggetto del potere, della legge, una macchina. Ogni punto di vista, ogni categoria viene rovesciata dalla parola di Antigone. La sua legge è quella dell’inesistenza di una legge preesistente, la messa in discussione di qualsiasi legame sociale, parentale, di genere, la loro decostruzione attraverso le parole, e la potenzialità ambigua della parola che ha infiniti margini di realizzazione. Per questo il discorso di Antigone può essere ri-performato a secoli di distanza, perché la sua parola tragica ancora può afferrare fisicamente i ‘corpi più sensibili’: ma quella parola performa ogni volta il desiderio di un nuovo ordine, non l’attaccamento ad un ordine antico, che sia la philia familiare o la tradizione o addirittura un amore universale (di cui non è proprio questione nell’ Antigone di Sofocle). Invece che un peana ai ‘diritti umani’, l’Antigone deve essere letta come la rappresentazione della potenza violenta della parola. Del resto, il coro dice che l’uomo è quel che di più deinos, terribile e mostruoso, che esista al mondo. Di tutto questo dovrebbe tener conto chi mette in scena l’Antigone E non è un caso che le performances più significative dell’Antigone degli ultimi cinquant’anni, dal Living Theater al teatro post-drammatico dei Motus e di Wanda Golonka, finisca per annullare la parola tragica per trasformare la tragedia in pantomima, in cui la violenza si esprime col corpo, col gesto, con l’urlo, ed esige che il pubblico prenda posizione (anche fisica) in questa esplosione performativa.

 

Nell'immagine: 'Antigone' di Archivio Zeta